Pro più pro

Oggi pubblico un articolo uscito sul “Corriere della sera” il 29 ottobre 2023, scritto da Carlo Rovelli, scienziato e intellettuale che ci è molto simpatico. L’articolo è serio, però, e va letto nella sua semplicità. Si intitola Medio Oriente in fiamme, «vedere» l’altro lato. Così si può ricomporre la frattura emotiva generata dalla guerra e ribadisce concetti che, seppur ovvi, si allontanano ormai dalle menti di troppi.

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I pro Palestina: quando denunciamo le sofferenze dei bimbi di Gaza, ci ricordiamo di quelli israeliani uccisi? I pro Israele: chiamare antisemita chi non faccia il tifo per le bombe sui civili non ci libererà dal razzismo.

Ho una parola da dire, anzi sussurrare, alle persone che stanno dall’uno e dall’altro lato della radicale frattura emotiva suscitata dagli eventi di Gaza. Permettetemi di rivolgermi per primi ai milioni di manifestanti in Italia e nel mondo, solidali con le sofferenze del popolo di Gaza.

È difficile non sentire empatia per Gaza, data la palese agonia di tanti palestinesi in questo momento. Mi sento uno di voi. Ma vi ricordate che il punto da difendere era proprio che l’empatia non può essere a senso unico? Certo è ridicolo accusare di antisemitismo chi si indigna per le sofferenze di un popolo bombardato — siamo arrivati perfino all’imbecillità di denunciare come antisemite persone come Greta Thunberg.

Ma stiamo tenendo presente anche il fatto reale che l’antisemitismo esiste, è reale, ed è vero che è in aumento? Che la storia secolare degli ebrei e il tragico racconto dell’Olocausto perpetrato dal regime nazista nutre in tanti ebrei un ricorrente e comprensibile terrore? Quando denunciamo le sofferenze dei singoli bambini, donne, e uomini a Gaza, per mano dell’esercito israeliano, prima di ogni analisi storica e di ogni attribuzione di colpe, ci ricordiamo anche che ci sono singoli bambini, donne, e uomini israeliani trucidati? Prima di fare aritmetiche (certo, sbilanciate), o attribuire responsabilità, prima di rimarcare quali strutture politiche siano oppressi o oppressori, ci ricordiamo di mettere in chiaro che la responsabilità non è mai collettiva, e che stiamo difendendo il diritto alla vita, alla casa, a non essere schiacciato, anche per gli esseri umani che stanno dall’altra parte di un conflitto? Sono certo che quasi tutti voi mi rispondiate «ma è ovvio». Ma ci rendiamo conto che se non lo ripetiamo con chiarezza, ogni nostra espressione di solidarietà con chi soffre, ogni nostra denuncia di ingiustizia, ogni nostra richiesta di giustizia, viene percepita da chi per motivi di etnia, di educazione, di formazione, si trova dall’altra parte della barricata, come una dichiarazione di odio, una condanna a morte, il riapparire dello spettro dei pogrom, i ricorrenti massacri di ebrei nella storia?

Fra noi ci sono cari amici ebrei che hanno sempre detestato la politica oppressiva di Israele, hanno sempre militato per il riconoscimento di uno Stato palestinese pienamente indipendente, ma ora esitano, indietreggiano, spaventati dalla vasta marea nel mondo che condanna gli eccidi compiuti dallo Stato israeliano, ma non vuole dire una parola sugli ebrei massacrati. Non vedere questo effetto è cecità, è spingere verso il baratro, verso l’inevitabilità dell’odio. Non si tratta di un dettaglio. Si tratta della capacità di vedere entrambi i lati di una tragedia, di comprendere cosa motiva chi vede le cose diversamente.

E permettetemi ora di rivolgermi invece a chi appunto sta dall’altra parte di questa tragedia. Capisco il senso di assediamento, capisco cosa suscita sentire nelle piazze del mondo intero gli inni a Hamas. Capisco la vostra percezione del mondo. Mi sento uno di voi. Ma ci rendiamo conto che chiamare antisemita chiunque non faccia il tifo per un bombardamento su civili non porta a liberarci dalla piaga infetta dell’antisemitismo e del razzismo? Al contrario, alimenta proprio l’antisemitismo? Ci rendiamo conto che è la stessa nostra paura, e ciò che questa paura provoca, a nutrire comportamenti che alimentano reazioni antiebraiche contro di noi? Ci rendiamo conto che più lamentiamo e usiamo la violenza di Hamas come giustificazione per le nostre azioni, più forniamo argomenti emotivi proprio a chi ritiene che l’unica risposta possibile alla violenza sia ancora più violenza? Pensare di stravincere ammazzando tutti gli altri non può funzionare, in un vasto mondo in cui l’Assemblea generale delle Nazioni Unite vota 120 verso 14 contro uno Stato israeliano che rifiuta una tregua.

Chiamare «diritto alla difesa» lo scatenamento di una violenza estrema non ci rafforza, ci indebolisce. Proviamo per un momento anche noi a guardare il conflitto dalla prospettiva dell’altra parte: dall’altra parte non ci sono solo estremisti fanatici che vogliono sterminare gli ebrei. Ci sono anche quelli lì, ahimè, ma sono una minoranza sparuta nel mondo: perfino la carta fondante di Hamas auspica una convivenza pacifica fra Islam e ebraismo. Se identifichiamo sempre chiunque non ci sostenga con la minoranza più estremista, se tacciamo di antisemitismo chiunque non sostenga la linea politica più dura, stiamo gettando via tutte le soluzioni possibili, e attirandoci nemici.

La maggioranza di chi non è d’accordo con noi non vuole la nostra morte, e neppure farci del male. Vuole non essere bombardata, non essere oppressa, vivere in una democrazia, dove chi è governato possa votare chi lo comanda. Ecco, questo volevo provare a dire, sommessamente, a chi emotivamente si sente da una parte e a chi si sente dall’altra. Proviamo per un momento a guardare le cose dall’altro lato. A chi invece soffia sul fuoco, da una parte e dall’altra, per calcoli strategici geopolitici di potere, o a chi su questo dolore lucra vendendo armi, non ho nulla da dire, se non ricordare le parole finali di Bob Dylan in Masters of war. Rileggetele.

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