Il ragazzo Gobetti

F. Casorati, Ritratto di Gobetti.
Tempera su tela

 

     Tì moi sun doùloisin

Rubo il motto a Gobetti che lo usò per le sua casa editrice e che mutuò a sua volta, credo, da Alfieri. Io lo traduco così, Cosa c’entrano con me gli schiavi? – assenti le manie di grandezza e presente al contrario il mio conto aperto con la libertà.
Seppi per tempo di Gobetti, citato su un manuale di letteratura, in righe di cui non ricordo nulla ma che arrivarono a colpirmi. La seduzione mi spinse a comprarmi, sull’onda della passione per Dostoevskij, Il paradosso dello spirito russo, che non lessi avidamente, come si dice in questi casi, perché non lo capivo.
Il Paradosso è una raccolta di saggi e articoli che Gobetti scrisse ad un’età che va dai diciotto ai ventiquattro anni, più o meno la mia di quando tentai di leggerlo, e il suo discorso già arrivava da un mondo troppo colto ed intelligente per giungere alla mia portata. Lui era già così avanti, insomma, da poter creare il mito, quello che pian piano trasse me, lettrice folgorata delle Lettere luterane e delle Ceneri di Gramsci, indegna delle Lettere dal carcere e in un certo senso sollevata, del femminile, asciutto Diario partigiano della donna quarantenne coraggiosa Ada Gobetti, lungo la via ineluttabile delle mie predilezioni.

Gobetti era un giovane alto, e molto esile, credo. Chiaro di capelli, di quel tipo di capelli ondulati e un po’ ribelli che solo la grazia adolescenziale tollera. Possedeva, poi, altre grazie, quella del letterato pieno di vita nella Torino degli anni ’20, quella di un ragazzo già uomo, polemico e coraggioso, pallido, mite, credo, e luminoso. Perché lo sguardo che si posa calmo sull’altrui essere umano, pieno di fiducia nel giudizio, nella ragione e nella coscienza, è appunto luminoso.
Gobetti aveva davvero molto da dire e da fare e immagino per questo esprimesse una specie di sorriso nel suo sguardo, se si posava su amici o conoscenti, che restava pacato nel suo semplice entusiasmo. Era stato uno scolaro pieno di interesse. “Bravissimo”, lo definì uno dei professori con cui ebbe a che fare. Colpiva i suoi insegnanti, infatti, coi quali poteva diventare del tutto naturale entrare in una relazione alla pari, grazie alla schiettezza che lo definiva.
Il ragazzo Gobetti possedeva delle idee. Le tratteneva in sé, intendo, e non se le faceva risucchiare dagli altri. Tanto meno il fascismo avrebbe potuto intervenire su di lui, allo stesso modo con cui chi è granitico di idee non è scalfito, se non con le botte.
Ma colui che per scalfire ha avuto bisogno delle botte, non avrà in realtà potuto nulla, come è ovvio, perché non c’entrano gli schiavi con chi deve aver preso le botte per essere scalfito. Chi deve aver preso le botte per essere scalfito sarà in ogni modo salvato, ed è per quello che Gobetti ebbe a dire: “La coerenza ci salverà”, e lo diceva marciando inesorabile nelle sue cose, in mezzo e verso le sue attività. Era un’attività, la sua, così piena, così risolta nel suo desiderio, nella sua volontà, che non poteva essere davvero nient’altro che un restare salvi.
Ed un restare salvi è ciò che io vedo in quello che Gramsci poté dichiarare su di lui, che senz’altro riporto e accetto come ciò che intendo per Etica: “La sua caratteristica più rilevante era la lealtà intellettuale e l’assenza completa di ogni vanità e piccineria di ordine inferiore.”

