Apologo sulla vita impossibile

Murale di Jerico a Tor Marancia, Roma

 

C’era una volta una donna. Il suo innamorato era sempre infelice, scontento, si lamentava sempre. Suo figlio, poi, sembrava addirittura la odiasse. Lei non riusciva a capire a cosa servisse per lei stare al mondo. Non poteva aiutare il suo innamorato, non poteva essere qualcosa di bello per suo figlio. Era lì inerme, e si sentiva fredda, immobile, incapace di tutto. Avrebbe soltanto voluto morire una volta per tutte.
Un giorno passeggiava all’alba in un prato in città, vicino a casa sua. Era molto triste, ma doveva portare il cane fuori. Si sedette su una panchina e lasciò libero il cane. Si avvicinò dopo un po’ un giovane artista di strada che aveva appena terminato un suo lavoro, la facciata di una casa proprio di fronte a quel prato.

– Ciao! Fece l’artista. Ti piace? Ho lavorato questa notte, solo ora posso vedere alla luce del giorno.
– Non so se mi piace, rispose lei.
– Perché non lo sai? O sì o no.
– C’è un immenso cielo azzurro, illuminato dal sole, fiori bianchi, due dita che stanno per toccarsi… Troppa vita.
– Ti piace la morte?
– Sì.
– Perché?
– È riposante. E non ti fa pensare.
– Come l’arte!
– Solo che dopo l’arte ritorna l’orribile vita. Mentre dopo la morte non c’è nulla, solo altra morte.
– È vero. Dopo la morte c’è solo altra morte. È perfetta. Ed è mortifera. Come tutte le cose perfette.
– Ma io non desidero la perfezione.
– Cosa desideri?
– Valore.
– Spiegati meglio. Cosa è questo valore? Tipo poesia di Erri de Luca?
L’artista strappò un sorriso alla donna.
– Significa il sorriso nelle persone che amo. Stare bene con gli altri.
– Perché non è possibile avere questo?
– Il mio amore è triste, ha un lavoro precario, una casa precaria, un amore precario. Tutto precario. E se ne lamenta sempre. Mio figlio è un adolescente incattivito. Mi ignora. Mi risponde male. È taciturno. È infastidito. La mia vita è povera. Povera di valore.
– Ma tu lo sai che amore è figlio di povertà?
– Sì. Sono laureata in lettere antiche.
– Benissimo, se c’è amore c’è desiderio e se c’è desiderio non c’è amore. Amore come armonia e appagamento.
– Appunto.
– È il valore di cui parli?
– Appunto. Cosa si può fare? Nulla, vedi? A cosa serve il tuo murale pieno di vita se è solo un murale, mentre la vita, quella vera, è priva di valore?
– Dove sta la ricchezza della vita, secondo te?
– Nel sentimento degli altri.
– Nel sentimento degli altri… E nel tuo, no?
– Certo, anche nel mio, ma il mio dipende da quello degli altri. In origine ci sono gli altri.
– Quindi il valore che manca è il tuo, in questa situazione?
– Sì.
– Cioè non vali niente, secondo te? Il contrario di quelli che parlano di shampoo e di creme nella pubblicità?
L’artista strappò un secondo sorriso alla donna, ma la sua risposta fu implacabilmente affermativa.
– Il tuo corpo morto quindi non sarebbe tanto differente dal tuo corpo vivo?
– Nessuna differenza. Tranne che da viva soffro.
– Ma come fai ad essere così certa di non avere alcun valore?
– Dimmi dove è, io non lo vedo. E non mi rispondere che non mi conosci. Anche i miei amici, per tirarmi su, mi dicono che valgo, che sono eccezionale, splendida, ecc. ecc. Chiacchiere.
– Io non ho bisogno di conoscerti per sapere che ti sbagli. Neanche io vedo il tuo valore. Ma so che c’è.
– Odio questi discorsi new age!
L’artista rise.
– Sei ironica! Ecco il primo valore!
– Non fare il furbo con me.
– Con altri potrei? No, te lo chiedo perché, vedi, stai affermando la tua capacità di captare le furbizie. Una forma di intelligenza raffinata…
– Mai negato di essere intelligente.
– E allora, perché disprezzo verso te stessa?
– Perché quello non è valore. Il mio innamorato e mio figlio continuano ad essere inafferrabili per me.
– È il non poter afferrare, insomma, il tuo problema.
– In un certo senso.
– E allora, non ammettendo di lasciare andare gli altri, vuoi lasciar andare te stessa.
– Non fare psicologia da strapazzo.
– Perché è da strapazzo? Se è banale perché è vero, allora ragioniamoci e approfondiamo. Se è ingenuo perché è falso dimmi dove è il vero.
– Avanti, dimmi tu, meglio, dove è il vero…
– Non lo so. Credo però che quella mancanza di amore è il vero amore, perché l’amore è amore per l’altro, non è armonia e appagamento. Guarda ancora il murale. Ha valore perché raffigura cielo e amore, non è cielo e amore. Il fatto che non lo sia, mi spinge a desiderarlo, mi spinge a vedere ciò che non è e a desiderare ciò che non è. L’amore è desiderio.
– Pare Lacan.
– In effetti pare Lacan. Ma non per questo ciò che affermo è meno credibile.
– Ma se non ho armonia e appagamento, ho solo caos. Non posso convivere col caos.
– Guarda quel caos come una immensità di cose da scoprire.
– Non mi interessa scoprire.
– Eppure io immagino bellissime ricchezze dentro di te.
– Frasi fatte. L’unico vero che conosco è che voglio lasciar andare me stessa perché non valgo nulla.
– Quindi se tu ti uccidessi, nessuno piangerebbe per te, neanche il tuo innamorato troppo preoccupato dai suoi mali e tanto meno tuo figlio che ti odia senza un perché?
– Esattamente.
– E perché non puoi credere, anche solo per un attimo, che invece vali, anche se non lo vedi, e che si sbaglierebbero se fossero indifferenti alla tua morte?
– Per un attimo posso anche crederlo, ma poi torno al mio pensiero dominante…
– … Che può essere sbagliato. Che io credo sia sbagliato. Anche se della mia opinione capisco che te ne freghi.
– Infatti.
– E cosa farai allora?
– Andrò al mare, credo.
– Oggi stesso?
– Sì.
– Ma non è una bella giornata di sole, come nel murale…
– Appunto per questo. Sarebbe più difficile al sole e con la gente che intorno gioca e ride…
– Più difficile perché vedresti che la vita è bella…
– Crederei per qualche tempo all’inganno che mi distoglierebbe dal fare la cosa giusta.
– La cosa giusta sarebbe tuffarti in mare in tempesta e lasciarti andare alle onde?
– Sì. Senza la distrazione di stupide illusioni penso che sarebbe molto facile. Sento una pesantezza in me, proprio fisica, che sono sicura che mi aiuterebbe ad annegare.
– Una pesantezza fisica?
– Sì, penso di pesare molto.
– Ma non sei grassa, anzi, direi che sei minuta.
– Credo invece che ci siano mattoni in me… Non avrò bisogno di infilarmi sassi nelle tasche del cappotto.

