Vaglielo a spiegare…

 

Tornata ragazzina, mi sono di nuovo innamorata della A.S. Roma. E come quando ero ragazzina, nulla può essere capito di ciò che accade nella testa e nel cuore di noi tifosi da chi tifoso non è. Di noi tifosi romanisti da chi romanista non è. So solo che il mio stato d’animo c’entra molto con il giorno della mia prima comunione (non ancora nove anni) quando i miei mi portarono al centro, per girarlo una giornata intera, e mi regalarono in quell’occasione una guida di Roma che conservo ancora, e quella gita e quel dono mi sembrarono la cosa più entusiasmante del mondo; e so solo che c’entra anche con altre cose del genere o più intime e naturali accadute anche prima, legate alla mia infanzia a Roma. C’entra insomma con l’amore irrazionale e disperato per la nostra città, una città diversa – ne siamo convinti – da tutte.

Avrei pianto in seguito, per quella squadra. Il giorno più triste, Roma-Liverpool persa ai rigori, finale di Coppa Campioni disputata in casa. Non avevo quindici anni. Rintanata inebetita nella mia stanza, mio fratello e mia madre mi raggiunsero, facendo di tutto per consolarmi. Ma io sapevo solo ripetere: “Non avremo più una occasione così.” Non l’abbiamo più avuta. Due anni dopo, Roma-Lecce 2-3, dopo il campionato più esaltante che io ricordi, una rimonta impossibile, il sogno di un altro scudetto a portata di mano dopo quello dell’ ’83, la consapevolezza di essere noi qualcosa di diverso; Boniek che diceva che a Roma aveva trovato quello che cercava, più di quello che aveva lasciato a Torino con la Juve. La Roma era la squadra che, con due scudetti in bacheca e poco più, poteva essere anche qualcosa di meglio della Juve… E alla Juve regalammo quel giorno di Roma-Lecce l’ennesimo scudetto – dopo averla raggiunta la settimana precedente, a due giornate dalla fine – perdendo in casa contro quella piccola squadra ultima in classifica e già retrocessa. Ero abbonata e quindi ero allo stadio e fu atroce. Vivere non una delusione, ma la delusione. Anche lì la stessa sensazione di una occasione più unica che rara.  Non mi avrebbe appagato così tanto il terzo scudetto, vissuto da adulta impegnata in ben altre battaglie, idealità, entusiasmi.

Solo ora, tornata ragazzina, mi ritorna la pazzia della tifosa, e in occasione di un altro Roma-Lecce giocato domenica e che stavamo perdendo al novantesimo e che alla fine abbiamo vinto, i profani cercano di capire cosa mi stia succedendo, cosa ci stia succedendo. Mi chiedono da un po’ il perché di tutto ciò. Vaglielo a spiegare…

Pubblico in tale amletica  situazione l’articolo di Francesco Balzani uscito ieri su www.forzaroma.info, col titolo Roma, il vero sold out è quello dell’empatia. Mi pare proprio che questa stranezza sia proprio qui, ora, proprio come Balzani e tutti noi stiamo notando.

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La Roma non gioca bene, la Roma non lotta per lo scudetto, la Roma non è quella di qualche anno fa. Eppure l’Olimpico è sold out. Sempre. A prezzi bassi, a prezzi alti. Contro la Juve e contro il Lecce. Di giorno, di sera, di domenica o giovedì. Eppure questo pubblico non fischia, non mormora, non si deprime. Mai. Perché? Lo sa chi almeno una volta nella gestione Mourinho si è seduto su quei seggiolini, ancor meglio chi ci sale sopra. Lo sa ma non lo sa spiegare a parole. C’è un’empatia illogica, irrazionale. Come i sentimenti forti. C’è un legame tra questo gruppo e i suoi tifosi che fatichiamo a ricordare. Non importa se sei Lukaku o Kristensen, se sei Dybala o Pagano. Indossi quella maglia, sudi per quella maglia, piangi e gioisci su quella maglia. E allora sei uno di noi, e uno di noi non si abbandona nemmeno nei momenti brutti. L’Olimpico ieri non ha abbandonato la sua Roma, nemmeno sullo 0-1 per il Lecce che condannava la squadra all’undicesimo posto in classifica a una settimana dal derby. E’ rimasto lì, su quei seggiolini (tranne chi ha i biglietti omaggio). A tifare, a sospirare, a incitare. Poteva finire male, anzi sarebbe finita male probabilmente senza quell’empatia che è più forte dei nostri giudizi, delle analisi settimanali, di uno stato su Facebook o di un commento per radio. E’ qualcosa che ha portato la Roma a Tirana, poi a Budapest. Che se ne fotte se il gioco non è brillante e il mercato lo è ancora di meno. E in fondo anche chi va al cinema vuole vedere un finale a sorpresa, diverso da ciò che si vede magari nel primo tempo.

C’è quella sensazione, entrando all’Olimpico, che si entra in un metaverso intoccabile, nel mondo di Mou in cui tutto può accadere. In un regno dove conta solo quel che accade tra quelle mura e dove può accadere di tutto fino all’ultimo sospiro. Tutto il resto scompare. E non riguarda solo i tifosi. Perché Mourinho è rimasto? Perché Dybala non se ne è andato? Perché possiamo sperare che resti anche Lukaku? Perché anche loro sono rapiti da questo incantesimo, da questa sorta di attrazione magnetica che ti incolla lì, che ti obbliga a voler bene a tutto ciò che è intorno a te. Sembra un trattato di retorica romanista, ma in fondo se almeno una volta ci sei stato sai che non è così. “È meglio essere sempre un po’ improbabili”, scriveva Oscar Wilde. E’ forse questo.

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