Gobetti aveva fiducia negli operai, ne comprendeva la nobiltà. Credo dovesse sembrargli quel dato di autenticità, di lealtà, come l’ha chiamata Gramsci, che avrebbe potuto finalmente cambiare, innanzitutto, almeno le sorti italiane.
Immagino anche che in quel modo che aveva di riunire intorno a sé e alle sue attività tutte quelle persone (molte giovanissime) come la stessa ragazza di cui si innamorò, Ada, o le sorelle Marchesini o Carlo Levi, Mario Fubini, Santino Caramella, Natalino Sapegno, o intellettuali più anziani, ad esempio lo stesso Gramsci e Augusto Monti, che fu professore di molti dei più grandi e il più amato, o suoi insegnanti del passato e del presente come Luigi Einaudi o studiosi di fama addirittura europea come Benedetto Croce, si trovasse una analoga fiducia. Non direi “dare voce all’etica” perché l’etica stessa era la voce. Fondare i giornali, fin da adolescente, ed una casa editrice, accendere un dibattito su quelle pagine con gli intellettuali che amava, per poi vedersele oscurare, cancellare, significava dare voce.
Forse sarebbe bene, dovendo spiegare ai ragazzi come vedo il fascismo, leggere loro le ordinanze contro le edizioni del ragazzo Gobetti, le cui grazie erano la sua sola forza, ma granitica, la grazia dello studio, dell’amore che si scelse, di quelle idee e della loro voce.
Non vedendosi – come penso – debole, indifeso e incapace, forse Gobetti non si sentiva mai in balia dell’altro, anche se quest’altro era un sistema, era il fascismo. Ne posso trarre considerazioni sulla paura, la rabbia, l’asserzione e sul rapporto particolare che si instaura tra di loro, nel momento in cui mi chiedo se chi ha subito una grande ingiustizia e ne risente e si sente arrabbiato, è in grado di restare assertivo. Credo che, se esiste una rabbia assertiva, è quella gobettiana, quella del ribelle onesto, dell’uomo delicato, coraggioso e rivoluzionario.
Eppure avrebbe potuto non dico accasciarsi, ma senz’altro restare, rallentare sulla china della prudenza, non sormontare quel crinale di passioni e stoicismi al solo sospetto che una certa debolezza fisica lo destinasse al limite.
Durante il periodo del servizio militare, a partire dall’ inverno tra il ’21 e il ’22, fu congedato per sei mesi a causa di una bronchite. Affioravano problemi di tipo cardiaco.

Dicevo, era stato uno studente curioso ed eccezionale. Studiava letteratura, storia, filosofia e si laureò in giurisprudenza. Si interessava anche di teatro, per esempio, e di arte.
Era amico del pittore Felice Casorati e ne scrisse parecchio. Mi ha colpito il fatto che Gobetti non si soffermasse, analizzando i suoi dipinti, a commentarne la figurazione, nel senso di un’emergenza isolata e per ciò stesso ridondante; una rinuncia che a me interessa quando si parla di arte e che penso si debba tener ferma anche per la letteratura. Gobetti giungeva all’essenza, insomma, allo specifico: linee, forme, luce/ombra, colore.
A Casorati fece conoscere, ancora diciannovenne, una sua coetanea, perché quello la prendesse come allieva, Nella Marchesini. Cito in particolare questa pittrice perché era cognata di uno Gliozzi che ho incontrato nelle mie letture sull’ambiente torinese tra le due guerre e durante la Resistenza.
Leggendo infatti il Diario partigiano, mi ero imbattuta in un brano che raccontava di quello stesso Gliozzi – un certo Mario – col quale ho un avo in comune e che fu citato da Ada come anche suo stesso cognato e “professore di matematica”.
Mario fu in effetti un matematico e fisico, docente al liceo Cavour e poi all’Università di Torino, vicepresidente, subito dopo la Liberazione, della sezione torinese – presieduta da Augusto Monti – della FNISM (la federazione degli insegnanti fondata nel 1901 da Gaetano Salvemini e Giuseppe Kirner), collaboratore tra i più intimi del matematico Giuseppe Peano ed antifascista. Sposò una delle due sorelle di Nella. Le tre sorelle Marchesini erano amiche intime di Piero ed Ada. Ad esse fu dedicato dai due un loro libro di traduzioni russe. Anni dopo la morte di Piero, Ada Gobetti avrebbe sposato il fratello di quelle, Ettore.

