La Lezione Manganelli

“Se ogni discorso muove da un presupposto, un postulato indimostrabile e indimostrando, in quello chiuso come embrione in tuorlo e tuorlo in ovo, sia, di quel che ora si inaugura, prenatale assioma il seguente: CHE L’UOMO HA NATURA DISCENDITIVA. Intendo e chioso: l’omo è agito da forza non umana, da voglia, o amore, o occulta intenzione, che si inlàtebra in muscolo e nerbo, che egli non sceglie, né intende; che egli disama e disvuole, che gli instà, lo adopera, invade e governa; la quale abbia nome potestà o volontà discenditiva.”

Giorgio Manganelli, Hilarotragoedia [1]

 

Molti anni fa, durante i miei primi mesi universitari, il nostro professore di Storia della critica letteraria, Mario Costanzo, ci sottopose in una dispensa la “Lezione Manganelli”, invitandoci a scriverne alcune riflessioni.
La “Lezione Manganelli” era stato un seminario sulla letteratura, svolto pochi anni prima in facoltà da Giorgio Manganelli.
Riporto qui per intero il mio scritto su quella lezione.

*********************

Già dalle prime battute si nota in Manganelli la preoccupazione di avvalorare una certa proprietà della parola. Ha parlato di una “qualità cattivante, insidiosa, aggressiva e soprattutto estremamente elusiva” che essa possiede come tale, al di là del suo significato semantico. E talvolta proprio a causa di questa particolare qualità, i significati che si trovano sul vocabolario addirittura “non servono, non sono utili”.
Ma come è possibile che la parola di per sé possa dire tutto? Perché può accadere che di fronte alla sonorità della frase il resto non abbia più importanza?
La parola è evidentemente messaggera di qualcosa che è nascosto, quasi imprigionato in un remoto luogo dell’Io, di una sensibilità protesa ad andare oltre la realtà fenomenica per scoprire altre realtà.
E’ emblematica l’esperienza dei surrealisti che, seguendo la linea tracciata da Rimbaud, arrivarono ad attingere a questa specie di magia attraverso l’abbandono fantastico, lo stato allucinatorio. Questo è un atto di liberazione, nel quale è possibile esternare l’essere senza alcuna intrusione della ragione; in tale modo prende corpo l’autenticità, come misura di questo processo.
Quel qualcosa sfugge alla nostra capacità di espressione, ma l’importante è che proprio attraverso l’evocatività della parola esso può essere avvertito dal destinatario.
E’ frutto di un impulso dettato dal mistero dell’essere uomo e come tale è profondamente significativo.
Ma Manganelli si spinge oltre. Arriva ad affermare che le parole non esprimono assolutamente niente della cosiddetta idea, che esse costruiscono un disegno che di per sé non vuol dire nulla.
E’ logico che non ha importanza, o almeno non sempre, che esprimano ciò che spesso l’autore crede solo di pensare, ma pur sempre portano in sé l’impronta di un sentire, di un essere intimo, e per questo non si può affermare che non abbiano senso.
Se da quello stimolo scaturisce la parola, è fondamentale che dal fluire ci si faccia in un certo senso guidare, o meglio trascinare, con l'”ignoranza di ciò che sta accadendo”.
E’ necessario quindi aspettare la parola, lasciandosene sedurre, senza il bisogno di fare altro, e quanto più si ha fiducia in questo “accadere” tanto più si sta svelando quel mistero, la dimensione che ci si porta dentro ineluttabilmente perché propria dell’essere uomo.
Quindi è ovvio, a questo punto, che l’accadimento non è casuale. Non penso che lo scrittore sia solo un testimone dell’accadimento verbale. Esso esiste in quanto esiste lo scrittore. C’è l’individuo nella letteratura, anche se non è un individuo sociale (o almeno non sempre).
L’evento della verbalità non lo definirei neppure, come lo ha definito Manganelli, “fatuo”. Esso può apparire vuoto e vano, ma non lo è: qui non si tratta di puro gioco, perché ciò implicherebbe la ricerca della parola senza la spinta a sceglierla, senza il moto verso un suono, ma verso anche un significato che da quel suono non può prescindere, nell’atto unico della nostra stessa ricerca, perché quel suono evoca, dà un senso, esprime.
