La solitudine del corpo. Un dipinto di Silvia Rossi

Silvia Rossi, dipinto tratto dalla serie All is white. Vari materiali su tela.

 

Non v’è altra origine, per la bellezza, che la ferita, individuale, irripetibile, celata o visibile, che ogni uomo custodisce in sé e difende – dove si rifugia quando vuole abbandonare il mondo per una solitudine temporanea ma profonda.

J. Genet, L’atelier di Alberto Giacometti[1]

 

Divagare comporta considerazioni poste su due livelli differenti: l’andare ‘fuori tema’, come auspicava Manganelli, e arrivare alcune volte a cogliere punti – ma solo per caso – nodali, che possono rivelarsi più sorprendenti di quelli raggiunti da un cosiddetto discorso.
Divagare quindi è comodo ma pericoloso. E quando ci vuole coraggio a provarci, si osa quasi soltanto se si sente l’eco lontana di un’ Itaca che chiede.
Io mi permetto di farlo questa volta in cui ho davanti un quadro appartenente alla serie All is White dipinta da Silvia Rossi.

Lo stupendo saggio da cui ho posto la citazione in esergo, L’atelier di Alberto Giacometti, attribuisce all’artista svizzero una serie di poteri messi in relazione con la visione del suo autore, Jean Genet, sull’ordine dello stato umano e delle cose. Una relazione che sa di assoluto, di tragico e quindi di molto impegnativo per l’artista e per l’arte, e Giacometti decide di accostarsene, nel momento in cui è in grado di spogliare ciò che rappresenta, di togliere, e ciò che toglie è “un’apparenza visibile” ed “un qualsiasi intervento su di essa”, e lo fa per via di una “nostalgia” di ciò che è al di là di questo nostro “ineluttabile” ordine, contro il quale evidentemente non possiamo fare nulla, ma che ci consente appunto la nostalgia. Ci consente quindi la creazione.
Quel gesto avviene insieme ed attraverso una specie di castigo che Giacometti impartisce a se stesso e all’osservatore, e lo fa senza ritegno, nel momento in cui “rende il nostro universo ancora più insopportabile: sembra infatti che questo artista abbia saputo rimuovere il velo che offuscava il suo sguardo per additare ciò che resterà dell’uomo quando ogni apparenza fallace sarà caduta.”
Tutto è capire che cosa significhi un uomo senza apparenza e a chi sia rivolta la folgorante essenza che non lascia scampo. Essa “comunica la consapevolezza della solitudine di ogni essere e di ogni cosa, e che tale solitudine è la nostra gloria più certa.”

E’ sul volto, definito dal lavoro di Giacometti, che Genet a questo punto si sofferma, e questo volto lo tratta nel modo in cui io potrei trattare il corpo nudo di una donna raffigurato nel quadro di Silvia Rossi.
Per dare significato ad un volto – dice Genet – l’importante è isolarlo. Lo sguardo deve essere in grado di sfuggire al contesto, di evitare che quel volto “si confonda con il resto del mondo”.
Non occorre che qui io descriva l’immagine del quadro: l’immagine è visibile in cima a questo scritto ed il lettore se ne può fare un’idea. E’ più interessante per me ora soffermarmi sull’uso della tempera, della muraria, dell’acrilico, del gesso, degli smalti e delle vernici ad interpretare il bianco in questo quadro. Il colore è distribuito in modo che trattenga qualcosa che va a finire, che va a morire. Le parti dense e sensibili al tatto si aggrumano intorno alle linee della schiena, del ventre, del seno, senza oltrepassarle ma definendole, mentre dal chiarore che emanano allontanandosene, affiora sullo sfondo un reticolato. Ancora indugia la solidità del materiale bianco, se ne osservano gli schizzi, gli agglomerati, i movimenti di contatto con la tela, le tracce della storia di quel prosciugamento, fino a risolversi nel velo sottile di colore sul quale prevale la tela, la cui trama resta visibile, come visibili rimangono i segni tracciati a matita.
Il bianco c’entra molto con tutto questo. Silvia Rossi mi ha detto, a proposito dell’uso che ne ha fatto in questa serie: “Il bianco è dissolvenza”. Poiché ho riportato la sola citazione che sono in grado di attribuirle riguardo al suo lavoro, l’affermazione diventa un unicum di una certa importanza, una perla.
Il corpo non è solo invaso da una luce che permette alla pianta di precisare perfettamente la sua ombra su di esso, ma giunge a farne parte, assume la propria posizione, il suo punto d’affermazione, dovrei dire, nello stesso identico punto di quello splendore che lascia indietro il reticolato.
Io vedo un pudore o una diffidenza nella dissolvenza delle forme che investe la testa che manca e nel reticolato da cui affiora il corpo, mentre ciò che del corpo emerge per contrasto è una solitudine che chiede, che si offre (che implora, forse, piegando la schiena, proprio tra le sue pieghe), che vorrebbe abbandonarsi all’altro, chiede all’altro l’uso di sé.
Il corpo è dunque segnato da un disegno asciutto, una pianta che impone l’ombra, forte di sviluppi, essendo pianta. E mi sembra che la vera impresa di quest’opera sia stata quella del marcare il corpo senza blandirlo né accarezzarlo, lasciandolo per prima cosa intatto, nella sua sporgenza, nel seno che guarda al posto degli occhi, nel pube calmo che si offre a piacimento, intatto, cioè non umiliato, non violentato, che parla al posto della bocca. Gli occhi e la bocca intanto restano oltre la dissolvenza.
Questo corpo non è in disaccordo col mondo, perciò lo si marca nel suo nitore. Gli è stata tolta solo la materia inutile, in modo tale che, affiorando quello in primo piano, sguardi, pensieri, parole fossero altrove, perché gli sguardi, i pensieri e le parole, loro malgrado, sono citazioni di violenza. Il corpo esposto, aperto, pieno, nel suo significato, nella sua essenza, direbbe Genet, è necessariamente indenne da citazioni di violenza. Viceversa resta, per me che lo ammiro, un’affermazione di volontà.

E’ facile deludere chi ha vissuto molte brutte esperienze. E, visto che è facile, è anche piacevole. Ecco perché la ribellione di chi ha vissuto molte brutte esperienze diventa necessaria. Quella piacevolezza incoraggia una moltitudine che fa numero, diviene peso, sposta, lede. Bisogna quindi guadarsi da quella piacevolezza dell’altro, da quel moto urgente. Bisogna prevenirla o respingerla.
Ho in mente questa scena: una donna che è di fronte all’uomo di cui si innamorò molti mesi prima. Un uomo che non ha mai potuto svelarsi, finora. Sono seduti uno di fronte all’altra, ad una certa distanza. Lui finalmente le confessa di ricambiare quel sentimento. Lei tiene lo sguardo ostinatamente abbassato, come sempre quando ha a che fare con lui, tanto che ne conosce a malapena il viso. Ma è una che deve dire la verità, ad ogni costo. “E’ il momento più bello della mia vita”, sussurra. Lui fa per alzarsi. “No! Stai fermo!”, fa lei. Le è tornata la voce. “Perché?”, chiede l’uomo. “Lo sai bene perché! Perché ho paura!”.
Che paura è quella della persona il cui amore di tanto tempo si rivela finalmente come corrisposto? E’ paura del contatto intimo? Dell’avvicinarsi dell’altro al proprio corpo? Il ricordo dell’antica sopraffazione?
E’ esattamente ciò che non vuole essere nel dipinto, il quale, ripeto, dispiega al contrario un abbandono, immerso nel bianco.

Sono immense la parole di Genet quando sviluppa il suo esempio sul volto, che, ricordo al lettore, mi pare possa svelare molto dell’uso che Silvia Rossi fa di quella figura che guarda e parla, sostenuta da un silenzio di dissolvenze, che dà vita al non-colore bianco.

“Un volto vivo non si concede facilmente, è vero, ma svelarne il significato non è poi impresa così ardua. Io credo – sto azzardando -, credo che l’importante sia isolarlo. Se il mio sguardo fa sì che quel volto sfugga a quanto lo circonda, se il mio sguardo (la mia attenzione) impedisce che si confonda con il resto del mondo e che si perda all’infinito in significati sempre più vaghi, fuori da sé, e se invece riesce a determinarsi quella solitudine in virtù della quale il mio sguardo lo separa dal mondo, allora solo il suo significato affluirà stipandosi in quel volto – o in quella persona, o in quell’essere, o in quel fenomeno. Intendo dire che la conoscenza di un volto per essere estetica deve rinunciare a essere storica. […] Il pittore – o lo scultore – ha già compiuto per noi l’operazione che ho descritto poco fa. Ci viene restituita la solitudine della persona e dell’oggetto rappresentati, e noi che guardiamo, se vogliamo percepirla ed esserne colpiti, dobbiamo avere un’esperienza dello spazio non in quanto continuità, ma discontinuità.”

