Ognuno riconosce i suoi

Fotografia di Daniela Gliozzi

 

Pubblico il pezzo uscito il 25 gennaio 2024 su “Le parole e le cose”, desunto dalla Premessa al nuovo volume di Niccolò Scaffai sulla poesia critica.

 

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[È uscito da pochi giorni il nuovo libro di Niccolò Scaffai, Poesia e critica nel Novecento. Da Montale a Rosselli, Carocci. Ne pubblichiamo una parte della Premessa, per gentile concessione dell’editore].

1. L’argomento di questo libro è la relazione fra critica e poesia. In particolare, l’idea di fondo è che la poesia sia stata, per alcuni dei maggiori autori italiani del secondo Novecento, tanto il genere dell’espressione lirica, quanto (insieme e forse di più) la sede di elaborazione di un pensiero critico. Sereni, Fortini, Rosselli, Raboni e gli altri autori presi in considerazione non si sono limitati a comporre un’opera in versi e, oltre a quella, un’opera critica e saggistica più o meno ampia, costante, influente. Quello che li caratterizza – e che del resto riguarda anche altri casi novecenteschi – è che i loro libri poetici sono anche forme critiche; senza questa intrinseca unione, la poesia stessa, il suo stile, il rapporto tra i suoi oggetti e l’espressione, non avrebbero avuto ragione d’essere. Quello critico cioè non è un tema o un elemento tra gli altri: non si tratta di mettere in luce solo la componente metaletteraria esplicita nei testi di poetica in cui direttamente un autore può fare i conti con il proprio modo di comporre, o istituire un confronto ed eventualmente un conflitto più o meno dichiarato con certi modelli. Voglio dire che, in una certa misura, è lo stesso scrivere in versi che s’instaura ed evolve in dialogo con l’esame critico (che è spesso anche auto-critico: quasi un esame di coscienza).

Ciò non equivale a ridurre la poesia a esercizio autoreferenziale o allusivo; restano valide, per me, le coordinate fissate in un libro precedente, Il lavoro del poeta (2015), di cui questo è continuazione in senso cronologico (lì prevaleva l’opera montaliana, qui quella di Sereni – trait d’union fra i due libri – e di altri poeti della terza generazione, o di quella ulteriore), e sviluppo in senso teorico. Nel libro del 2015 osservavo come la poesia novecentesca potesse e anzi dovesse essere interpretata alla luce del sistema di relazioni, incontri, occasioni che innescano il processo della scrittura e danno corpo all’immaginario; il lavoro del poeta consiste appunto in questo: nel modulare la propria tecnica per rielaborare e accogliere la varietà delle circostanze in cui l’esistenza lo ha posto. Era stato d’ispirazione un passo del saggio di Sereni da cui la formula del titolo era ripresa, appunto Il lavoro del poeta (1980): «Stento a chiamare lavoro vero e proprio quella serie di operazioni microscopiche e silenziose che uno compie dialogando con se stesso, in ciò favorito dal caso, stimolato da un incontro fortuito, da un volto, da un gesto, da un suono, da una rivelazione improvvisa che muova da un oggetto magari passato inosservato in precedenza, e perché no? da una lettura (di una riga piuttosto che di un capitolo, di una pagina aperta a caso piuttosto che di un libro intero)».

L’incontro, non sempre fortuito ma spesso anzi cercato, di cui si occupa ora questo libro è quello tra poeti, e tra questi e la critica: sia nel senso che i poeti di cui parleremo sono stati anche critici più o meno notevoli, sia nel senso che lo sviluppo e la comprensione delle rispettive ragioni formali, storiche, ideologiche (da parte dei lettori ma anche degli autori stessi) sono derivati anche dalla fedeltà di certi critici e alle loro categorie.

Per questo alle figure e alle opere dei poeti – in particolare, come si è detto, di Vittorio Sereni (n. 1913), Franco Fortini (n. 1917), Giorgio Orelli (n. 1921), Federico Hindermann (n 1921), Amelia Rosselli (n. 1930), Giovanni Raboni (n. 1932) – si affiancano quelle di tre critici, prossimi a questi autori per anagrafe, sì, ma soprattutto per studi, riferimenti o amicizia: Dante Isella (n. 1922), Luigi Blasucci (n. 1924), Pier Vincenzo Mengaldo (n. 1936).

