La vita intesa come immagini

Fotografia di Daniela Gliozzi

 

“Di tutti i peccati della psicologia, il più mortale è la sua indifferenza per la bellezza. Una vita, in fondo, è una cosa bella. Ma, leggendo i libri di psicologia, non lo si immaginerebbe mai. Ancora una volta, la psicologia viene meno di fronte al suo oggetto di studio.
L’apprezzamento estetico delle biografie non trova spazio né nella psicologia sociale né in quella sperimentale, e nemmeno nella psicologia terapeutica. Il loro compito consiste nell’indagare e nello spiegare, e se per avventura dovesse saltar fuori nel materiale studiato un fenomeno estetico […], esso verrà spiegato da una psicologia priva in partenza della minima sensibilità estetica.
Ciascuna svolta del destino può avere la sua interpretazione, ma ha anche la sua bellezza. Basta guardare l’immagine: Menuhin che volta le spalle infuriato al giocattolo dalle corde di metallo; Stefansson ‘Pappamolle’ che fa navigare le sue barchette nella vasca; il piccolo Gandhi con le sue orecchie a sventola e le sue paure. La vita, intesa come immagini, non sa che farsene di dinamiche familiari e predisposizioni genetiche. Prima di diventare una storia, ciascuna vita si offre alla vista come una sequela di immagini. Chiede innanzitutto di essere guardata. Anche se ciascuna immagine è certamente pregna di significati e suscettibile di un’analisi notomizzante, quando saltiamo ai significati senza apprezzare l’immagine, perdiamo un piacere che non potrà essere recuperato da nessuna interpretazione, per quanto perfetta.
Senza contare che avremo eliminato il piacere dalla vita che stiamo considerando; la bellezza che essa dispiega sarà diventata irrilevante per il suo significato.
Con peccato ‘mortale’ della psicologia, intendo il peccato del mortificare, quel senso di morte che ci prende nel leggere la psicologia degli addetti ai lavori, nell’udirne la lingua, la voce monotona, nel vedere la ponderosità dei suoi testi, la pretenziosità seriosa, i pomposi annunci di nuove ‘scoperte’ che più banali non si può, i placebo tranquillanti del-fai-da-te psicologico, le sue scenografie, le sue mode, le sue riunioni di Facoltà e i suoi studi e ambulatori, quelle acque stagnanti dove l’anima si reca per farsi curare, ultimo rifugio di una cultura abburattata, che sforna panini bianchi stantii e senza crosta, muro di gomma contro cui rimbalza la speranza.”

James Hillman, Il codice dell’anima, Adelphi, 1997, pagg. 56-57.

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