Vedere e non vedere

**************

Non sarà facile riempire il vuoto lasciato da Mourinho

 

Una riflessione sull’allenatore portoghese alla luce dell’improvviso esonero di oggi.

Ogni romanista ha tra le più grandi emozioni vissute allo stadio, all’Olimpico o fuori, una partita della Roma di José Mourinho. La mia è la semifinale di ritorno di Conference League contro il Leicester. Il gol di Tammy Abraham dopo dieci minuti e i restanti ottanta passati ripetendo come un mantra che “se i tuoi colori sventolo, i brividi mi vengono”, con sempre maggiore insistenza, vedendo e non vedendo in mezzo alle bandiere e sciarpe sventolanti. Vedere e non vedere significa che, per capire se la palla ce l’abbiano noi o l’abbiamo persa, se il loro tiro è entrato oppure no, bisogna fidarsi di chi ti sta intorno, bisogna entrare in sintonia con le loro reazioni, rinunciare alla propria individualità, almeno sul piano della percezione, diventare una cosa sola. Una stregoneria collettiva in cui Mourinho era lo sciamano, ovviamente, ma i romanisti erano partecipi. Il coro greco centrale in ogni rappresentazione.

Ottanta minuti passati a soffiare la palla in direzione contraria alla porta giallorossa, a provare a entrare nelle teste dei giocatori avversari farli essere meno precisi di quanto sarebbero in altre condizioni, e in quelle dei giocatori giallorossi per fargli dare più di quello che avevano, per sacrificarsi tutti insieme, per restare senza voce a fine partita, noi, e senza gambe per un paio di giorni, loro. Ha funzionato, la Roma quella sera ha vinto. E la Roma, quella sera, era Mourinho e i suoi giocatori ma anche i 63.940 spettatori venuti a sostenerla (il 15esimo sold out in quella stagione). Ma non confondetevi: al centro della scena c’era comunque lui. Solo. Contro tutti. Come sempre.

Non voglio convincere chi pensa che alla fine in campo ci vanno i giocatori, che tutto il resto è fuffa, retorica e manipolazione, dico solo che chi la pensa in questo modo non era all’Olimpico quella sera. O in un’altra di quelle sere. Spero che i lettori disinteressati mi perdoneranno questo inizio “da tifoso” ma se non si tiene conto di come Mourinho ha fatto sentire ogni singolo romanista, almeno una volta in questi due anni e mezzo, allora è difficile capire tutto il resto. Diventano incomprensibili i mesi di sostegno incondizionato nonostante risultati sempre più deludenti, inaccettabili con qualsiasi altro allenatore, un lento dissolvimento che stava facendo di quello striscione esposto ormai più di due anni fa, in uno dei suoi primi momenti di difficoltà – “Con Mourinho fino all’inferno” – una specie di profezia autoavverante. E non si capiscono neanche i tifosi corsi oggi fuori a Trigoria per ringraziarlo e chiedere a Mourinho – per una volta fuori dal suo personaggio, spettinato, silenzioso, con gli occhi lucidi – di scendere dalla macchina. Per fare cosa? Per stare per l’ultima volta tutti insieme, forse.

Certo, tutti i tifosi romanisti hanno anche brutti ricordi di Mourinho. Partite in cui nonostante lo stadio pieno e la stregoneria, indipendentemente dall’avversario più o meno superiore per valore assoluto, la Roma faceva sembrare il calcio una spiacevole appendice alla passione che i tifosi provavano nei suoi confronti, un’attività troppo difficile per i suoi giocatori, incomprensibile, in cui non solo non giocava bene, ma non vinceva neanche. Mourinho lascia la Roma con meno punti in classifica, dopo un girone, di quanti ne abbia avuti negli ultimi venti anni di campionato (con la sola eccezione della stagione 2004/05, alla fine della quale la Roma arrivò a soli tre punti dalla zona retrocessione), e una sola partita vinta con una delle squadre che la precedono (verrebbe da dire con l’unica messa peggio, il Napoli). La lascia con uno spareggio di Europa League da giocare per aver passato da seconda il girone, dopo aver pareggiato, in Svizzera, con il Servette. Eliminata dalla Lazio in Coppa Italia, in un derby in cui ha tirato per la prima volta nello specchio della porta avversaria a quattro minuti dalla fine. I tifosi romanisti erano consapevoli di questo. Non lo ignoravano. Anche di questo va tenuto conto.

