Lontano dai fari della ribalta

Fotografia di Daniela Gliozzi

 

“Sosteneva György Lukács nella famosa Lettera a Leo Popper, che il ‘saggio moderno non parla né di libri né di poeti […]. Si trova troppo in alto, abbraccia e si riallaccia a troppe cose, per poter essere la rappresentazione o la spiegazione di un’opera: ogni saggio reca scritto a lettere invisibili accanto al titolo: come pretesto a…’. In altre parole il saggista discute sì di un autore o di un’opera, ma attraverso questa trattazione veicola qualcosa di più importante e decisivo: un’idea di mondo. Qualcosa di simile si potrebbe dire per quanto concerne l’intellettuale, nel tentativo di darne una definizione: una persona di cultura, dedita agli studi, che pur discutendo di oggetti afferenti al proprio ambito di ricerca (letteratura, storia, biologia, medicina, politica, ecc.) riflette su concetti etici, sociali, civili e in alcuni casi esistenziali. E oltretutto – ed è questa la caratteristica dell’intellettuale – parla ai non addetti ai lavori: la cosiddetta società civile (i centenari di Sciascia e Pasolini, appena trascorsi, e di Calvino, ancora in corso, stanno lì a ricordarci che questa figura c’è stata nel nostro paese).
Oggi gli intellettuali, nella definizione che ne abbiamo offerto (una delle possibili), sembrano non esistere più; o almeno è quanto da più parti ci si ostina a sostenere. E peraltro non senza fondati motivi: gli studiosi sono sempre più specializzati e specialistici, e interloquiscono per lo più solo con i loro colleghi su questioni tecniche e settoriali; e anche le sporadiche eccezioni, che riescono a trovare il canale e il registro per parlare a una cerchia sociale più ampia, finiscono presto per essere assorbiti nel circo massmediatico, essendo così di fatto anestetizzati (impossibilitati a dire ciò che vorrebbero o potrebbero dire).
Eppure c’è una categoria colta che continua a svolgere questo compito intellettuale: quella degli insegnanti della scuola secondaria (e in questo libro si fa riferimento a quelli della superiore). Ancor più dei loro colleghi universitari – che si muovono in circuiti più ristretti e hanno interlocutori più selezionati: ossia studenti che hanno liberamente scelto quel percorso di studi – gli insegnanti di scuola, lontano dai fari della ribalta (e forse proprio per questo), esercitano tutti i giorni il loro ruolo di intellettuali: parlano di Dante, Ariosto, Parini, Morante (si fa qui riferimento all’ora di italiano), discutono dei rapporti uomo-donna, del potere e della democrazia, del senso civico di una comunità, delle relazioni interpersonali, ecc.; e lo fanno proprio rivolgendosi alla fantomatica società civile, ossia a studentesse e a studenti provenienti da ceti, situazioni e tradizioni diversi e differenti. È vero che una folle organizzazione del sistema, una campagna denigratoria priva di fondamento, e scelte economiche scellerate (tagli selvaggi, associati a improvvise piogge di denaro da spendere rapidamente e in determinati e non fondamentali settori) tentano di limitare questa funzione intellettuale; ma si tratta di una funzione inscalfibile nel momento in cui suona la campanella e inizia l’ora di lezione. In quel momento l’insegnante è nella classe e parla di letteratura: e tanto più affronta i nodi cruciali del testo, quanto più fa emergere questioni sociali e politiche in senso ampio con i quali i giovani devono e vogliono confrontarsi. Come il saggio di Lukács nella Lettera a Leo Popper, anche l’insegnante-intellettuale solleva domande, individua percorsi, discute con i suoi studenti, ‘aiutandoli a esser sempre più intelligenti, sensibili, moralmente forti’; ossia, continuando a rubare le parole a Calvino, ricerca e insegna ‘il modo di guardare il prossimo e sé stessi, di porre in relazione fatti personali e fatti generazionali, di attribuire valore a piccole cose o a grandi, di considerare i propri limiti e vizi e gli altrui, di trovare le proporzioni della vita, e il posto dell’amore in essa, e la sua forza e il suo ritmo, e il posto della morte, il modo di pensarci o non pensarci’. Sono parole tratte da Il midollo del leone e riferite alla letteratura: ‘Il resto lo si vada a imparare altrove, dalla scienza, dalla storia, dalla vita, come noi tutti dobbiamo continuamente andare ad impararlo’. È questo che fa ogni giorno, istintivamente e consapevolmente al contempo, l’insegnante di italiano, così come – non c’è ragione di dubitarlo – quello di altre discipline.
L’insegnante, ovviamente, compie delle scelte, e se ne assume la responsabilità proprio in quanto intellettuale: quali autori affrontare, come spiegarli, quali percorsi seguire. Sono il suo ruolo e la sua autorità culturale a indurlo, nonché – è ovvio ricordarlo – la situazione in cui si trova.”

 

Massimiliano Tortora, Presentazione al suo libro Il lavoro culturale dell’insegnante. La letteratura in classe, Palumbo, 2023, pp. IX-X.

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