A questa parola la donna si alzò e si incamminò verso la strada. Il cane le fu immediatamente accanto e lei lo legò al guinzaglio. Fece un cenno di saluto all’artista. Non si girò a guardare il murale, anche quando, sulla strada, era giunta quasi a sfiorarlo con le spalle ferme e ritte, niente affatto curvate.
L’artista di strada la osservò mentre svoltava l’angolo e scompariva dall’orizzonte di cemento e lamiere. Prese il suo sacco e si incamminò verso la linea opposta, dove tra il prato e il cielo spuntavano case lontane.
La donna arrivò al mare quel giorno stesso e si lanciò senza indugi tra le onde.
Fu ritrovata poco tempo dopo – stesa sulla spiaggia col viso nascosto contro la sabbia – da un gruppetto di podisti che correva al tramonto invernale. La cronaca della sera già parlava di una donna che molto probabilmente si era suicidata buttandosi nelle gelide acque di quel pomeriggio.
Aveva letto la cronaca l’anatomopatologo incaricato dell’autopsia. Era il mattino del giorno dopo. L’anatomopatologo si era svegliato molto presto ed aveva riempito il suo corpo di caffè, presi uno dopo l’altro. Sezionare cadaveri era il suo lavoro e gli piaceva svolgerlo con attenzione, meticolosità. Mai stanco, mai annoiato.
Ma questa volta la sorpresa per lui fu molta e il suo lavoro fu ancora più interessante del solito.
L’anatomopatologo, infatti, aveva cominciato a sezionare il cadavere e aveva scoperto l’intestino. Non ci mise molte a capire che quello era un intestino speciale. Innanzitutto vide che era giallo. Lo toccò. Capì da quella inequivocabile consistenza che si trattava di un organo fatto interamente di oro massiccio.
Continuò ad esaminare gli organi di quel corpo misterioso con una curiosità ed un’emozione che crescevano ad ogni secondo. Fu quasi immediato trovare quindi il gigantesco rubino puro del cuore, illuminato dal verdeazzurro diaspro dei polmoni. Il sangue, di seta, era impalpabile tra le dita. I reni, incastonati tra le perle, brillavano di lucido argento. La milza era uno stupendo topazio. In questo modo, preso da una risoluta euforia, l’anatomopatologo scoprì via via tutti i materiali preziosi di quel meraviglioso cadavere, e, per ultimo, l’utero, una gemma turchese persiana, bella come quel cielo del murale, e accompagnata dai limpidi diamanti delle ovaie.
E così, alla fine, l’anatomopatologo comprese senza alcun dubbio, mentre ricopriva gli organi con i lembi di pelle che subito dopo iniziò a ricucire, il valore di quella donna, e la causa del suo annegamento.

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