Il legame tra la Roma e Mourinho andava oltre le sconfitte. Anzi, in parte era fondato anche su quelle. In particolare sulla sconfitta dello scorso 31 maggio, in finale con il Siviglia, la materializzazione di quel senso di ingiustizia con cui i romanisti convivono da sempre. Mourinho che aspetta l’arbitro nel parcheggio, i tifosi che lo inseguono in aeroporto. Magari è una cosa in cui credono tutti i tifosi, o una parte di tutte le tifoserie, di essere vittima del sistema, di avere contro i poteri forti, ma poche tifoserie hanno avuto un allenatore che ci credeva tanto quanto loro. Pochi allenatori hanno indossato tanto volentieri i panni del don Chisciotte. Un don Chisciotte, però, sempre più potente, con un esercito di Sancho Panza disposti a crederlo, e che a riportarlo coi piedi per terra non ci pensano per niente. Che importano i risultati e le sconfitte, pezzetti di realtà, quando il significato di quello che si sta facendo insieme è così profondo? In questo senso “fino all’inferno”: perché neanche il calore delle fiamme avrebbe potuto sciogliere quel legame. Non è masochismo, semmai coraggio. E al tempo stesso è disprezzo nei confronti di tutto ciò che sta al di fuori di quello stesso legame.

«Ora non penso più a cosa potrei vincere ma alla felicità che posso regalare ai tifosi della Roma», ha detto Mourinho pochi giorni prima della finale con il Siviglia. «La Roma è appartenenza, essere parte di qualcosa». Lo so, è contraddittorio. Non solo perché Mourinho con i risultati ci si è fatto a scudo a lungo negli ultimi anni, difendendosi con le vittorie presenti o passate da ogni critica esterna, ma soprattutto perché sono quelle due finali europee consecutive, a far entrare oggettivamente e al di là di ogni identificazione José Mourinho nella storia della Roma. Ma è contraddittorio anche che l’amore incondizionato nei confronti della propria squadra – lo stadio esaurito anche contro squadre piccole, anche quando si gioca male – fosse legato alla presenza di una singola persona. Ammesso che fosse davvero così, che tutto quello che Mourinho ha creato se lo porti via con sé.

La famiglia Friedkin ha fatto una scommessa. Si è giocata l’unica carta in grado di proteggere la Roma dal terremoto che l’esonero di Mourinho avrebbe rappresentato. L’unico essere umano di fronte a cui persino la rabbia del più “mourinhano” dei tifosi romanisti svanisce. Hanno cancellato un addio triste con un felice bentornato. Hanno anzitutto controllato i danni, come si dice, e poi hanno confermato quella mentalità hollywoodiana che li contraddistingue da quando sono a Roma: ogni anno un nome grosso, Mourinho, Dybala, Lukaku. Adesso Daniele De Rossi è l’unico in grado – forse, lo scopriremo presto – di continuare a tenere lo stadio pieno. Senza poter investire nel mercato per migliorare la squadra, è già qualcosa no? Agendo subito, inoltre, si sono evitati la coda di amarezze e veleni che è solita seguire Mourinho quando si dirige verso la porta d’uscita. E con il contratto in scadenza era solo questione di tempo prima che nascesse un conflitto tra di loro.

Il punto di vista della proprietà è chiaro. La logica, il cinismo dietro alle loro scelte è evidente, se non sfacciato. Il punto di vista di De Rossi però è diverso. Gli obiettivi sono appesi a un filo sottile. Il quarto posto non è lontano ma ci sono molte squadre in mezzo. Il Feyenoord che affronterà nello spareggio di Europa League (battuto in finale di Conference soffrendo, e ai quarti di Europa League la scorsa stagione, sempre soffrendo) rimane una squadra molto ostica, mentre la rosa della Roma è ridotta ai minimi termini e i giocatori disponibili sembrano in crisi d’identità. Lui arriva con alle spalle la sola esperienza alla Spal, sfortunata, in Serie B. Certo, è un’occasione unica e tutto quello che la Roma farà di meglio nei prossimi mesi, rispetto a quanto ha fatto finora, sarà tutto merito suo. Lui che è stato chiamato per una vita “Capitan Futuro” sa che l’attesa è finita, e infatti ha detto: “Non abbiamo tempo né scelta: dobbiamo lottare per gli obiettivi e raggiungerli”.

Nel suo primo messaggio De Rossi ha scritto anche: “L’emozione di poter sedere sulla nostra panchina è indescrivibile”. Ed è un messaggio strano. È quel nostra a suonare in modo buffo, come se gli fosse scappato anziché usare un più professionale “sulla panchina della Roma”. È un nostra da tifoso, come se quella panchina fosse già sua da prima, come lo è sempre stata di tutti i romanisti.

Non sarà facile sostituire Mourinho, riempire il vuoto lasciato da un allenatore che riempiva tutti i vuoti, che occupava tutto lo spazio e si prendeva tutte le responsabilità, i meriti, le colpe. Ma i Friedkin dovranno stare attenti a non usare De Rossi come un semplice parafulmini, a non bruciarlo in sei mesi. Perché non brucerebbero solo un traghettatore. Se dopo un grande allenatore come Mourinho c’è l’ignoto, beh, cosa c’è dopo il Futuro?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *