Bei tempi

Anche oggi un bell’articolo, questa volta  tratto da “Doppiozero”, intriso del profumo dei bei tempi che furono. È stato pubblicato ieri col titolo Cercasi Susan (Sontag) disperatamente. L’autrice è Chiara Lagani.

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Primi anni 2000, Ravenna. In un piccolo teatro, nella periferia industriale, si fa festa. Cene nella notte, si chiamavano, momenti in cui pubblico e artisti, dopo gli spettacoli, si ritrovavano a ballare, mangiare, parlare: Ardis Hall era da poco la “casa” di Fanny & Alexander e noi la aprivamo volentieri a chi ci voleva raggiungere. A volte in quel pezzetto di città così poco gettonata dai turisti (Antonioni però aveva girato Deserto rosso una strada dietro) capitavano avventori improbabili: Marisa Fabbri ci aveva provato uno spettacolo; Ermanno Olmi era venuto a cena con Goffredo Fofi e tutto il premio Lo Straniero.

Quella sera, dopo I Polacchi del Teatro delle Albe (dall’Ubu di Jarry), aspettavamo un’ospite speciale. Avevamo letto i suoi libri, soprattutto Contro l’interpretazione, ma anche il saggio sulla fotografia. Le sue intuizioni su cosa accade al nostro sguardo davanti al dolore degli altri ci avrebbero portati agli spettacoli recenti, creati anni dopo la sua morte. Susan Sontag aveva conosciuto Ermanna Montanari e Marco Martinelli qualche anno prima a Bari: si trovava là per lavorare col suo traduttore italiano, Paolo Dilonardo, e aveva visto L’isola di Alcina rimanendone stregata. Era nata un’amicizia, coltivata in una serie di incontri successivi con l’idea di un futuro progetto comune. Quella sera Sontag, dopo I Polacchi, venne a cena da noi. Ho ricordi forti, ma piuttosto frammentari. Non ci sono documenti: non c’era facebook, né instagram, non si fotografava con gli smartphone ogni cosa. La sala grande era allestita come una specie di grotta, con le luci molto basse. Ho l’immagine confusa di una strana festa di ombre. La cena che davamo era a tema “ubuesco”: lo chef Pierpaolo Spadoni, amico di sempre, aveva elaborato un menù di pietanze patafisiche prese a prestito dalla lunga lista di Mère Ubu. C’erano ad esempio i testicoli di toro che lui e Luigi De Angelis avevano cercato ovunque perché Pierpaolo potesse cucinarli in “salsa merdricina”. Sontag era divertita: amava i cibi stravaganti, al limite del repellente. Nei suoi Diari a un certo punto parla dell’amore per il cibo escrementizio: «il mio ostentato appetito – il mio reale bisogno – di mangiare cibi esotici e “disgustosi” = un bisogno di affermare il mio rifiuto della schizzinosità».

La sua presenza nella stanza era magnetica, quando ti fissava ti sentivi radiografato. Non abbiamo parlato molto. Dopo cena si è avvicinata, ci ha ringraziati. Dobbiamo averle detto qualcosa, credo, sui suoi libri. Ricordo che a ogni singola frase ribatteva con una domanda: voleva conoscere, capire, sapere il perché di tutto. All’improvviso ha chiesto: «sentite, non è che si possono spostare un po’ i tavoli?». Abbiamo alzato il volume della musica e lei si è scatenata nelle danze.