Le prime letture sull’ambiente torinese le devo a Pavese, quando incontrai un mare di nomi lontani, irraggiungibili in ciò che di grande rappresentavano, e però, anche, così in intimità con me, con la mia curiosità di adolescente, un’intimità creata nella mia fantasia ma nello stesso tempo rivelata in quelle lettere, in quel diario, nei quali già vedevo o avrei voluto vedere tutto ciò che poi, molto tempo dopo, avrei rintracciato, per esempio, in certi libri (Una giovinezza inventata, Un sogno del Nord, Nei mari estremi) di Lalla Romano, la scrittrice, pronipote, piena di ammirazione e affetto, di Giuseppe Peano (e per questo motivo conoscente dello Gliozzi) e l’artista, allieva anch’essa di Casorati.
Erano le case di quella Torino che lei descriveva, erano la collina e il Po, l’Università, e quegli incontri quasi timidi tra poeti, scienziati, artisti, ma che dimostravano spesso una qualche inevitabile sincerità, e che immaginavo finissero anche, quando si rincasava in soffitte dove filtrava un sole dorato al tramonto, in qualcosa che si fondesse nell’apparire oscuro, rude, piccolo borghese e quasi povero, ed allo stesso tempo sereno, ironico e, appunto, pieno di sole.
Sto parlando di gente del livello di Leone Ginzburg, per intenderci, per me nient’altro che un eroe, e di Natalia, grazie alla quale agganciai Lessico famigliare, Le piccole virtù e Un’assenza alle già citate letture, per l’ulteriore novero di personaggi e conseguente accresciuta rete di relazioni.
Ho immaginato con maggiore forza quelle vecchie case borghesi, in una specie di nostalgia, quelle soffitte, più che altro, come dicevo, umili e polverose come era spesso umile e all’antica la gente che vi abitava, ma che alla necessaria dignità di un’esistenza semplice e resa austera dalla passione per lo studio e la bellezza, unì a volte il coraggio di chi sa rischiare tutto, anche la vita.
Una persona per me importante poco tempo fa mi ha parlato di cosa significhi per la sua cagnetta “essere diretti”. Un paragone con un cane non è blasfemo. Il modo di essere diretti dei cani è una delle semplificazioni nobili dell’agire, umano o canino che sia, e credo abbia molto a che fare anche con un modo di essere diretti con se stessi e con la propria vita.

Piero e Ada avevano diciassette e sedici anni quando, nel ’18, si conobbero: lui le aveva scritto per la prima volta chiedendole di far parte della redazione della sua rivista “Energie Nove”.
Ada aveva un viso grazioso, gli occhi scuri e vivaci, vispi; era appassionata di musica, era allegra, dotata di una inequivocabile ma anche misteriosa leggerezza.
Iniziarono ad amarsi presto, e subito cominciarono a studiare insieme. Impararono insieme il russo e tradussero le novelle di Andreev. Si sposarono nel gennaio del ’23.
Un mese più tardi Piero fu arrestato per la prima volta. Seguirono una perquisizione senza mandato alla redazione de “La rivoluzione liberale” il 9 giugno del ’24; il sequestro del numero del 10 giugno, nel giorno del rapimento del deputato Matteotti, alla cui morte Piero si ribellò rendendo, come sempre, pubblico il suo pensiero; le due diffide alla “Rivoluzione liberale” nell’ottobre e nel novembre del ’25; la conseguente soppressione della rivista e la contemporanea imposizione di cessare qualsiasi attività editoriale, per cui Piero fu obbligato a rinunciare alla direzione del “Baretti”, che sopravviveva.
Piero un giorno era stato picchiato davanti al portone della casa dei suoi genitori da una dozzina di fascisti. Era il 5 settembre del ’24. I suoi disturbi cardiaci non poterono che rendere più gravi gli effetti delle percosse, al punto che più di un anno dopo, col primo inverno del ’25, nel periodo, dunque, del più grave accanimento fascista contro le sue attività, i medici ancora si preoccupavano del suo riposo.
Piero ad un certo punto si impose l’esilio: partì per Parigi il 3 febbraio del ’26, lasciando Ada ed il loro figlio, nato il 28 dicembre, a Torino, in attesa di raggiungerlo.
Resta una fotografia di Ada col bambino in cui lei stessa sembra una bimbetta troppo giovane per essere mamma, coi suoi occhi intelligenti ed il sorriso quasi sfrontato. Ada nel suo diario in quei giorni appuntava, rivolgendosi allo sposo lontano, cose piene di pensiero e speranza, senz’altro, e lo faceva nella stessa assenza del pensiero, che rendeva infantili quelle frasi, e nella disperazione di una tenerezza troppo vera per essere vissuta: “Ti ho mandata la fotografia del piccolo: come sorriderai vedendolo! E come potrai non volerlo subito vicino, il bimbo che agita le manine tra le braccia della sua mamma che sorride?”, righe dalla grafia veloce, orgogliosa, in cima alla parte sinistra del quaderno aperto.
Segue a queste parole un lungo brano che termina, sulla pagina accanto, nell’augurio: “Con tanto ardore attendo questa gioia fino a soffrirne. Amore mio, presto, presto. Non vivrò più che nell’ansia di questa attesa.”
Piero a Parigi il 6 febbraio chiedeva un medico, in quanto malato per una bronchite aggravata dai suoi problemi cardiaci. Il 13 fu trasferito in clinica.
Le annotazioni di Ada sul suo diario arrivano alla metà della pagina. Segue una sbrigativa cornice fatta di tratti irregolari. Poi la data del 16 febbraio e sotto, solo questo, a caratteri più grandi di quelli sopra utilizzati: “Non è possibile. Non deve essere possibile”.
La notte tra il 15 e il 16 febbraio Gobetti infatti era morto, all’età di ventiquattro anni, mentre suo figlio non aveva ancora due mesi di vita.

 

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Nota: molte delle notizie riportate sulla vita di Gobetti, le ho apprese leggendo il libro Piero Gobetti di Cesare Pianiciola, Gribaudo, 2001.

Commenti

  1. Maria

    Stupendo. Sembra di essere , proprio in questo momento, accanto a tali personaggi, nella Storia.
    E l’avo in comune , per me un mistero, accresce la curiosità di conoscere meglio quel mondo.

    1. Autore
      del Post
      Daniela Gliozzi

      Grazie, Maria! Mario Gliozzi credo davvero sia stata una persona notevole. E’ citato nel “Diario partigiano” di Ada Gobetti e, se ricordo bene, ne “I mari estremi” di Lalla Romano. Ha scritto un’importante “Storia della fisica”, libro ripubblicato abbastanza recentemente. Era un matematico di prim’ordine e si è dato molto da fare per la scuola, per una scuola laica e libera. L’avo in comune era suo nonno e nostro trisavolo (cioè nonno di nostro nonno), il farmacista Giovan Battista Gliozzi!

  2. Attilio Coco

    Due complimenti. Il primo per la scrittura così limpida e immediata. Il secondo per l’oggetto della scrittura, che di questi tempi è importante come non mai. Si respira amore per la giovinezza consapevole di sé e per la cultura come necessaria conquista di libertà, di bellezza, di vita piena. Hai scritto qualcosa di necessario.

    1. Autore
      del Post
      Daniela Gliozzi

      Attilio, dette da te certe cose acquistano un bel peso… Grazie davvero per il tuo commento che mi fa un immenso piacere.

    1. Autore
      del Post
      Daniela Gliozzi

      Paolo, grazie! Beh, la lucidità quando si parla è una buona qualità, ed una sfida per me, certe volte… Scrivere mi rilassa di più!

  3. Marina

    Molto toccante…La storia di un grande uomo che ha lottato per la giustizia e la libertà e che la violenza fascista, malgrado tutto, non ha potuto mettere a tacere.

    1. Autore
      del Post
  4. Valentina

    Chiaro, commovente, chi legge può sentirsi per qualche minuto, che poi continuerà a risuonare, come loro, perciò purificato dal candore intenso di certe persone e delle loro vite, e della pagina bianca scritta con solchi necessari…

    1. Autore
      del Post
  5. Elda

    Grazie per aver raccontato una storia svoltasi in luoghi per me tanto cari e familiari…quella Torino,quel Piemonte che tutt’ora conservano la memoria di personaggi come Gobetti,Pavese o Einaudi.Grazie per la tua scrittura fluente,coinvolgente,comunicativa…mi e’ venuta voglia di leggere libri che non conosco o rileggerne altri letti in età’ “acerba”…per assaporare di nuovo pagine di cui forse non ho gustato appieno il significato!!!!Grazie anche per aver raccontato la storia di un uomo con grandi idee e grandi passioni…abbiamo bisogno di leggere di uomini cosi,in tempi cosi confusi e poveri di idee come i nostri.

    1. Autore
      del Post
      Daniela Gliozzi

      Elda, ti ringrazio di cuore. Tu lo sai, conosco poco Torino (ci sono venuta un paio di volte e, se ricordo bene, in entrambe ti ho vista!), per nulla il Piemonte. Eppure sono luoghi incontrati così tante volte sui libri, che posso ben dire facciano parte di me.
      Ma poi è il potere dell’immaginazione quello che dà l’euforia. Prima o poi andrò a Torino per studiare un po’, soprattutto al “Centro studi Piero Gobetti”, e per guardarmi intorno, è ovvio. Ma viversi le assenze non è neanche tanto male!

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