Caro Serianni

 

Caro Serianni, scusa se ti do del tu, perché proprio tu?
Perché tu, a soli settantaquattro anni, in salute, tu che ci eri indispensabile, in questi tempi orrendi?
Caro Serianni, mi eri indispensabile. Da te, per me, è iniziato tutto.
Avevo diciannove anni, Serianni, e se tu fossi ancora vivo non ricorderesti nulla di me.
Avevi quarantuno anni, ti conoscevano solo in facoltà e tra i linguisti d’Italia. Non eri famoso. Ma quando sono entrata la prima volta, da matricola, nell’aula di Grammatica storica italiana, e ti ho sentito parlare davanti alla lavagna, io ho trovato ciò che non avevo osato cercare, si svelava il segreto della mia lingua e della sua origine: Serianni, soprattutto per questo mi ero iscritta a Lettere.  Se amavo la letteratura, se amavo la poesia, Serianni, dovevo capire quanto e come c’entrassero, in questa predilezione, le parole di cui quelle sono fatte.
Caro Serianni, io amavo la tua materia e mi fu insegnata da te, il mio professore preferito.
Non eri bello, Serianni, ma tu eri esatto, cristallino, eri colto, le tue lezioni non erano mai sporcate da nulla. Parlavi di cose che conoscevi bene, parlavi di cose che mi sembrava conoscessi meglio di tutti. Eri gentile, eri sobrio, eri elegante nei modi. Mi rapivi, Serianni. Ero innamorata di te.
Caro Serianni, io ho capito la cultura con te. L’ultima volta che ne avevo avuto il sentore ero una ragazzina di quattordici e quindici anni. Ora io ero adulta, le mie domande non potevano più aspettare, le mie urgenze, il mio desiderio. Avevo bisogno di essere salvata da queste cose, Serianni.
Caro Serianni, avevo amici in facoltà, ma ero sola. A casa studiavo l’origine di ogni termine, di ogni elemento del primo canto di Dante su un librino scritto da te, mi appassionavo anche sopra al tuo manualetto introdotto dalla tabella fonetica e risentivo dentro di me quei suoni da te perfettamente scanditi: io ero sola, Serianni, ma avevo te.
Caro Serianni, io ci sapevo fare con la lingua, ma c’era tanto nella mia vita, tanto di strano, tanto di difficile, non potevo non arrancare in tutto. Avrei voluto tu lo sapessi, tu ne parlassi con me. I miei amici non erano come me, Serianni, loro erano votati al successo. Le mie amiche che scelsero te erano bravissime. Ma questo tu lo sapevi.
Caro Serianni, avrei voluto scegliere te.
Quando venni a fare l’esame, se ricordo bene il mio secondo esame in assoluto, Valeria Della Valle mi chiese il Certame coronario, ma io non me lo ricordavo. Mi sembrava fredda e severa, Serianni. Indovinavo non potesse comprendere che a volte uno studente che ha studiato e che ha capito non riesce a ricordare tutto. Fu un piccolo conforto finire l’esame con te sulla mia amata grammatica storica. Ma ero già rassegnata, Serianni, come troppo spesso era, e non fui al meglio neanche con te, fui confusa, l’avvilimento cresceva, la mancanza di concentrazione, il senso di sconfitta. Vi siete scambiati un’opinione sottovoce, tu e Della Valle, alla fine, e la sentenza fu ventiquattro. Avrei potuto rifiutarlo con sdegno, tornare per avere il mio trenta che per un istante avevo pensato di meritare. Non importava, infatti, che tutti dicessero fosse un esame molto difficile: i miei amici stavano prendendo tutti trenta o trenta e lode, con te.
Caro Serianni, anche in questo fui la cenerentola del gruppo.  E mi tenni il ventiquattro perché non mi ritenevo all’altezza, come spesso mi accadeva.
Caro Serianni, eri il mio professore preferito, capivo e amavo la tua materia, ma io non osai seguire altri corsi tenuti da te. Mi credevo già segnata. Scelsi altre materie e altri professori, mi laureai con altri. Pensavo di non meritare il tuo insegnamento, Serianni.
Caro Serianni, avrei voluto dirti questo, mentre sapevo, invidiosa, che le mie amiche seguivano la seconda annualità e poi la terza, con te, mentre facevano le tesine e i compiti con te, mentre io immaginavo i loro scambi con te, per prepararsi alla tesi di laurea, per i primi incarichi, una volta laureate.
Caro Serianni, io mi accontentavo che tu mi salutassi quando mi incrociavi per i corridoi affollati della facoltà. Ne ero felice, Serianni. Ne ero emozionata. Mi chiedevo come potessi tu ricordarti di me tra le centinaia di alunni, una povera studentessa che aveva sì, seguito il tuo corso, ma che era andata a farsi friggere come altre centinaia di insignificanti studenti. Forse ti ricordavi di me e mi salutavi perché ero bella o forse perché mi avevi visto spesso insieme alle tue allieve. Forse semplicemente indovinavi qualcosa di vero, in me, che mai sapevo mostrare…  Avrei voluto dirti queste cose, Serianni.
Caro Serianni, cercavo di infilarmi nella tua aula della seconda annualità, durante il quarto d’ora accademico, fingendo di farlo per stare insieme alle mie amiche, ma speravo sempre che tu entrassi e mi vedessi un istante, prima che io fossi costretta a uscire. Ho sognato spesso il tuo sguardo su di me, mentre uscivo, Serianni. Avrei voluto tu capissi che era quella la lezione che più di tutte avrei voluto seguire, e non di certo per una superficiale infatuazione, ma perché erano la lingua, il tuo insegnamento, la tua umanità ad appassionarmi.  Serianni, ero destinata al rimpanto già allora.
Caro Serianni, ho superato tanti esami che riguardano la lingua, anche dopo la laurea. Tutti con successo. Mi interessa ancora molto, la lingua. Mi sei stato indispensabile e sono molto meno rassegnata, grazie al tuo esempio. Ma non solo per me sei stato, sei un faro: lo sei per generazioni di persone.
Ci eri indispensabile, caro Serianni, in questi tempi sempre più volgari e ignoranti: perché proprio tu?

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