Ed è normale che tale presenza di cui le parole portano una oscura traccia, non sempre, anzi quasi mai, può essere spiegata né dallo scrivente, proprio perché frutto di un evento misterioso, né dal lettore che talvolta si sforza ottusamente nella fatica dell’interpretazione, ma altre volte è in grado di abbandonarsi, e lì non importa che cosa di preciso avverta, in quanto si tratta pur sempre di un qualcosa; e il miscuglio di echi ed immagini, non riassumibile e non interpretabile, assume così tante identità quanti sono coloro che lo ricevono.
Per questo è facile comprendere Paul Valéry quando afferma che la poesia non si interpreta, che la poesia è. Il poeta è inerme di fronte all’evento letterario, non conoscendone la natura: è come se le parole agissero per lui e quindi lui non creasse nulla. Ma invece il poeta crea proprio nel momento in cui, consapevole di questa dimensione, “comincia ad essere parlato”.
In questo senso si può accogliere la definizione di letteratura come un andare “fuori tema”, come “chiacchiera”, proprio perché essa ci “propone delle immagini che non erano mica previste da noi o che non sapevamo nemmeno che le pensavamo”. Appunto, non lo sapevamo, ma le pensavamo, noi e nessun altro, come nel sogno. A questo punto non vedo come si possa parlare di “estraneità dell’autore”.
Finora ho parlato di un certo nucleo che ha molto poco a che vedere con l’Io sociale, con la scorza fatta di finzione, di inevitabile menzogna, di cui siamo ricoperti. Ma anche di questo secondo Io la letteratura non può fare completamente a meno. Per quanto sia presente uno sforzo, il ritorno allo stato germinale è impossibile. Spiace ammetterlo, ma dall’Io sociale non si può prescindere. Ma se raggiungere la ‘purezza’ attraverso la sfrondatura di tutto il materiale in sovrappiù non ci è dato, solo la fatica, il tentativo di ascoltare se stessi, è sufficiente.
Penso sia estremamente affascinante proprio questo rapporto creato dallo sdoppiamento in superficie e profondo che sfocia nel contrasto, nel conflitto. L’opera letteraria ha in sé due contenuti, quello dato dal ‘significato’ e quello dato dal ‘significante’. La forma diventa contenuto, il più profondo, nel momento in cui la parola, il suono, la pausa, il ritmo suggeriscono richiami, immagini, sensazioni, sentimenti.
L’idea che lo scrittore crede di possedere (e che quindi non ha così tanta importanza, di per sé) non è comunque “inutile ed altamente pericolosa”, poiché, nonostante essa cerchi ingenuamente di dominare le parole, non riuscirà a negare loro quello spazio di cui abbisognano perché spiri quel sottile vento di mistero, e ad evitare questo “lasciarsi corrompere”, perché, essendo ciò nella natura dell’uomo, è “intimamente necessario”.
Ciò richiede pur sempre un’importante condizione, vale a dire l’impulso alla comunicazione (la quale non deve necessariamente implicare l’esistenza di un destinatario): solo chi ha diversi fini da quello di esternarsi può dominare la parola a suo piacimento, ma il risultato non sarebbe letteratura.
Manganelli afferma che la letteratura non è sociale. L’atto della scrittura può in effetti fare a meno di una finalità sociale, ma penso che, a prescindere da questo, la società possa trarne giovamento nel momento in cui il testo diviene testimonianza dell’esperienza – che è appunto quella del momento verbale – di un rapporto con l’interiorità. Questo è già di per sé utile.
La letteratura può non insegnare nulla, ma essa dà, fa dono di sé. Esiste un rapporto attivo tra la letteratura e la società: si influenzano a vicenda, e questo non è un male, in quanto ci sono il confronto, la lotta, la spinta alla liberazione.

