Minima antologia della prosa e della poesia pavesiana. Mýthos e lógos

La spiaggia di Brancaleone per le riprese di un documentario su Pavese

 

Pavese è il classico esempio di poeta che esprime posizioni esistenziali da me accostate in adolescenza e poi del tutto superate, ma che continuo a considerare con stima sincera, pura. Amo la poesia pavesiana e questo saggio è frutto di tale mio sempre vivo interesse.

*********

“Una piana in mezzo a colline, fatta di prati e alberi e quinte successive e attraversate da larghe radure, nella mattina di settembre, quando un po’ di foschia le spicca da terra, t’interessa per l’evidente carattere di luogo sacro che dovette assumere in passato. Nelle radure, feste fiori sacrifici sull’orlo del mistero che accenna e minaccia di tra le ombre silvestri. Là, sul confine tra cielo e tronco, poteva sbucare il dio. Ora, carattere, non dico della poesia, ma della fiaba mitica è la consacrazione dei luoghi unici, legati a un fatto, a una gesta a un evento. A un luogo, tra tutti, si dà un significato assoluto, isolandolo nel mondo. Così sono nati i santuari. Così a ciascuno i luoghi dell’infanzia ritornano alla memoria; in essi accaddero cose che li han fatti unici e li trascelgono sul resto del mondo con questo suggello mitico.”[1]

Il brano è tratto da Feria d’agosto, libro composito, il risultato dell’accostamento di racconti e saggi, pubblicato da Pavese nel 1946 e momento conclusivo di un periodo di studio e riflessione intensi, che va dal ’40 al ’45, mentre la sua produzione letteraria attraversava una fase di stasi.
Ancora da Feria d’agosto:

“Ma il parallelo dell’infanzia chiarisce subito come il luogo mitico non sia tanto singolo, il santuario, quanto quello di nome comune, universale, il prato, la selva, la grotta, la spiaggia, la casa, che nella sua indeterminatezza evoca tutti i prati, le selve ecc., e tutti li anima del suo brivido simbolico. Neanche nella memoria dell’infanzia il prato, la selva, la spiaggia sono oggetti reali fra i tanti, ma bensì il prato, la spiaggia come ci si rivelano in assoluto e diedero forma alla nostra immagine.”[2]

Nella contiguità tra la “consacrazione del luoghi unici” e la memoria dei “luoghi dell’infanzia” e nella conseguente adesione all’idea che a rendere unici un luogo e un evento, e quindi mitici, è la memoria stessa, il ruolo di quest’ultima è anche quello di vestire di indeterminato quella realtà che pure è stata concreta, ma i cui contorni smussati dal tempo definiscono ormai gli oggetti recuperati dall’infanzia come esistenti al di là del tempo e dello spazio. Ora, nella misura in cui l’oggetto è mitico in quanto oggetto unico, esso, ripreso nell’imprecisione della memoria, risulta anche simbolico.
Dal momento che la qualità dell’essere simbolico è quella di rimandare ad altro, di risultare polisemico, Pavese può affermare che sta nell’indeterminatezza, col “suo brivido simbolico”, l’animazione dei prati e delle selve.
E ancora:

“Quest’ unicità del luogo è parte, del resto, di quella generale unicità del gesto e dell’evento, assoluti e quindi simbolici, che costituisce l’agire mitico. Una definizione non retorica di questo sarebbe: fare una cosa una volta per tutte, che perciò si riempie di significati e sempre se ne andrà riempiendo, in grazia appunto alla sua fissità non più realistica. Nella realtà naturale nessun gesto e nessun luogo vale più di un altro. Nell’agire mitico (simbolico) è invece tutta una gerarchia. ”[3]

Verso la metà del settembre (precisamente il 12 e il 17) del ’43, Pavese scrive ne Il mestiere di vivere [4] note che riprendono quasi parola per parola le affermazioni appena citate da Feria d’agosto.
Ma in quegli stessi giorni del settembre del ’43 (il 15) Pavese aggiunge a questo tentativo di definizione del mito un elemento diverso:

“Di ogni scrittore si può dir mitica quell’immagine centrale, formalmente inconfondibile, cui la sua fantasia tende sempre a tornare e che più lo scalda […]. Mitica è quest’immagine in quanto lo scrittore vi torna come a qualcosa di unico, che simboleggia tutta la sua esperienza.”[5]

Il mito è dunque posto in relazione con l’attività letteraria.
Va innanzitutto premesso che il rapporto del mito con la poesia rimanda a tutta una serie di dicotomie attraverso le quali si svolge gran parte dell’esperienza umana e poetica di Pavese; tra queste, il contrasto tra mýthos e lógos, momento fondante della riflessione pavesiana.
Mentre ragiona sulla propria attività letteraria, l’autore introduce il concetto di “irrazionale”, accostandolo a quello di “mito”.

“Senza dubbio l’irrazionale è l’enorme réservoir dello spirito, come i miti lo sono delle nazioni. Le tue creazioni le trai dall’informe, dall’irrazionale, e il problema è come portarle a consapevolezza.”[6]

In effetti, come si vedrà da altre letture, Pavese, analizzando il rapporto tra mito e poesia, stabilisce una contrapposizione che simultaneamente chiarisce quel rapporto e ne genera altri. Essa vede posti, uno in dialettica con l’altro, l’irrazionale e il razionale e, per usare due termini vicini ma non del tutto sostituibili a questi, l’inconsapevole e il consapevole. I primi termini di ciascuna coppia indicano ciò che è mitico, “accaduto una volta per tutte”, fuori del tempo; i secondi l’occasione del ritorno, del tentativo del recupero, quindi del poetico.
Per comprendere meglio questa fase della “seconda volta” poetica – ciò che viene definito lógos – è necessaria la lettura di due brani, tratti rispettivamente da due articoli pubblicati su “Cultura e realtà” nel 1950, intitolati Il mito e Poesia è libertà (ora in Letteratura americana e altri saggi). Eccoli, uno dopo l’altro:

“Dalla fanciullezza, dall’infanzia, da tutti quei momenti di fondamentale contatto con le cose e col mondo che trovano l’uomo sprovveduto e commosso e immediato, da tutte le ‘prime volte’ irriducibili a razionalità, dagli istanti aurorali in cui si formò nella coscienza un’immagine, un idolo, un sussulto divinatorio davanti all’amorfo, sale, come da un gorgo, o da una porta spalancata, una vertigine, una promessa di conoscenza, un avangusto estatico.”[7]

“Fonte della poesia è sempre un mistero, un’ispirazione, una commossa perplessità davanti a un’irrazionale terra incognita. Ma l’atto della poesia – se è lecito distinguere qui, separare la fiamma dalla materia divampante – è un’assoluta volontà di veder chiaro, di ridurre a ragione, di sapere. Il mito e il logo. Chi ha veduto una volta nella propria ispirazione, chi ha ridotto a parole, a discorso, articolandola nel tempo e nello spazio, l’estatica meraviglia dell’essere, si rassegni e a proposito del mito in questione non finga a se stesso, per rigustare il tormentoso piacere, una verginità che ha perduto.”[8]

La “terra incognita” è il luogo della “irresponsabilità”, che spesso Pavese accosta al motivo della libertà fanciullesca, da opporsi alla realtà oppressa dalle costrizioni propria dell’età adulta e che qui è anche il germe del dolore pavesiano, il sentirsi incapsulati in un destino.

“Vorrei esser sempre – come sono stamattina – sicuro che essendo la volontà dell’adulto condizionata dalle centomila decisioni prese via via dal bambino in stato d’irresponsabilità, è ridicolo parlare di libero arbitrio anche nell’adulto. Ci si trova a poco a poco caratterizzati […] senza sapere nemmeno come ci si è arrivati […].”[9]