2. Per definire la relazione tra critica e poesia ho adottato in più di un caso la parola ‘riconoscimento’; anche stavolta l’ispirazione viene da Sereni, o meglio da Montale attraverso Sereni. In Piccolo testamento, il poeta della Bufera scriveva che «ognuno riconosce i suoi»; Vittorio Sereni, in uno dei suoi più importanti scritti montaliani, mette a titolo quella formula per parlare del nesso, fondamentale per lui e la sua generazione, fra la poesia e la «presa di coscienza del mondo circostante»: «In altri termini», scrive Sereni, «Montale con i suoi primi versi precorreva in noi la presa di coscienza del mondo circostante e dei suoi stessi lineamenti fisici: nella misura in cui ci avvertiva che lo spazio immediatamente a noi vicino e nel quale già stavamo muovendoci con la nostra esistenza non solo poteva essere ma già era abitato dalla poesia» (Ognuno riconosce i suoi, 1966).

Proprio la funzione di Montale è al centro della prima parte di questo libro; le diverse forme di ‘montalismo’ di Sereni, Raboni, Rosselli convergono su alcuni punti. Innanzitutto, il ruolo del capofila novecentesco si esercita tanto rispetto al codice (fatto di elementi stilistici e lessicali) quanto rispetto ai referenti (il mondo dei fenomeni, che attraverso la poesia montaliana vengono percepiti e nominati). Più di altri, Montale non ha contato solo di per sé, cioè nella sua individualità di autore, ma anche come chiave di volta di una tradizione. In molti casi, la ripresa di elementi montaliani da parte dei poeti delle generazioni successive è un’indiretta dichiarazione di appartenenza, non solo poetica e linguistica ma perfino identitaria; questo si apprezza in particolare in poeti italofoni ma attivi fuori dai confini politici nazionali, come Orelli e Hindermann (per il quale l’italiano è stato un’opzione specificamente votata all’espressione lirica). Le tracce montaliane, allora, non suggeriscono tanto, o non suggeriscono affatto, una derivazione quanto il riconoscimento di uno sfondo, rispetto al quale ogni poeta conosce un proprio diverso svolgimento.

Inoltre, il riconoscimento sollecitato dal precedente montaliano non è solo letterario né tanto meno solo formale, ma è anche – per il tramite della poesia e del linguaggio – esistenziale e storico (come è evidente nei casi di Sereni e Rosselli, diversissimi ma entrambi segnati e formati da traumi e assenze, che le parole e il mondo degli oggetti montaliani servono in parte a esprimere, in parte forse perfino a compensare).

C’è un passo di un’altra importante prosa sereniana, Dovuto a Montale (1983), che illustra il legame tra poesia e esperienza personale e storica; proprio l’esperienza è il termine medio tra poesia e critica, che fa capire come il dialogo o perfino la coincidenza fra le due non sia confinato dentro i limiti dell’intertestualità:

Da tempo mi ero accorto che in una pagina scritta come in un intero libro i segni che più mi attraevano erano connessi al senso della contemporaneità, diciamo al colore e all’aria del tempo nel quale ero posto a vivere. La mia attenzione si faceva più precisa non appena mi si prospettavano aspetti, oggetti d’uso, strumenti, ambienti tra i quali io stesso vivevo o avrei potuto vivere: urbani ed extraurbani, familiari o remoti non importava, purché avvertiti presenti, inseriti nella natura, raggiungibili in qualche punto del mondo a portata di sensi. Come potenziali produttori di vicende e di futuro, ipotesi aperte su situazioni in arrivo, da sviluppare. Come quadro o scenario predisposto a un’azione imminente, nella quale da solo o con altri avrei avuto una parte. Un corso cittadino, un ponte, uno stadio gremito, una stazione, una linea ferroviaria, una musica erompente da un locale qualunque, lo scorrere di una folla sotto un portico.

La crescente passione per il cinema in quegli anni deve avere avuto un rapporto con tutto ciò, ossia con le immaginazioni e i miti personali e, certo, circoscritti che si andavano formando in me. Ne erano per questo esclusi il meraviglioso, l’invisibile, ogni sorta di possibile aldilà? Questo è il punto delicato, al confine tra l’ovvio, il quotidiano, persino il banale, e la forza di una dislocazione che li superi senza però annullarli. Ma allora questo dubbio quasi non mi si poneva. Leggevo poesie di altri e vi cercavo qualcosa che impropriamente potrei chiamare romanzo:

Strideva Adios muchachos, compañeros
de mi vida il tuo disco dalla corte

(ivi, pp.103-32)

Il passo può suggerire quanto uno studio dei rapporti fra un poeta del secondo Novecento e l’opera di Montale non coincida con la verifica dei richiami intertestuali, né tantomeno con la conseguente attribuzione di un valore stabilito sulla base della maggiore o minore adesione al modello, oppure alla più o meno tempestiva emancipazione da quello. Ripetendo moduli e concetti già adottati nello scritto sul Lavoro del poeta, Sereni rievoca invece una condizione intellettuale ed emotiva, collocabile intorno alla metà degli anni Trenta o poco dopo, in cui la cognizione di sé e del mondo si precisava attraverso un «senso della contemporaneità» oggettiva; ma allo stesso tempo non escludeva l’ipotesi di un significato trascendente il fenomeno, tanto che le due dimensioni – il quotidiano e l’invisibile – potevano congiungersi senza conflitti nelle immagini delle Occasioni montaliane (in questo caso, nei versi di Sotto la pioggia).

L’importanza di Montale, come ripeteremo, è data anche dalla sua capacità di farsi attraversare, come racconta qui Sereni; un attraversamento che ha permesso ai poeti successivi di scrivere il proprio «romanzo», anche ricorrendo in parte al codice montaliano. Come ha scritto Giovanni Raboni, «non possiamo non dirci montaliani», perché è soprattutto dal poeta di Occasioni Bufera che alcuni dei maggiori esponenti delle generazioni successive hanno imparato a «“dare un nome” alle cose», accogliendo la «dialettica fra vuoto e gremito, fra sgomento e speranza, fra negatività e salvazione» (Il vero Montale e l’altro).

Maggiori, certo, o più canonici, anche perché riconoscibili e riconosciuti nel quadro di una tradizione autorizzata dal modello influente; una tradizione che, come abbiamo detto, si costruisce attraverso la poesia e la critica, ma che può anche rappresentare in certi casi una (auto)investitura o una conferma di posizioni nel campo letterario. Questa è forse una delle ragioni che hanno reso più difficile per le autrici (e per la critica che le riguarda) applicare il criterio del riconoscimento e pensare alla tradizione come a un asse ereditario su cui collocarsi per un diritto legittimo e nel complesso pacifico. Per le autrici, quell’appartenenza, quando è stata ottenuta, è stata garantita più dal conflitto che dal diritto, più dall’eccezione che non dal canone (e del resto la critica si è spesso interessata a loro come figure eslege); questo non vale solo per la poesia, ma lo stretto legame fra lirica e tradizione rende la condizione più evidente. È così che, tra le autrici nate nei primi decenni del Novecento, solo Amelia Rosselli e poche altre (Bemporad, Pozzi, Spaziani ad esempio) sono interpretabili anche alla luce del rapporto, magari paradossale ma esplicito e cercato, con i «santi padri» (la formula rosselliana è già di per sé un nodo critico). Tra questi, specialmente con Montale. Nel quadro della relazione tra critica e poesia che si sta qui delineando – un quadro che non vuole corrispondere a un’antologia né tanto meno a un pantheon ma a una serie di casi emblematici – si è scelto di dare un rilievo specifico a Rosselli. Occorre aggiungere che un quadro analogo, se riguardasse le generazioni successive e arrivasse fino alla contemporaneità, dovrebbe essere composto in gran parte da autrici, che sono tout court tra le voci poetiche italiane più importanti: a cominciare da Cavalli e Valduga, da Frabotta e Anedda.

2. Ho già fatto ricorso più volte alla parola e al concetto di ‘tradizione’, che è tema più o meno diretto di alcuni capitoli del libro. La tradizione è in effetti un terreno in cui critica e poesia spesso convergono ma possono anche confliggere, perché molti sono i punti controversi in cui ci s’imbatte: ad esempio, la questione dell’inizio e della fine del secolo poetico (che non coincide con i suoi termini cronologici); poi soprattutto la selezione dei suoi rappresentanti e di conseguenza dei suoi destinatari: per chi opera la tradizione? per chi la immaginiamo quando ne evochiamo l’esistenza (a più forte ragione nel nostro presente, in cui l’ossessione delle ‘radici’, nel discorso pubblico e culturale, copre o rimuove il confronto con la molteplicità, la diversità)? Ancora: tra i poeti la tradizione conta più per chi la accoglie o per chi se ne allontana?

Come scriveva Montale in Auto da fé, «non continua chi vuole la tradizione, ma chi può, talora chi meno lo sa. A questo intento poco giovano i programmi e le buone intenzioni» (Stile e tradizione, 1925). Di certo, nel Novecento è esistita più di una tradizione e sono diverse le linee che, partendo da quel secolo, raggiungono distinte regioni poetiche della contemporaneità. Qui, come si è detto, interessava soprattutto la tradizione montaliana; ma prima ancora che privilegiare un autore di riferimento, si voleva illustrare un’idea attiva di tradizione, assunta e discussa personalmente dagli autori come forma creativa e principio critico, anziché un’idea passiva e per così dire preterintenzionale, basata sui pur eloquenti fatti formali. Esiste sempre una sfasatura fra la coscienza poetica di un autore e i risultati effettivi della sua opera (i secondi possono essere più avanzati della prima, e viceversa); ma a saper guardare, quella sfasatura o attrito sono densi di significato e necessari per l’interpretazione e la collocazione dei poeti e dei loro testi.

 

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