Se volessi addensare tutto il discorso da me fatto in rapporto alla cifra più pregnante di quest’opera di Silvia Rossi, direi semplicemente che è il bianco a dare significato al corpo nudo che affiora, e non viceversa, a riceverlo. Tutto è bianco (All is White).
Mi pare inoltre sbalorditivo come Genet, parlando nel suo saggio anche dei disegni di Giacometti su carta, arrivi a dilungarsi con passione proprio sui bianchi usati dall’artista svizzero. Credo sia un ragionamento che si porti a sostenere del tutto quell’altro che riguarda la solitudine e che in seguito dovrò in ogni modo continuare a citare a man bassa, tanto mi sembra importante e pieno di bellezza.
Su alcune parti dei disegni (“diamanti” sono per Genet) splende il luogo “su cui cade la luce” e che “non lascia vedere che il bianco. […] E la sensazione di spazio ha tale forza da renderlo quasi misurabile. […] Nei disegni di cui parlo”, continua, “circola… come dire?, lo spazio. E la luce. Anche senza le convenzionali opposizioni di valori  – ombra-luce -, la luce si diffonde e pochi tratti la scolpiscono. […]
Volevo anche dire che i bianchi accendono la pagina d’oriente – di bagliori – , perché i tratti non sono usati in modo che assumano valore significativo, ma al solo fine di conferire ogni significato ai bianchi. Se osserviamo attentamente, non è il tratto ad essere elegante, ma lo spazio bianco che esso contiene. Non è il tratto ad essere pieno, ma il bianco.
E perché mai? Forse perché […] Giacometti cerca di trasformare in realtà sensibile ciò che era solo assenza – o, se si preferisce, uniformità indeterminata -, vale a dire il bianco, e persino, più profondamente ancora, il foglio di carta.”

Perché il bianco, in Genet/Giacometti, in Rossi e in me che leggo e guardo (ma soprattutto vivo, ed il bianco è il non-colore della mia vita, senza ombra di dubbio)? Quale purezza (se è tale, ma per me lo è, forse per Silvia no), quale innocenza derisa dal mondo è dietro al bianco?
Per i bambini si preparano le bare bianche, a loro si accostano i fiori bianchi. Ma un bambino è puro? Un bambino è puro solo nella misura in cui ha vissuto poco, ha poca esperienza del mondo. Ha potuto riflettere poco. Ha poco di tutto. Probabilmente il poco è la purezza.
Cosa viene, di contro, a violare ciò che viola quella purezza? Addossarle una violenza incomprensibile, per esempio. Incomprensibile al suo poco.
E cosa è il bianco in una donna adulta, nuda, con le parti inferiori e superiore in secondo piano, fino a sparire, ma soprattutto senza la testa, col pube ed il seno invece in risalto, nella curva di un fiero abbandono?
Il bianco supporta ciò che è rimasto dell’ “apparenza fallace”, svela ciò che resta alla sottrazione, e ciò che resta è la solitudine.

“Circa quattro anni fa mi trovavo in treno. Di fronte a me, nello scompartimento, era seduto un orrendo vecchietto. Sporco e palesemente malvagio, come certe sue riflessioni mi confermarono. […] all’improvviso provai la dolorosa – sì, dolorosa –  sensazione che qualsiasi uomo ne valeva esattamente – mi si perdoni, ma è su ‘esattamente’ che vorrei porre l’accento – qualsiasi altro. ‘Chiunque’ mi dissi ‘può essere amato al di là della sua bruttezza, della sua stupidità, della sua malvagità’. […] Lo sguardo di Giacometti ha visto tutto ciò da tempo, e ce lo restituisce. Dico quello che sento: la parentela che le sue figure manifestano altro non è, mi pare, che il punto prezioso in cui l’essere umano può venire ricondotto a quanto ha di più insopprimibile: la sua solitudine di essere esattamente equivalente a qualsiasi altro.”

E ancora:

“[…] ogni essere mi si rileva in ciò che ha di più nuovo, di più insostituibile – ed è sempre una ferita – grazie alla solitudine in cui li colloca questa ferita di cui sono a malapena consapevoli e in cui nondimeno tutto il loro essere affluisce. […]
La solitudine, come io la intendo, non significa condizione miserevole, ma anzi regalità segreta, incomunicabilità profonda e insieme consapevolezza più o meno oscura di una inattaccabile singolarità.”

E ancora:

“La capacità di isolare un oggetto e di farvi affluire i suoi soli e unici significati ha un prezzo: l’abolizione storica di colui che guarda. E’ necessario che chi guarda compia uno sforzo eccezionale per svincolarsi da ogni storia.”

I bianchi fatti seccare sulla tela hanno depositato un modo, oltre la storia – perché fa parte di ogni storia – di riconsiderare l’inevitabile solitudine di tutti gli esseri umani.
La fierezza e l’immensa tristezza di questo essere donna è ciò che a me ora interessa, nell’ostentazione di un poco che non c’è più, e non c’è più non perché ormai si è adulti, ma perché, da bambini, necessariamente, è stato violato. Quel poco è insomma diventato troppo, troppo in fretta e troppo presto.
E allora l’abbandono è una ribellione, tardiva ma pronta, la ribellione di un corpo morbido, quella delle sue linee, lievi, senz’altro lievi, ma colme di voluttà, la ribellione del desiderio, della fiducia verso l’intimo contatto con l’altro. E’ la ribellione del bianco.

[1] J. Genet, L’atelier di Alberto Giacometti, in Il funambolo, Adelphi, 1997.

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