Il senso del ritorno è chiaro in Pavese: si ritrova inequivocabilmente in una poesia come Mari del Sud ed è un motivo che attraversa tutta l’opera pavesiana. Soprattutto lo riconosciamo importante ne La luna e i falò.
Ricordo a chi legge la situazione su cui si innesta il motivo centrale di questo romanzo, vale a dire la rivisitazione, da parte dell’espatriato, dei luoghi dell’infanzia, i luoghi mitici rappresentati qui dalle Langhe.
Ma di questa sorta di determinismo, che permea il centro del pessimismo di Pavese, sono disseminati i suoi scritti di ogni natura, in cui parecchi luoghi ribadiscono l’ossessione dei tentati ritorni all’origine: il destino, contrapposto alla libertà dell’infanzia (motivo che riprenderò a proposito della poesia Mito), è una colpa. Di qui l’impossibilità di conciliare esistenza e assenza di dolore. Ancora dal Mestiere, emblematici questi due passi: “Non ho motivo di rifiutare la mia idea fissa che quanto accade a un uomo è condizionato da tutto il suo passato; insomma, è meritato.”; “Contemplare senza posa quest’orrore: ciò che è stato sarà.”[10].
La poesia è un tentativo di ritorno al mito nel suo stesso sforzo di carpirne il mistero, l’unico gesto che ha senso compiere, dopo la necessaria fuga della maturità e della consapevolezza. Il ricordo può essere una delle forme poetiche del ritorno pavesiano:

“L’arte moderna è – in quanto tale – un ritorno all’infanzia. Suo motivo perenne è la scoperta delle cose, scoperta che può avvenire, nella sua forma più pura, soltanto nel ricordo dell’infanzia.”[11]

Il destino condanna a continui ritorni, ma esclude perentoriamente ogni possibilità di essere in toto partecipi di quella ‘prima volta’.
Ancora riferimenti al tema del ricordo, in relazione al mito, nel brano iniziale del pezzo intitolato significativamente Stato di grazia, tratto da Feria d’agosto:

“I simboli che ciascuno di noi porta in sé, e ritrova improvvisamente nel mondo e li riconosce e il suo cuore ha un sussulto, sono i suoi autentici ricordi. Sono anche vere e proprie scoperte. Bisogna saper che noi non vediamo mai le cose una prima volta, ma sempre una seconda. Allora le scopriamo e insieme le ricordiamo.
Ciascuno ha una ricchezza intima di figurazioni – normalmente si lasciano ridurre a pochi grandi motivi – le quali compongono il vivaio di ogni suo stupore. Se le ritrova innanzi, nei momenti più impensati dell’anno, suggerite da un incontro, da una distrazione, da un accenno; e ogni volta vi figge lo sguardo come si scruta il proprio viso allo specchio. Sono una realtà enigmatica e tuttavia familiare, tanto più prepotente in quanto sempre sul punto di rivelarsi e mai scoperta. Accade che vi si pensi ad arte, come a ricordi che sono, e ci si sforzi di risalirne il movimento, quasi che la loro origine ne racchiuda il segreto. Ma esse non hanno origine, è questo il punto. Al loro principio non c’è una ‘prima volta’, ma sempre una ‘seconda’.”[12]

Di Lavorare stanca esistono due edizioni, la prima per Solaria a Firenze nel gennaio del 1936, la seconda per Einaudi a Torino nel 1943.
Le lettere di Pavese ad Alberto Carocci, condirettore della rivista “Solaria”, mostrano quanto lunga e piena di difficoltà sia stata la vicenda editoriale della prima edizione. Innanzitutto era scontata la diffidenza provata dai fiorentini nei riguardi di un tipo di poesia del tutto disinteressata all’ermetismo imperante. L’amico di Pavese Leone Ginzburg si adoperò dunque perché quel libro “così poco ungarettiano”, come egli stesso lo aveva definito in una lettera al Carocci [13], incontrasse il favore dei solariani. Sta di fatto che nel luglio del ’34 la raccolta era già pronta, ma proprio in quei mesi, i libri, secondo una circolare ministeriale, dovevano essere sottoposti alla revisione prefettizia. Dopo alterne vicende, il testo venne epurato di quattro poesie, per motivi non politici, ma morali. Pavese stesso ci scherzò sopra: “mi attendevo l’onore della censura politica, e quelli me la fanno puritana”, scrisse al Carocci [14]. Certamente, infatti, non sono nella natura di Lavorare stanca come dell’agire letterario tutto, in questo scrittore, suggestioni politiche.
Nel frattempo, il 15 maggio del ’35, Pavese venne arrestato e poi confinato a Brancaleone. Durante i sette mesi di confino (agosto ’35 – marzo ’36) vennero scritte altre sedici poesie. Di queste, le prime cinque riuscirono ad entrare nell’edizione Solaria, allora in tipografia. Così ne parlò l’autore, sempre al Carocci, utilizzando la consueta, leggera ironia riguardo alla censura:

“Sono, come puoi vedere, tutte poesie assolutamente innocenti, che non mutano per nulla il tono ascetico della raccolta e servono solo a rimpolpare il volumetto troppo smagrito dai tagli richiesti da Prefettura e Ministero.”[15]

Quando finalmente il volumetto uscì, comprendeva quarantacinque poesie.
Anche la seconda edizione ebbe una gestazione laboriosa, in gran parte per motivi più tragici ed estranei alla letteratura: Torino in quel frangente veniva bombardata. In quest’ultima edizione entrano anche le poesie scritte a Brancaleone nel 1936. I componimenti, in tutto settanta, sono ora divisi in gruppi, ciascuno definito da un titolo. Il nuovo libro era inoltre corredato, in appendice, da due testi in prosa, Il mestiere di poeta (novembre 1934) e A proposito di certe poesie non ancora scritte (febbraio 1940). Sulla ‘fascetta’ era scritto, dietro volontà dello stesso autore: “Una delle voci più isolate della poesia contemporanea”.
Ho già accennato alla lontananza dalla poesia soggettiva e impressionistica in voga negli anni ’30. Ma è bene approfondire il discorso attraverso le parole dello stesso Pavese: nel primo dei due testi da me appena citati l’autore afferma di essere “nettamente passato da un lirismo tra di sfogo e di scavo […] al pacato e chiaro racconto de I mari del Sud[16], la poesia che apre la raccolta. Infatti, l’idea di poesia-racconto, che dispieghi chiare situazioni realistiche ed oggettive, sta alla base del libro. Ciò giustifica l’aspetto formale dei componimenti: sono assenti i versi-frammento e sono assenti anche gli endecasillabi.
Ne Il mestiere di poeta Pavese affermava “di essersi creato un verso” mentre precisava di non osare emulare il verso whitmaniano, che pure amava. Dichiarava quindi che “non aveva fiducia […] nei metri tradizionali […] per quel tanto di trito e di gratuitamente […] cincischiato che portano con sé”. Infine svelava la sua ‘scoperta’ (“Mi scopersi un giorno a mugolare certa tiritera di parole […]. Così, senza saperlo, avevo trovato il mio verso”) potendo ritrovare anche un’altra soddisfazione: “[Esso] accontentava, anche materialmente, il mio bisogno, tutto istintivo, di righe lunghe, poiché sentivo di avere molto da dire e di non dovermi fermare a una ragione musicale nei miei versi, ma soddisfarne altresì una logica”[17]. Il verso pavesiano è fondamentalmente formato da un decasillabo con l’aggiunta di uno o più piedi. L’andamento ritmico è dato dall’alternarsi di una sillaba accentata più due atone: assume un tono decisamente non lirico, quasi epico.
Pavese stesso definì Lavorare stanca (in A proposito di certe poesie non ancora scritte) “l’avventura dell’adolescente che, orgoglioso della sua campagna, immagina consimile la città, ma vi trova la solitudine e vi rimedia col sesso e con la passione che servono soltanto a sradicarlo e gettarlo lontano da campagna e città, in una più tragica solitudine che è la fine dell’adolescenza”[18].
In A proposito di certe poesie non ancora scritte, Pavese introduce un suo motivo poetico che in effetti emerge in alcune nuove poesie dell’edizione del ’43. È quella che lui chiama “la realtà simbolica”: “Sarà questione di descrivere […] una realtà non naturalistica, ma simbolica. In queste poesie i fatti avverranno – se avverranno – non perché così vuole la realtà, ma perché così decide l’intelligenza. Singole poesie e canzoniere non saranno un’autobiografia, ma un giudizio.”[19]
Il processo di smitizzazione in Ulisse (1935) è spiegato ne Il mestiere di vivere:

“In arte non si deve partire dalla complicazione. Alla complicazione bisogna arrivarci. Non partire dalla favola d’Ulisse simbolica, per stupire; ma partire dall’umile uomo comune e a poco a poco dargli un senso di Ulisse.” [20]

Il “senso d’Ulisse” in questo giovane che forse “a pranzo ha mangiato” e forse “andrà a letto in silenzio” con “due scarponi infangati” è nella reiterata fuga da casa, è nell’abbandono di un padre troppo vecchio e a lui ormai estraneo. È il mito della fuga e dell’eterno ritorno. Ed è anche la dantesca attrazione per l’ignoto di chi “scopre ogni giorno qualcosa”.
La focalizzazione è sul vecchio padre del moderno Ulisse: evidenziare la situazione e i sentimenti del vecchio – vale a dire la delusione, la solitudine, l’immobilità, l’impotenza, l’insonnia, la percezione del silenzio del figlio, il presentimento della sua fuga – significa evidenziare l’incomunicabilità e l’estraneità tra i due personaggi. Nella dicotomia pavesiana ragazzo/uomo, c’è bisogno di questa inconciliabilità, dello strappo, perché il ragazzo sia tale. Ma il ragazzo è tale solo nella sconfitta: l’“irresponsabile” ragazzo espleta se stesso nella coazione a ripetere di un fatale alternarsi di fuga e di ritorno alle origini, là dove la fuga è una disposizione nei confronti della realtà, un provare ad addentrarsi con prepotenza nella stessa esperienza della vita. Funziona, insomma, come simbolo efficace di vitalità. Di rimando, il ritorno vorrebbe nutrire un’altra esigenza vitale, quella delle origini, altrettanto ineluttabile nello scontro che produce e nella necessaria sconfitta: è impossibile per ciascuno di noi ritrovare le radici. Il vecchio incarna tale impotenza: il vecchio incapace di agire (“una volta bastava uno schiaffo”; “per scaldarsi, una volta gridava e picchiava”) e il vecchio statico (“ora il vecchio è seduto fino a notte”; “il vecchio non si muove dal buio”).
Mito [21] riprende la contrapposizione vista in Ulisse interpretando i concetti di mýthos e lógos. Essa si compie nel passaggio dal “giovane dio” all’“uomo”.
In questa, come nelle altre poesie che tratterò, la presenza dei significati simbolici si fa più esplicita. Si articola attraverso l’opposizione di un ‘prima’ e di un ‘dopo’. Il ‘dopo’, però, è connotato dalla negazione di immagini riferite al passato. Esso rappresenta insomma uno stato che non è più. Le immagini riportano a un senso di forte luminosità in una situazione di stagione estiva e di sole alto (“fragori del sole”; “gran sole”; le spiagge nelle ore più calde del giorno), di trasparenza (“nell’acqua non traspare più un ciottolo”; le nubi “non s’ammassano più come frutti” e ricordano evidentemente un cielo terso) e di naturalità festosa (la terra odorosa, la strada libera “colorata di gente”). Sono tutti simboli di una vitalità inconsapevole, innocente, e ad essi sono contrapposte le immagini che esplicitano la presenza della morte, sia direttamente (“morto sorriso”; “è morta l’estate”; la gente – e, in un altro luogo, il dio – che “ignorava la morte”) sia nei riferimenti indiretti alla fine delle cose: il sole al tramonto (“sole fatto di sangue”; sole che “trascorre arrossando le spiagge”), il corpo che si piega, le membra stanche, i colori mutati (“è mutato il colore del mondo”, “le spiagge oscurate”). Ciò che fa la differenza, che porta l’uomo a questa stanchezza, a questo sorriso rassegnato e morto, è la sottomissione al lógos, l’avvenuta conoscenza del destino.
Tragico è dunque il passaggio che offende il ricordo nell’impotenza del ritorno, nell’assoluta immobilità che identifica anche la sterilità espressa dalla poesia Paternità e in quell’essere adulti che era in Ulisse: “il dio non saprà più dove erano le spiagge di un tempo”.
