Una differenza enorme

Daniela Gliozzi, Copertina del n. 86 di FMR

 

Le donne subiscono, in quanto tali, violenza.
La violenza di cui parlo si manifesta in diversi tipi ed in diversi gradi di gravità. Si va così da un tono della voce esasperato fino all’urlo, dalla derisione e dall’insulto per finire alla molestia verbale a sfondo sessuale, poi a quella fisica a sfondo sessuale. Termino l’elenco con lo stupro, la violenza fisica ed il femminicidio.
I maschi adulti possono teoricamente anche subire tutto ciò (convertendo il femminicidio in un omicidio del maschio in quanto maschio), ma le forme di violenza che ho nominato più o meno in ordine di gravità accadono agli uomini, in rapporto al mio elenco, in misura via via sempre più esigua rispetto a quanto accade alle donne, fino al punto che non sussiste alcuna possibilità di paragone.
Se metto alla pari l’intenzione di danneggiare l’altro in un uomo e in una donna all’interno di una loro interazione, non posso non constatare che da ultimo, in extrema ratio (e uso sarcasticamente il termine ‘ratio’), la lotta fisica mette in chiaro le cose. E nella lotta fisica, la donna, muscolarmente meno forte e di stazza inferiore, è colei che con maggiori probabilità soccombe.
Leggo le parole che ha scritto Simone Weil riguardo al tema del potere della forza nell’Iliade.

“Il vero eroe, il vero soggetto, il centro dell’Iliade è la forza. […] Coloro che avevano sognato che la forza, grazie al progresso, appartenesse oramai al passato hanno visto in questo poema un documento; coloro che, oggi come un tempo, sanno discernere la forza al centro di ogni vicenda umana vi trovano il più bello, il più puro degli specchi.”. (1)

La donna sa molto bene di questa forza. Lo sa fin da piccolissima, lo intuisce prima di ricevere ogni sorta di influenza morale e psicologica dalla società. Ma subentreranno ben presto anche quelle influenze morali e psicologiche. La donna sarà permeata dell’ossessione per il suo corpo che la società le scaraventa addosso; sarà permeata della pretesa che la sua irrilevanza sia il pegno dovuto perché le sia permesso di esistere. E subentrerà anche il condizionamento della Storia, perché la Storia condiziona sempre il sentimento attuale. Tutto questo lo affermo nell’ipotesi del tutto remota che una bambina-ragazza-donna non abbia mai vissuto violenze di nessuno dei tipi sopra citati.
Ogni donna conosce pertanto una possibilità concreta che le si profila quasi ad ogni istante della sua vita, quella di subire in quanto donna almeno uno di quei tipi di violenza. Non nella stessa misura tutti quegli atti, dal primo all’ultimo, sono temuti da lei. Ma in una scala che va dal puro senso di svilimento al puro terrore, la donna avverte una minaccia tangibile di cui solo lei può comprendere appieno la portata. Se si tratta degli ultimi della lista, tale ipotesi le fa ovviamente orrore, ma questo non le impedisce di considerarla come del tutto concreta, ed è questo il motivo per cui la donna tende ad affidarsi ad una istintiva prudenza, ad esempio evitando luoghi bui e isolati in ambigue periferie. Evita questo tipo di luoghi con una meticolosità che a l’uomo sfugge, pur essendo anch’esso potenzialmente esposto a pericoli di ogni sorta. All’uomo sfugge perché lui contempla la possibilità del pericolo con minore concretezza, non con l’incombente senso di sopraffazione insito nella donna, dato dal fatto, ripeto, che essa ha una sua storia e vive nella Storia. Ogni donna considera oltretutto i primi atti del mio elenco (fino alle molestie a sfondo sessuale, direi), un probabile viatico a quelli successivi, anche nel caso, tra l’altro non raro, che quei primi atti si realizzino in contesti di rapporti personali più o meno stretti. Ciò non solo aggrava quegli atti ai suoi occhi, in quanto ne considera la portata umiliante, ma crea anche un’aspettativa, per così dire, eternamente inquietante, per il futuro.