Spesso, dopo quella sera, ho pensato che tutto il suo pensiero fosse legato all’amore per il teatro. Sontag era una spettatrice “forte” e, amica intima di tanti artisti, lavorò in prima persona in teatro a più riprese. C’è un’intervista di Claudia Cannella in un numero di quegli anni di “Hystrio”, dove Sontag parla dell’interesse per un «teatro che possa esaltare e cambiare la vita, lontano dal conformismo che in America, più che altrove, sembra aver soffocato qualsiasi forma di coscienza critica». È troppo, mi chiedevo, pensare al teatro come a una specie di lente attraverso cui guardare la sua opera? In qualche modo ha rafforzato in me questa prima convinzione la lettura della monumentale biografia, uscita di recente per Rizzoli, che nel 2020 ha fruttato il premio Pulitzer al suo autore, Benjamin Moser: Sontag, una vita. Il volume ha una struttura “teatrale”: un prologo, quattro ampie parti (gli atti della vita) e un epilogo, il post-mortem, dove Susan è già uscita di scena. Ma non è solo questo. Il racconto ha un andamento “a marea”: le onde, ritirandosi, portano via qualcosa dalla scena precedente che poi restituiscono nella successiva creando una strana trama di ripetizioni. Moser disegna, come fosse un labirinto, il reticolo delle ossessioni, delle relazioni della protagonista, senza timore di esporla alle contraddizioni, di restituirne un’immagine vicina e al contempo lontana dalla “verità”. Quanto sia facile essere tentati, «tra una fotografia e la vita, di scegliere la fotografia» Sontag ce lo spiega bene in uno dei suoi saggi più importanti, fondamentale per noi ancora oggi. Raccontare la vita di Susan è dunque un azzardo e Moser lo sa bene e infatti chiude ironicamente il suo racconto con un’epigrafe dal tono scaramantico: «E mise in guardia dalle mistificazioni delle fotografie e dei ritratti, compresi quelli dei biografi.» Con perizia, con molta dedizione e per nostra grande fortuna, non ha rinunciato però a inseguire Susan dentro il labirinto della sua vita, campionando un repertorio di voci vastissimo, forse senza precedenti, dalle testimonianze degli archivi riservati, alla viva voce del figlio David Rieff, alle parole degli amici e della fotografa Annie Leibovitz, compagna di Susan per quasi vent’anni.

La prima cosa che Moser fa è mostrarci una fotografia: una giovane donna in abito a fiori e una sacca da viaggio appesa al braccio. Una ragazzina accanto le appoggia la testa sulla spalla, mentre la donna l’accarezza. Entrambe hanno un’espressione di rassegnata accettazione. Dietro due tende improvvisate (sono due profughe?), davanti due uomini con le braccia alzate (vediamo le ombre) puntano qualcosa sulle donne (le fucileranno?). Nulla è quel che sembra in questa foto. Gli uomini sono in realtà due fotografi e stanno per scattare l’immagine che noi stiamo guardando. Quello è un set cinematografico nella California meridionale, subito a nord di Los Angeles: è il 1919 e le due sono state scritturate per recitare la parte di due armene vittime del massacro dei turchi. Molte comparse di quel film erano veri armeni fuggiti negli Stati Uniti: girare le scene horror di annegamenti, stupri e crocifissioni si rivelerà per alcuni insostenibile. Non per le protagoniste della foto: una donna ebrea, Sarah Leah e la figlia tredicenne, Mildred. La foto è l’ultima che le ritrae assieme, poco più di un anno dopo la madre morirà, a trentatré anni. Mildred sposerà giovanissima un ebreo newyorkese dedito al commercio di pellicce nel Gobi. Lui si chiama Jack Rosenblatt e, come Sarah Leah, morirà a trentatré anni, lasciando vedova Mildred e orfane le figlie Judith Rosenblatt e Susan Lee (una deformazione americanizzata del cognome della nonna). Susan non adoperò mai il cognome del padre, lo considerava «brutto e straniero»; prenderà invece il cognome del secondo marito della madre, Nathan Stuart Sontag, un ufficiale americano ebreo, dal nome «più gradevole». Quella prima foto anticipa l’ossessione di Sontag: il rapporto tra realtà e rappresentazione, mondo e metafore del mondo, io e personaggio. Perfino il cambio di cognome è già una rappresentazione contraffatta: «impossibile sentirsi sinceri quando si viene fotografati. Impossibile sentirsi gli stessi dopo aver cambiato nome.» È l’insincerità sincera di chi intrattiene un rapporto col personaggio, anzi coi personaggi della vita. È l’insincerità sincera dell’attore. «Sono io stessa un’attrice, un’attrice segreta», disse Sontag a un giornalista polacco nel 1998 a proposito della protagonista del suo ultimo romanzo, In America, un’attrice. «Ho sempre voluto scrivere un romanzo su un’attrice, perché capisco cosa sia recitare». Anche nella famosa definizione di Camp Sontag aveva parlato «dell’essere come l’interprete di un ruolo, la massima estensione della metafora della vita come teatro.» La condizione era imparare a maneggiare una maschera, lasciarsi mettere, come faceva il Camp, tra virgolette: non una donna ma “una donna”, non Susan Sontag ma “Susan Sontag”.

Il filtro del teatro, la nascita del personaggio sono dunque da subito ingredienti fondamentali. Nel primo dei quattro atti del libro, forse il più enigmatico, troviamo una madre (la Mildred della prima foto) bellissima e sfuggente, nonché alcolista, assimilata dalla figlia a un’attrice di Hollywood; c’è poi un padre un po’ vago e fiabesco la cui morte è avvolta nel mistero – la madre non avvisa le figlie, mente spudoratamente sulle cause del decesso, dà falsi indizi sul luogo della sepoltura. Anni dopo Sontag dichiarerà che il tema della morte apparente, che la ossessiona, le viene da questa menzogna originaria. Sua madre le ha insegnato a «vedere e al contempo non vedere.» Una questione di sopravvivenza, le diceva. «Vedere» è così anche per Susan una cosa molto poco spontanea. Per questo, forse, finirà per farlo più intensamente degli altri, ipotizza Moser. Il figlio David, nato a diciannove anni dal matrimonio col sociologo Philip Rieff, racconta che la madre, quando era piccolo, gli vietava di guardare fuori dai finestrini degli autobus e dei treni. Diceva che era inutile guardare «il mondo al naturale», senza collegamenti. Quando viaggiavano fissava un punto davanti a sé e ragionava di quel che era fuori. Era come se lo vedesse nella sua testa.

Tutto nella sua vita movimentata e avventurosa segnala questo tipo di spaccatura: esperienza e pensiero, corpo e linguaggio, modi di essere e modi di apparire. A Jonathan Safran Foer che le chiedeva delle sue origini ebraiche, disse: «io non ho affatto origini ebraiche e non ho mai celebrato Pesach», eppure la sua famiglia era una famiglia americana con tradizioni e cultura ebraiche. Lo stesso per la sessualità: «sento di avere tendenze lesbiche (ma con quanta riluttanza lo scrivo!)». Non si trattava solo di paura (non voler essere giudicata), ma di una speciale insofferenza per le etichette, «in particolare l’indesiderato tipo che si riferiva a etnicità, genere o sessualità, che lei riteneva molto pericoloso». Si sarebbe sentita inchiodata a una sola definizione, una sola maschera.

In tutta la sua opera di scrittrice, più personale è il tema più le è necessario riformularlo, mutarlo in pensiero puro, dotato di forza trasformativa. «Sono interessata soltanto alle persone impegnate in un progetto di auto-trasformazione», scriveva nel 1971. Il teatro, nelle sue forme più radicali, ha appunto questa virtù trasformativa, forse è per questo che Sontag lo amava: sanava, provvisoriamente, la divaricazione tra io e realtà, corpo e linguaggio. Il teatro di Artaud, soprattutto, che arrivava a pensare «all’impensabile – a come il corpo è, cioè, mente e a come la mente è anche un corpo». Sontag trascorse otto anni a costruire un’antologia artaudiana di quasi settecento pagine, che pubblicò nel 1976. Il teatro riuniva corpo animale e intelletto, creava uno spazio “abitabile”, un luogo in cui non sentirsi scissi. «Qui c’è un mondo», disse Sontag a Ermanna Montanari subito dopo avere visto il suo spettacolo, «se vuole ci può stare chiunque.» Susan voleva davvero starci in quel mondo, col corpo e con la mente, voleva attraversare fisicamente gli eventi, interpretarli contro la stessa idea di interpretazione: il suo fu un attivismo radicale, controverso, mai di facciata o retorico, sempre critico, conflittuale. La sua relazione con l’arte era di tipo «erotico», non «ermeneutico».

Se qualcuno le interessava davvero andava a conoscerlo. In California, nel 1949, a sedici anni, andò a trovare Thomas Mann e «tutta l’Europa mi cadde nella testa»; una decina di anni più tardi a Parigi incontrò Sartre; in America frequentò Wharol e Joseph Cornell; ebbe una breve relazione con Jasper Johns; tramite Jackie Kennedy incontrò Robert Kennedy; venne fotografata da Diane Arbus, Richard Avedon, Peter Hujar, Robert Mapplethorpe, Henri Cartier-Bresson, Irving Penn e, naturalmente, Annie Leibovitz. C’era un aspetto anche mondano in molti dei suoi incontri, questo è sicuro, ma non era solo questo: voleva proprio essere “dentro le cose”. Nel 1960, quando iniziò la rivoluzione cubana, era all’Avana; il 9 novembre 1989, mentre cadeva il Muro di Berlino, lei c’era; nel 1968, durante i bombardamenti americani, andò a Hanoi; nel 1973 volò in Israele per la Guerra dello Yom Kippur e girò il suo film forse migliore (Promised Lands); nel ’93 fece il primo di molti viaggi a Sarajevo, una città sotto assedio, semidistrutta.