Paternità, insieme a Lo steddazzu [22], si gioca sull’opposizione sterilità e inutilità/fertilità e vitalità. La mitologia antica identifica in Paternità la donna/madre con la terra fertile e l’uomo solo con la sterilità (“ma quest’uomo vorrebbe / lui averlo un bambino e guardarlo giocare”). Da qui Pavese parte per scandagliare la solitudine, base, per forza di cose, misteriosa ma tangibile, del proprio stesso esserci, perno di Lavorare. La solitudine consiste nella mancata afferenza alla natura primigenia. L’uomo, il maschio (Pavese stesso) ha la sola compagnia del mare, e vi si immerge. E quello è un mare che simboleggia la sterilità: incontriamo quindi al primo verso la frase “Uomo solo dinanzi all’inutile mare […]” e all’ultimo, il periodo: “Dalla nera finestra / entra un ansito rauco, e nessuno l’ascolta / se non l’uomo che sa tutto il tedio del mare.”; e ancora, nel corpo del componimento, a significare vicinanza fatale ed indissolubile, le espressioni: “Ci sarà sempre il mare.”; “Esce l’uomo nel torbido sole e cammina / lungo il mare”. Dai bambini e dalla donna, invece, l’uomo resta lontano. Per questo è solo. L’immagine notturna dell’ultima strofa mostra ancora la solitudine dell’uomo nel “gran vuoto” che sottende l’arco delle stelle indifferenti che “non odono nulla”, e mostra la sua vana attesa e la stanchezza di quell’attesa. La donna, intanto, spoglia il bimbo per farlo dormire o sta abbracciata ad un uomo nel letto. Ecco come in Pavese il mito trasforma l’esperienza personale in “giudizio” e la realtà simbolica trascende l’autobiografia.
“Uomo” e “mare” si ritrovano in Lo steddazzu. Il primo verso di questa poesia (“L’uomo solo si leva che il mare è ancor buio […]”) apre ad un senso del nulla nel quale ha evidentemente operato la memoria leopardiana. L’uomo solo (espressione ripetuta in principio di verso per tre volte lungo il componimento) si alza prima dell’alba: “Quest’è l’ora in cui nulla può accadere.”. La pipa è spenta, lo sciacquio del mare è sommesso. Il tragico esplode quando il bisogno di senso si rivela ancora una volta vano. L’uomo accende un fuoco, lì, vicino al mare, vi si scalderà solo “per fare qualcosa”. Rosseggia il terreno, così come di lì a poco avverrà per il mare. Ma sarà “l’alba di un giorno in cui nulla accadrà”. “Val la pena che il sole si levi dal mare/e la lunga giornata cominci?”, si chiede la voce poetica, al principio dell’ultima strofa.
Il pianeta Venere in dialetto calabrese è lo “steddazzu”. È una “stella verdognola” che “pende stanca nel cielo” e che l’alba sorprende. La personificazione dello steddazzu, che guarda l’uomo a cui lo accomuna la stessa sorte, ricorda il Canto notturno di Leopardi. Un vano tragitto astrale, che ad ogni aurora si ripete, obbliga la stella a vedere un “mare ancor buio” e quella inutile “macchia di fuoco” che non può davvero scaldare. Sconfitta, come è sconfitto l’uomo, se ne scende nel gelo, “tra le fosche montagne / dove è un letto di neve”. L’andamento ritmico dei versi si fa ampio, triste e lento, a coprire, col suo velo spietato nell’énosis spazio-temporale, la “lentezza dell’ora” con cui si chiude la penultima strofa. L’ultima prefigura il giorno, nella sterile promessa di una aria tiepida e una “luce diafana”. Sarà soltanto un giorno come tutti gli altri.

********

Ulisse

Questo è un vecchio deluso, perché ha fatto suo figlio
troppo tardi. Si guardano in faccia ogni tanto,
ma una volta bastava uno schiaffo. (Esce il vecchio
e ritorna col figlio che si stringe una guancia
e non leva più gli occhi). Ora il vecchio è seduto
fino a notte, davanti a una grande finestra,
ma non viene nessuno e la strada è deserta.

Stamattina, è scappato il ragazzo, e ritorna
questa notte. Starà sogghignando. A nessuno
vorrà dire se a pranzo ha mangiato. Magari
avrà gli occhi pesanti e andrà a letto in silenzio:
due scarponi infangati. Il mattino era azzurro
sulle piogge di un mese.

Per la fresca finestra
scorre amaro un sentore di foglie. Ma il vecchio
non si muove dal buio, non ha sonno la notte,
e vorrebbe aver sonno e scordare ogni cosa
come un tempo al ritorno dopo un lungo cammino.
Per scaldarsi, una volta gridava e picchiava.

Il ragazzo, che torna fra poco, non prende più schiaffi.
Il ragazzo comincia a esser giovane e scopre
ogni giorno qualcosa e non parla a nessuno.

Non c’è nulla per strada che non possa sapersi
stando a questa finestra. Ma il ragazzo cammina
tutto il giorno per strada. Non cerca ancor donne
e non gioca più in terra. Ogni volta ritorna.
Il ragazzo ha un suo modo di uscire di casa
che, chi resta, s’accorge di non farci più nulla.[23]

Mito

Verrà il giorno che il giovane dio sarà un uomo,
senza pena, col morto sorriso dell’uomo
che ha compreso. Anche il sole trascorre remoto
arrossando le spiagge. Verrà il giorno che il dio
non saprà più dov’erano le spiagge d’un tempo.

Ci si sveglia un mattino che è morta l’estate,
e negli occhi tumultuano ancora splendori
come ieri, e all’orecchio il fragore del sole
fatto sangue. Ѐ mutato il colore del mondo.
La montagna non tocca più il cielo; le nubi
non s’ammassano più come frutti; nell’acqua
non traspare più un ciottolo. Il corpo di un uomo
pensieroso si piega, dove un dio respirava.

Il gran sole è finito, e l’odore di terra,
e la libera strada, colorata di gente
che ignorava la morte. Non si muore d’estate.
Se qualcuno spariva, c’era il giovane dio
che viveva per tutti e ignorava la morte.
Su di lui la tristezza era un’ombra di nube.
Il suo passo stupiva la terra.

Ora pesa
la stanchezza su tutte le membra dell’uomo,
senza pena: la calma stanchezza dell’alba
che apre un giorno di pioggia. Le spiagge oscurate
non conoscono il giovane, che un tempo bastava
le guardasse. Né il mare dell’aria rivive
al respiro. Si piegano le labbra dell’uomo
rassegnate, a sorridere davanti alla terra.[24]

Paternità

Uomo solo dinanzi all’inutile mare,
attendendo la sera, attendendo il mattino.
I bambini vi giocano, ma quest’uomo vorrebbe
lui averlo un bambino e guardarlo giocare.
Grandi nuvole fanno un palazzo sull’acqua
che ogni giorno rovina e risorge, e colora
i bambini nel viso. Ci sarà sempre il mare.

Il mattino ferisce. Su quest’umida spiaggia
striscia il sole, aggrappato alle reti e alle pietre.
Esce l’uomo nel torbido sole e cammina
lungo il mare. Non guarda le madide schiume
che trascorrono a riva e non hanno più pace.
A quest’ora i bambini sonnecchiano ancora
nel tepore del letto. A quest’ora sonnecchia
dentro il letto una donna, che farebbe l’amore
se non fosse lei sola. Lento, l’uomo si spoglia
nudo come la donna lontana, e discende nel mare.

Poi la notte, che il mare svanisce, si ascolta
il gran vuoto ch’è sotto le stelle. I bambini
nelle case arrossate van cadendo dal sonno
e qualcuno piangendo. L’uomo, stanco di attesa,
leva gli occhi alle stelle, che non odono nulla.
Ci son donne a quest’ora che spogliano un bimbo
e lo fanno dormire. C’è qualcuna in un letto
abbracciata ad un uomo. Dalla nera finestra
entra un ansito rauco, e nessuno l’ascolta
se non l’uomo che sa tutto il tedio del mare.[25]

Lo steddazzu 

L’uomo solo si leva che il mare è ancora buio
e le stelle vacillano. Un tepore di fiato
sale su dalla riva, dov’è il letto del mare,
e addolcisce il respiro. Quest’è l’ora in cui nulla
può accadere. Perfino la pipa tra i denti
pende spenta. Notturno è il sommesso sciacquio.
L’uomo solo ha già acceso un gran fuoco di rami
e lo guarda arrossare il terreno. Anche il mare
tra non molto sarà come il fuoco, avvampante.

Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno
in cui nulla accadrà. Non c’è cosa più amara
che l’inutilità. Pende stanca nel cielo
una stella verdognola, sorpresa dall’alba.
Vede il mare ancor buio e la macchia di fuoco
a cui l’uomo, per fare qualcosa, si scalda;
vede, e cade dal sonno tra le fosche montagne
dov’è un letto di neve. La lentezza dell’ora
è spietata, per chi non aspetta più nulla.

Val la pena che il sole si levi dal mare
e la lunga giornata cominci? Domani
tornerà l’alba tiepida con la diafana luce
e sarà come ieri e mai nulla accadrà.
L’uomo solo vorrebbe soltanto dormire.
Quando l’ultima stella si spegne nel cielo,
l’uomo adagio prepara la pipa e l’accende.[26]

___________

[1] C. Pavese, Del mito, del simbolo e d’altro, in Feria d’agosto, Einaudi, 1977, pag. 139.
[2] Ibid., pag. 139.
[3] Ibid., pagg. 139-140.
[4] È forse superfluo precisare che Il mestiere è il diario pavesiano: ritrovato dopo la morte dello scrittore, manoscritto, in buon ordine e ben in vista, come se, prima del suicidio, fosse stato preparato apposta per la pubblicazione, raccoglie note personali, frammenti di saggio, osservazioni letterarie, filosofiche, psicologiche, tra i due estremi cronologici del 1934 e del 1950.
[5] C. Pavese, Il mestiere di vivere, [15 settembre 1943], Einaudi, 1989, pag. 234.
[6] Ibid., [8 febbraio 1944], pag. 259.
[7] C. Pavese, Il mito, ora in C. Pavese, La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, 1990, pag. 317.
[8] C. Pavese, Poesia è libertà, in C. Pavese, La letteratura americana e altri saggi, pag. 300.
[9] C. Pavese, Il mestiere di vivere, cit. [16 gennaio 1938], pag. 76. Il corsivo è di Pavese.
[10] Ibid., [10 aprile 1936] pag. 33 e [26 novembre 1937] pag. 59.
[11] Ibid., pag. 221.
[12] C. Pavese, Stato di grazia, in Feria d’agosto, cit., pag. 145.
[13] Marziano Guglielminetti, Introduzione, in C. Pavese, Poesie, Einaudi, 1998, p. VI.
[14] Ibid., p. VIII.
[15] C. Pavese, Lavorare stanca, nota al testo n. 3, Le date delle poesie, Einaudi, 1943, pag. 142.
[16] C. Pavese, Il mestiere di poeta, in Lavorare stanca, cit. pag. 125.
[17] Ibid., pag. 128-129.
[18] Ibid., pag. 136.
[19] Ibid., pag. 137-138.
[20] C. Pavese, Il mestiere di vivere, cit., pag. 353.
[21] Mito fu composta a Brancaleone nell’ottobre del 1935 ed inserita nell’edizione einaudiana di Lavorare stanca.
[22] Paternità e Lo steddazzu, composte a Brancaleone (la prima nel dicembre del 1935, la seconda nel gennaio del 1936) sono poste una dopo l’altra nell’edizione einaudiana di Lavorare stanca, rispettivamente la penultima e l’ultima.
[23] C. Pavese, Lavorare stanca, cit., pag. 65.
[24] Ibid., pag. 114.
[25] Ibid., pag. 118.
[26] Ibid., pag. 119.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *