Stare un po’ con Svevo e Joyce

Alcuni asseriscono che i libri sperimentali si leggono solo a vent’anni, o anche un po’ prima. Poi ti cascano dalle mani. Io sono una di questi. Mi pento ancora degli Ulisse non letti a vent’anni, mi vanto di aver divorato l’Ulisse di Joyce entro quell’età (Mondadori, traduzione di Giulio De Angelis).
Anche Svevo mi piacque subito, a scuola, e lessi presto la Coscienza. Sono quelle cose che apprezzi tanto quando sei di primo pelo: una curiosità spasmodica, un senso di verginità entusiasmante.
Poi, da adulta, ho preferito spesso le biografie, gli incontri, la poesia. Cose adatte agli spiriti stanchi. E come molti ormai maturi, e quindi appunto stanchi, ho iniziato ad apprezzare quei viaggi che immortalano le esistenze. Sfruttando quindi il concomitante amore per Saba, sono andata pochi anni fa a Trieste, per stare un po’ con Svevo e Joyce.
Figurarsi se con tali premesse potesse non incuriosirmi il libro di cui parla l’articolo che oggi propongo. Il libro (peccato per il sottotitolo) – La vita dell’altro. Svevo, Joyce: un’amicizia geniale – quanto prima sarà sul mio comodino. Il pezzo (l’articolo) che lo esamina è parecchio interessante. Ne anticipo la conclusione, che considera che “affidarli [parla appunto dei due scrittori] (nel sottotitolo del libro) a un luogo comune, anzi a un tormentone come fossero personaggi della Ferrante, suona curioso. Non erano tipi facili, chissà se avrebbero apprezzato.”. Io sono certa di no.

Ecco l’articolo, dal titolo Svevo e Joyce, amicizia «geniale»?, scritto da Mario Baduino e apparso su “La Stampa” il 5 settembre 2023.

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Il rapporto tra i due non fu sempre facile, ma profondissimo. Un libro di Enrico Terrinoni sui due grandi scrittori integra lavorando soprattutto sui loro testi le ricostruzioni memorialistiche e storiche. Con un curioso riferimento, nel titolo, al tormentone Ferrante.

Fu un’amicizia difficile, chissà se «geniale», come dal sottotitolo di La vita dell’altro. Svevo, Joyce: un’amicizia geniale (Bompiani), che Enrico Terrinoni, traduttore di Joyce e grande specialista in materia, dedica al lungo rapporto fra l’autore dell’Ulisse e Italo Svevo, nato negli anni triestini quando l’irlandese insegnava alla Berlitz School e dava in privato lezioni di inglese al ricco industriale – e scrittore frustrato – Ettore Schimtz. Orami sappiamo davvero molto sull’uomo che divenne immortale firmandosi Italo Svevo, nato ebreo, educato in un collegio bavarese diretto da un ex esponente di spicco della socialdemocrazia tedesca, per convertirsi infine dopo il matrimonio con Livia Veneziani.

Una particolare lente d’ingrandimento, poi, è stata applicata com’è ovvio al suo rapporto con quell’irlandese scalcagnato che a partire dal 1907 gli insegnava l’inglese nella bellissima villa dei Veneziani, ricchi imprenditori che costruivano a Trieste e a Murano (e in seguito anche in Inghilterra) una impareggiabile vernice sottomarina per le chiglie delle navi. Schmitz-Svevo, dopo un po’ di rodaggio, era ormai un dirigente importante dell’impresa, anche se la terribile suocera, Olga, lo faceva filare a bacchetta e gli lesinava persino i rimborsi spese.

Nelle memorie di Livia l’incontro tra i due scrittori è descritto come un grande abbraccio: «Nonostante la differenza di età e di nazionalità, l’amicizia tra loro sorse immediata». Ma fu davvero così? Molte testimonianze dicono se non proprio il contrario qualcosa di diverso, o almeno rivelano la distanza sociale, enorme, fra i due. Certo, si sa che Joyce lesse in anteprima ai coniugi Schmitz il suo racconto I morti, destinato a diventare parte di Gente di Dublino, e i due si emozionarono: Livia andò in giardino, colse una rosa (o un mazzo di rose) e gliela porse E’ vero anche che Ettore Schimtz gli fece leggere Una vita e Senilità, pubblicati a proprie spese e senza nessuna fortuna, e ne ebbe il celebre, lusinghiero commento: «Ci sono dei brani in Senilità che neppure Anatole France avrebbe potuto migliorare». E’ verissimo che vent’anni dopo l’amico irlandese, ormai celebre, si dette molto da fare per lui, lanciando le sue opere da Parigi (a partire dalla Coscienza di Zeno).

Fu un gioco di estraneità e di intimità, di limiti sfiorati senza mai superarli, e di specularità: Svevo beveva con misura e fumava come una vaporiera, Joyce non aveva il problema delle sigarette ed era spessissimo ubriaco. Per Joyce, Svevo era «un vero taccagno», visto che non corrispondeva prontamente alle sue richieste di prestiti in denaro, sotto forma di anticipazioni sulle lezioni. Per Svevo, che pure non poteva largheggiare per via della suocera, il Joyce negli anni parigini, quando ormai era un uomo di successo, diventò qualcuno da corteggiare anche con insistenza, col dubbio ossessivo che non facesse forse tutto il possibile per lui. Tutto vero, scrive lo studioso. Ricorda anche che Joyce e Svevo si davano – almeno per lettera – del lei; che «Joyce a Trieste non aveva mai, a suo dire, solcato la soglia della casa degli Schmitz-Veneziani se non come insegnante di inglese; che la moglie, Nora, negli anni triestini non vi era mai invitata e che per un periodo fu persino al loro servizio; che la consorte di Svevo, Livia, se per caso talvolta incontrava per strada Nora, non la salutava nemmeno; che le differenze sociali tra loro erano troppo ampie, e che in una città come Trieste la borghesia a cui appartenevano i Veneziani non poteva accettare una frequentazione mondana ufficiale con i Joyce…». Ma c’è anche altro, che forse conta molto più di queste «evidenze inoppugnabili».

Terrinoni rilegge le molte testimonianze ma cerca soprattutto nei libri, con una lettura incrociata che rende conto di quella «amicizia ambivalente, a tratti geniale», un rapporto di «affinità e divergenze». Joyce non fece del resto mistero di aver modellato proprio su Svevo il suo Leopold Bloom (e non solo, nella Finnegans Wake trasformò com’è noto i bellissimi capelli di Livia Veneziani in quelli di Anna Livia Plurabelle).

L’amico italiano, questo invece non tutti lo ricordano, scrivendo La coscienza di Zeno gli mandò un potente messaggio cifrato, quando fissò la data per la «prima ultima sigaretta»: 2 febbraio, compleanno di Joyce e dell’uscita dell’Ulisse a Parigi. E l’irlandese attribuiva un’enorme importanza alla date, e alle numerologie in generale, con esiti al limite dell’esoterico. Tipico esempio è il 13: che per Bloom, nell’Ulisse, è il numero della morte. E’ la data in cui morì la madre di Joyce, nell’agosto del 1903: ma anche quella dei due scrittori. Svevo morì infatti il 13 settembre 1928, Joyce il 13 gennaio 1941.

Incrociando le opere maggiori, Terrinoni trova a questo proposito una ragnatela di intrecci addirittura (li definisce proprio così) «ultrasubliminali», quasi che siano rifluiti in esse discorsi, confessioni, dialoghi privati che non conosceremo mai, premonizioni, destini. Qui il libro sfiora il virtuosismo, e tutta la parte critica è davvero interessante: per esempio l’osservazione, una per tutte, che in Una vita la madre di Lucia (una «democratica sfegatata») si chiama Lucinda Lannucci, nome che «rimanda in maniera silenziosa e sotterranea», nell’Ulisse, a quello della madre di Molly Bloom, Lunita Laredo.

Un puro caso, un’assonanza da nulla? No, le iniziali sono importanti. Joyce «nascose» ad esempio quelle dei personaggi principali – ricorda Terrinoni – nelle prime quattro parole del romanzo: «Stately, plump Buck Mulligan» («Statuario, il pingue Buck Mulligan…»: nella sua traduzione per i classici Bompiani); ovvero Stephen, Poldy Bloom, Molly. Analisi questa sì «geniale». Se lo fosse o meno anche l’amicizia tra i due scrittori, è altra questione: affidarli (nel sottotitolo del libro) a un luogo comune, anzi a un tormentone come fossero personaggi della Ferrante, suona curioso. Non erano tipi facili, chissà se avrebbero apprezzato.

 

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