*********************

Di queste righe scritte da una me stessa diciannovenne priva di conoscenze e stratificazioni, resta, ora che le leggo da “adulta”, soprattutto la presa d’atto del dramma intrinseco all’essere umano, quel dramma che lo priva, lo riduce, ma che anche gli dà, gli si offre, privandolo. La tragedia è la messa in scena di un’imposizione, quella del linguaggio.
Il linguaggio ci impone lo scarto tra ciò che preesiste a noi, esiste come codice predefinito, e una parole che si genera solo in quanto ha già luogo quel codice, una parole che, tuttavia, rimane tutto ciò che siamo in grado di dire.
Il linguaggio verbale è stato frantumato, piegato, trasformato e mescolato nella letteratura degli ultimi due secoli, ma quella parole si conferma parole, cioè quello che, per sua definizione, non può prescindere dal codice di riferimento, dalla langue.
Lo sforzo è a partire dall’idea che va comunicata, l’impulso di cui parlavo nel mio scritto. La comunicazione richiede l’uso del codice. Ma quell’uso è la parole. L’individuo mette in atto una potenza che è fuori di lui. Quell’atto, quel gesto individuale, tuttavia non può fare a meno della potenza, e l’uso è di per sé un attrito, un andare non deliberato contro il codice, ma insito nella volontà di comunicazione. Il linguaggio attualizzato è un atto di ribellione, anche pacata, anche non scelta.
Quell’attrito, dunque, non sarà mai risolto. Io mi allontano dal codice quando parlo, e la mia parole è lontana da quello che voglio dire. Perché la parole usa qualcosa che non sono io. Io, per essere l’origine – l’unico ammissibile punto di partenza di ciò che dico – non posso utilizzare la fonte di me stesso.
La tragedia del poeta è quindi la tragedia dell’essere umano che usa il linguaggio e si inserisce nel codice. Si colloca in ciò che è sopra e prima di lui e nella cosa sopra e prima di lui è individuo che esprime se stesso, ma lui è individuo che dice se stesso nella non libertà di essere parte inevitabile del codice.
Il dramma del poeta, privato della sua libertà, è tuttavia anche l’opportunità del poeta nella sua stessa costrizione, quella di cercare negli spazi della sua parole quanto più si avvicina a ciò che vorrebbe dire, ma mai identico a ciò che vorrebbe dire.
Insomma, tra il mio Manganelli di molti anni fa, con l’appendice sull’inconscio che ho qui riportato, e ciò che mi accade oggi, si è inserito Lacan.
Scelgo dai suoi Seminari due luoghi famosi, significativi e per me molto belli.

“[…] posso porre d’acchito che la psicanalisi ci mostra essenzialmente quella che chiameremo la presa dell’uomo nel costituente della catena significante. Questa presa è indubbiamente legata a ciò che è tipico dell’uomo, ma non è coestensiva a esso. Se l’uomo parla, per parlare deve entrare nel linguaggio, e in un discorso preesistente. Questa legge della soggettività, che l’analisi mette particolarmente in rilievo, ovvero la dipendenza fondamentale della soggettività dal linguaggio, è così essenziale che su di essa scivola tutta la psicologia.” [2]

“In quanto tale, il soggetto si situa in rapporto a ciò, vi è iscritto, e da ciò è determinato, con una determinazione di tutt’altro registro da quello delle determinazioni del reale, dei metabolismi materiali che l’hanno fatto sorgere in quest’apparenza di esistenza che è la vita. La sua funzione, in quanto continua questo discorso, è di raccapezzarsi al suo posto, non semplicemente come oratore, ma in quanto, fin dall’inizio interamente determinato da esso. Ho spesso sottolineato che fin da prima della nascita, il soggetto è già situato, non soltanto come emittente, ma anche come atomo del discorso concreto. È nella linea di danza del discorso, è lui stesso, se volete, un messaggio. Gli è stato scritto un messaggio sulla testa, e si situa interamente nella successione dei messaggi.” [3]

Lo stile è lo stigma dell’incomunicabilità. Inerme, materializza ciò che ti sforzi di esprimere. Inspiegabile, resta fermo soltanto a svelarne qualcosa, una minima cosa, consapevole della propria insufficienza. È quella resa, successiva al lavorio, allo sforzo di manifestazione, l’unica possibile testimone dell’atto creativo, del dispiegarsi di una parola dominata dal linguaggio, ma dominatrice, per ciò stesso, dello scrivente, e mai viceversa. Ecco perché lo stile con l’artificio non c’entra nulla.

________________________________________
[1] G. Manganelli, Hilarotragoedia, Adelphi, 2006.
[2] J. Lacan, Il seminario. Libro VI. Il desiderio e la sua interpretazione (1958- 1959), Einaudi, 2016.
[3] J. Lacan, Il seminario. Libro II. L’Io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicanalisi, Einaudi, 1991. Ho ricavato la citazione da M. Recalcati, L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Einaudi, 2014, libro bello, di cui sono molto debitrice.

Commenti

  1. Attilio Coco

    “Lo stile con l’artificio non c’entra nulla”. Una considerazione semplice, quasi irrevocabile, eppure esaustiva. Per quanto possa valere una esperienza del tutto personale, ogni volta che penso a Manganelli penso proprio al suo “stile”. Ogni volta che leggo qualche sua pagina (in particolare quelle che danno corpo allo splendido “Il rumore sottile della prosa”) quello stile mi cattura e mi tiene inchiodato. Forse perché svela quanto scrivere possa cogliere nel profondo il senso dell’emozione e della parola capace di coglierla. Con l’accortezza di sapere bene che tra vita e letteratura non c’è sovrapponibilità ma che la seconda, probabilmente, si sforza di dire la prima. In questo ci vuole, credo, una sensibilità esasperata. Chi altro c’è, oltre a Manganelli? Pietro Citati, probabilmente, che si immerge e riemerge dai testi universali della letteratura per trarne proprio lo stile. Claudio Magris, sicuramente, che con il suo bello scrivere (“Utopia e disincanto”, “Alfabeti”, “Microcosmi”, “Danubio”, “Un altro mare”…) con apparente leggerezza avverte che parlare bene e scrivere bene significa pensare bene. Con tutto quello che ciò può significare. E poi, certo, Glenn Gould. Ovviamente. In una dimensione artistica diversa ma che pure ha solleticato la grande letteratura.
    Ci vuole, continuo a credere, una sensibilità esasperata. In questa prospettiva, forse, si può accettare la sintesi del conte De Buffon che, con il suo “lo stile è l’uomo stesso”, se la sbrigava in poco più di un secondo.
    Ovviamente chiedo scusa per la prolissità, ma questo tuo post è davvero stimolante.

    Ah, dimenticavo. La scrittura, Daniela, è la tua dimensione.

    1. Autore
      del Post
      Daniela Gliozzi

      Grazie, Attilio. Sei un punto di riferimento per me, lo sai, e dunque leggo con molto interesse, con studio, direi.
      Quando si parla di stile mi tremano sempre i polsi. Dico cose “esaustive” forse solo perché scrivo presa da impulsi che riguardano più il lato destro del cervello che quello sinistro: insomma, a cosa finita, recupero razionalità e mi chiedo se tutto davvero torni. La risposta non sempre c’è.
      Manganelli è un autore per me emblematico. Cosa è davvero la sua meravigliosa scrittura? Quando una certa scrittura emerge con tale forza mi chiedo sempre cosa sia davvero successo. Perché molti scrittori abili, che hanno, come si dice, la tecnica, falliscono? Perché invece gente come Manganelli si innalza? Dove c’è il cliché e dove no? Dove scopro la sincerità e l’assenza d’artificio? Le parole dicono, rispondo. In fondo non mi sono tanto allontanata dai miei primi timidi passi nella riflessione letteraria di diciannovenne. Se le parole non sono vuote, diversamente da come affermava Manganelli nel suo stesso intervento, di cui ho qui riportato il mio vecchio commento, allora possono diventare letteratura. In Manganelli le parole non sono vuote (“vuote” nel senso di “puramente evocative”). Quel “puramente” non può andare bene, secondo me.
      Quando leggo (e leggo molto meno di te, purtroppo), io cerco quello: cosa emerge come unico e in quell’unicità è terribilmente vero? Quando trovo quella cosa resto secca. E gli stili possono essere così diversi: Petrarca, Proust, Rosa Matteucci. Cosa ci azzeccano l’uno con l’altro? Per quel che può valere, semplicemente li amo.
      Grazie ancora, Attilio, per esserti dilungato per me. E per quello che dici alla fine, che mi fa arrossire.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *