“Della miseria più dura faremo oggi un poema” . Da Umberto Saba

Trieste, estate 2018: io, Champagne e Saba

 

Mi ritrovo a citare, a riportare Saba. È banale, lo so. Ma a mia discolpa innanzitutto preciso che non sto qui a rispolverarlo, a riesumarlo. Ci mancherebbe. Saba è sempre con me: non è materialmemente sul mio comodino per motivi meramente pratici, ma è come se lo fosse, senza alcun dubbio.
Durante il viaggio di due estati fa a Trieste, deciso proprio per conoscere la città di Saba e di Svevo e poi di Magris e di Rumiz, quella città così azzurra – e brusca, avrebbe detto lui – così chiara, trasparente; durante il viaggio, insomma, persi in treno il mio volume del Canzoniere. La sera stessa, dopo aver capito che ‘l’ufficio oggetti smarriti’ non mi avrebbe aiutata, il mio Canzoniere era già riacquistato, di nuovo con me.
La verità è che immagino che Saba stesso avrebbe apprezzato questa mia banalità di ora, questa cosa trita di riportare una poesia ‘da scuola’ su un blog che vorrebbe essere qualcosa di più che ‘scolastico’.
Mi pare infatti sia, questa, la banalità che reagisce alla letteratura cosiddetta originale, sempre arrabbiata, piena, cioè, di quel disturbato senso di superiorità; molto giudicante, per un’evidente paura di giudicare se stessa.

“Benché esser originali e ritrovar se stessi sieno termini equivalenti, chi non riconosce in pratica che il primo è l’effetto e il secondo la causa; e parte non dal bisogno di riconoscersi ma da uno sfrenato desiderio di originalità, per cui non sa rassegnarsi, quando occorre, a dire anche quello che gli altri hanno detto; non ritroverà mai la sua vera natura, non dirà mai alcunché di inaspettato.”

Così si espresse lo stesso Saba nel suo famoso Quel che resta da fare ai poeti (1), quello scritto che ebbe il coraggio, nel 1911, di dirci senza mezze misure quel che era di fatto la poesia di d’Annunzio, il suo “artificio” non solo “formale ma anche sostanziale”, il suo esagerarsi o fingersi (termini di Saba) “passioni ed ammirazioni che non sono mai state nel suo temperamento […] per il solo e ben meschino scopo di ottenere una strofa più appariscente, un verso più clamoroso”.
Che bellezza vedere messo al suo posto il campione… Vedere che Saba era onesto nel senso che quella poesia che ama le “trite parole”, “che non sa rassegnarsi, quando occorre, a dire anche quello che gli altri hanno detto” era bella perché, innanzitutto, era esattamente nel suo temperamento.
Io sto con la geniale semplicità di una poesia come Verso casa la cui eleganza è senz’altro naturale come quella di Trieste, e come quella – rude, in un ossimoro fondamentale – dell’adolescente a cui spesso Saba, come anche qui, l’aveva paragonata.
Prima di trascrivere la poesia, ancora da Quel che resta da fare ai poeti, perché è un piacere troppo grande rileggerlo e ritrovare le conferme necessarie:

“[…] quello che ò chiamato onestà letteraria […] è prima un non sforzare mai l’ispirazione, poi non tentare, per meschini motivi di ambizione o di successo, di farla parere più vasta e trascendente di quanto per avventura essa sia: è reazione, durante il lavoro, alla pigrizia intellettuale che impedisce allo scandaglio di toccare il fondo; […] solo quando […] il maggior poeta di una generazione […] lavorerà con la scrupolosa onestà dei ricercatori del vero, si vedrà quello che non per forza di inerzia, ma per necessità deve ancora essere significato in versi.”

 

                    Verso sera

Anima, se ti pare che abbastanza
vagabondammo per giungere a sera,
vogliamo entrare nella nostra stanza,
chiuderla, e farci un po’ di primavera?

Trieste, nova città,
che tiene d’una maschia adolescenza,
che di tra il mare e i duri colli senza
forma e misura crebbe;
dove l’arte o non ebbe
ozi, o, se c’è, c’è in cuore
degli abitanti, in questo suo colore
di giovinezza, in questo vario moto;
tutta esplorammo, fino al più remoto
suo cantuccio, la più strana città.
Ora che con la sera anche si fa
vivo il bisogno di tornare in noi,
vogliamo entrare ove con tanto amore
sempre ti ascolto, ove tu al bene puoi
volgere un lungo errore?

Della più assidua pena,
della miseria più dura e nascosta
anima, noi faremo oggi un poema.

(1) U. Saba, Quel che resta da fare ai poeti, in Prose, a cura di L. Saba, Mondadori, 1964, pp.751-756. Citate da questo brano sono anche tutte le altre espressioni sabiane riportate in questa introduzione, tranne ovviamente le “trite parole” della poesia Amai.

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