Riusciva a trasformare l’esperienza in pensiero e viceversa, e lo faceva attraverso un linguaggio mobile, conflittuale, pieno di metafore spesso teatrali. Quando nel 1968 andò in Vietnam invitata dal governo vietnamita settentrionale, ad esempio, parlò di «uscire da dietro la maschera»; per quanto il Vietnam fosse diventato «un fatto della mia coscienza in quanto americana» al punto che non riusciva a toglierselo dalla mente, Sontag si rese conto che conciliare l’immagine reale e l’immagine che aveva in testa era più difficile del previsto. In Viaggio ad Hanoi parla a lungo della differenza tra fantasia e realtà, tra il Vietnam e le sue metafore: si tratta di un diario di viaggio e nei diari di viaggio, si sa, è naturale parlare a tratti di sé. «Ma io non voglio scrivere di me stessa. Voglio scrivere di loro. E quando ho capito che il modo migliore per farlo era includere me stessa, è stato come un sacrificio.» È interessante questa nozione sacrificale. Il racconto, così come nel teatro della crudeltà, passa sempre attraverso il corpo, ma questo corpo ha dovuto negare se stesso, come in un sacrificio: è il celebre corpo senza organi.

A Sarajevo il teatro non è più soltanto linguaggio. Nonostante le critiche (ma quanto è borghese fare teatro in piena guerra!) decide di allestire uno spettacolo coi giovani attori di là. Aspettando Godot è una produzione poverissima: niente elettricità, niente costumi. La scena è fatta coi teli di plastica distribuiti dalle Nazioni Unite per tappare le finestre saltate in aria. È un vero evento culturale, la risonanza è grandissima, in Europa e in America. La prima pagina del “Washington Post” titola: «Aspettando Clinton, aspettando un intervento». Ancora una volta Sontag ribalta la relazione tra linguaggio e realtà. Godot aveva cessato di essere una metafora, aspettarlo diventava un’azione concreta. Uno degli attori racconta: «Aspettavamo davvero qualcuno che venisse a liberarci dall’inferno. Lo consideravamo un gesto umano. Ma aspettavamo invano.»

A Sarajevo Susan porta con sé Annie Leibovitz perché scatti delle fotografie. Per la prima volta considera queste foto, che immortalano il dolore degli altri, uno strumento necessario, allontanandosi da posizioni precedenti: in che modo possiamo guardare la realtà più inconcepibile, la guerra e la morte? Se l’arte, come diceva Artaud, non è mai separata dalla vita ma ne è la forma più alta, perché non adoperare le sue immagini, i suoi simboli, per rendere visibile la realtà a quelli che non riescono a vederla? Il suo rapporto col linguaggio, così doloroso, è sempre al servizio di una necessità di conoscenza: se le metafore annebbiano la percezione occorrerà bandirle, se il linguaggio depista le coscienze occorrerà smantellarlo (si pensi al lavoro sulla malattia), quando però le immagini obbligano a guardare la realtà che prima non riuscivamo a guardare, allora dobbiamo servircene. Sarebbe stata, anzi dimostrò di esserlo, disposta a rischiare la vita pur di non rinunciare al rapporto diretto con la realtà. A Sarajevo per costringere tutti a guardare adoperò prima il teatro, poi le foto di Annie.

C’è un’immagine di Sontag molto controversa che le scattò proprio la Leibovitz appena morì. Annie documentò in verità tutta l’agonia della compagna di un tempo: mentre attendeva il risultato del trapianto midollare «ogni tanto scattava una foto». La donna che si vede in quelle foto non è nessuna delle Susan che conosciamo. Quello è forse il suo ultimo, sconosciuto personaggio. L’ultima immagine, che molti giudicarono «disgustosa», è quella che chiude la serie delle molte immagini che ci restano di Susan Sontag e lo fa in modo spettacolare, creando cioè un cortocircuito col suo pensiero. Moser parla di questa foto nell’epilogo, al termine dei suoi quattro atti, senza però mostrarcela. L’attrice principale è appena uscita di scena. Ne resta il corpo senza più vita. Se non avessimo già visto quella foto, che è piuttosto famosa, faticheremmo davvero a riconoscerla, come del resto spesso capita con le foto dei morti. Ma se metafora è dare a una cosa il nome o i nomi che prima appartenevano a un’altra, che parole useremo questa volta?

In un taccuino giovanile, nel lontano 1948, una Susan quasi quindicenne, scarabocchiando la sua ipotetica lapide, sembra già offrirci la sua enigmatica risposta:

«Qui giace
(e lo ha fatto per tutta la vita)
Susan Sontag».

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