Sciascia basta leggerlo

Oggi è il centenario della nascita di Sciascia. Ho cercato articoli, ho trovato poche cose, e troppe parole, a dire il vero, e nulla che parlasse della cosa che prima di tutto meriterebbe di essere celebrata, la sua scrittura. Ma è anche certo che su quella basterebbero poche parole, ma dette bene.
Sono le undici di sera, dovrò necessariamente essere sintetica. Faccio quindi una cosa. Sono andata a cercare nella mia libreria e ho trovato, ad esempio, Todo modo e La scomparsa di Majorana. E siccome Sciascia è come il jazz – non c’è molto da spiegare ma semplicemente da ascoltare -, apro a caso i due volumi e comincio a leggere un paio della miriade di brani che sottolineai a suo tempo.
Leggiamo semplicemente Sciascia, sostanzialmente non c’è altro da fare.
Nella preterizione che alla fine scelgo, ribadisco che non voglio mettermi a sciorinare aggettivi, ma accenno soltanto alla sprezzatura, e poi lascio fare a lui, perché sul serio Sciascia basta leggerlo. Ed in questo semplice modo, chi ti insegna la scrittura meglio di lui?

Inizio con Todo modo.

“Ed ecco che in questo momento, mentre scrivo, il fatto di ricordare queste immagini (immagini vere e proprie e immagini da parole) mi sorprende e aggiunge inquetudine all’inquetudine. Com’è che così nitidamente vedo Spinoza nella sua bottega di ottico, l’ombra della sera, le lenti come piccoli laghi in un paesaggio di manoscritti, tra le selve delle parole scritte (quella grafia secentesca che sembra agitata come da un vento, stormente); che così nitidamente ricordo il ritratto di don Antonio e i versi di Ibn Hamdis?” (1)

E passo a La scomparsa di Majorana.

“Come tutti i siciliani ‘buoni’, come tutti i siciliani migliori, Majorana non era portato a far gruppo,  a stabilire solidarietà  e a stabilirvisi (sono i siciliani peggiori  quelli che hanno il genio del gruppo, della ‘cosca’). E poi, tra il gruppo dei ‘ragazzi di via Panisperna’ e lui, c’era una differenza profonda: che Fermi e i ‘ragazzi’ cercavano, mentre lui semplicemente trovava. Per quelli, la scienza era un fatto di volontà, per lui di natura. Quelli l’amavano, volevano raggiungerla e possederla; Majorana, forse senza amarla, la ‘portava’. Un segreto fuori di loro – da colpire, da aprire, da svelare – per Fermi e il suo gruppo. E per Majorana era invece un segreto dentro di sé, al centro del suo essere; un segreto la cui fuga sarebbe stata fuga dalla vita, fuga della vita. Nel genio precoce – quale appunto era Majorana – la vita ha come una invalicabile misura: di tempo, di opera. Una misura come assegnata, come imprescrittibile. Appena toccata, nell’opera, una compiutezza, una perfezione; appena svelato compiutamente un segreto, appena data perfetta forma, e cioè rivelazione, a un mistero – nell’ordine della conoscenza o – per dirla approssimativamente – della bellezza: nella scienza o nella letteratura o nell’arte – appena dopo è la morte. E poiché è un ‘tutt’uno’ con la natura, un ‘tutt’uno’ con la vita, e natura e vita un ‘tutt’uno’ con la mente, questo il genio precoce lo sa senza saperlo. Il fare è per lui intriso di questa premonizione, di questa paura. Gioca col tempo, col suo tempo, coi suoi anni, in inganni e ritardi. Tenta di dilatare la misura, di spostare il confine. Tenta di sottarrsi all’opera, all’opera che conclusa conclude. Che conclude la sua vita.” (2)

 


1. L. Sciascia, Todo modo, Adelphi, 2003, pag. 99.

2. L. Sciascia, La scomparsa  di Majorana, Adelphi, 2004, pag. 31-32.

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