“La forza che uccide è una forma sommaria, grossolana della forza. Ben più varia nei suoi procedimenti, ben più sorprendente nei suoi effetti è l’altra forza, quella che non uccide; quella cioè che non uccide ancora. Sicuramente ucciderà o forse ucciderà, oppure è soltanto sospesa sull’essere che a ogni momento può uccidere; in ogni caso muta l’uomo in pietra. Dal potere di trasformare l’uomo in cosa facendolo morire deriva un altro potere, ben altrimenti prodigioso, quello di fare una cosa di un uomo che resta vivo. Egli è vivo, ha un’anima; tuttavia è una cosa. Strano essere, una cosa che ha un’anima; strano stato per l’anima. Chi può dire quanto ad ogni istante, per adattarvisi, deve torcersi e ripiegarsi su se stessa? L’anima non è fatta per abitare una cosa; quando vi è costretta, non c’è più nulla in lei che non soffra violenza.”(2).

Ho tratto ancora le parole da quel capolavoro che è il saggio sull’Iliade di Simone Weil. Ovviamente il termine ‘uomo’, qui, è inteso come ‘essere umano’.
Molti uomini non prendono atto di tutto ciò, e trovo risibile che vi equiparino, nel loro ‘sforzo’ di comprendere le donne, quello che provano loro stessi. Do un esempio preciso, tratto da una dichiarazione di Pietro Castellitto di alcuni mesi fa (fonte: “Il Fatto Quotidiano”, 13 aprile 2021), esempio che io ho trovato odioso: “Penso ai milioni incassati dagli studi legali attraverso il monumento all’ipocrisia del ‘Me Too’, battaglia sacrosanta, ma se Kevin Spacey mi mette la mano sulla coscia io gliela sposto, non gli rovino la vita chiedendo pure soldi.”.
Io, uomo, che ricevo ‘a tradimento’ sulla mia coscia la mano di Kevin Spacey, non sono una donna che riceve sulla sua coscia la mano di Kevin Spacey. Io, uomo, che subisco quel gesto, presumibilmente non provo alcun tipo di minaccia, cosa che una donna – anche se non lo dà a vedere, anche se una parte di lei, la parte che disperatamente cerca considerazione, ne può essere addirittura lusingata – quasi fatalmente, prova.
È una differenza enorme. Non comprendere quella differenza mi è ripugnante. Far finta che non esista, deridere le donne o criticarle per questo, come se le loro reazioni, le loro forme di difesa, fossero quelle di ipocrite o di bacchettone o di represse o di ‘arrabbiate’ e così via, mi è ripugnante.

“Le donne hanno la cattiva abitudine di cascare ogni tanto in un pozzo, di lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro, e annaspare per tornare a galla: questo è il vero guaio delle donne. Le donne spesso si vergognano d’avere questo guaio, e fingono di non avere guai e di esser energiche e libere, e camminano a passi fermi per le strade con grandi cappelli e bei vestiti e bocche dipinte e un’aria volitiva e sprezzante; ma a me non è mai successo di incontrare una donna senza scoprire dopo un poco in lei qualcosa di dolente e di pietoso che non c’è negli uomini, un continuo pericolo di cascare in un gran pozzo oscuro, qualcosa che proviene proprio dal temperamento femminile e forse da una secolare tradizione di soggezione e di schiavitù e che non sarà tanto facile vincere; m’è successo di scoprire proprio nelle donne più energiche e sprezzanti qualcosa che mi induceva a commiserarle e che capivo molto bene perché ho anch’io la stessa sofferenza da tanti anni e soltanto da poco tempo ho capito che proviene dal fatto che sono una donna e che mi sarà difficile liberarmene mai. Due donne infatti si capiscono molto bene quando si mettono a parlare del pozzo oscuro in cui cadono e possono scambiarsi molte impressioni sui pozzi e sulla assoluta incapacità di comunicare con gli altri e di combinare qualcosa di serio che si sente allora e sugli annaspamenti per tornare a galla.” (3).

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(1) Simone Weil, L’ ‘Iliade’ o il potere della forza, in La rivelazione greca, Adelphi, 2014, pag. 33.
(2) Simone Weil, cit., pagg. 34-35.
(3) Natalia Ginzburg, Discorso sulle donne, in Un’assenza, Einaudi, 2016, pagg. 151-152.

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