La cosa preferita. Uno scritto sulla libertà

Natalia Ginzburg è il mio scrittore preferito (uso il maschile generico). Mi pare che nei suoi scritti, soprattutto quelli non canonicamente narrativi, la bellezza del ritmo, delle parole, delle frasi nasca dall’intelligenza e dalla totale sincerità. Esiste infatti un’intelligenza (e quindi una bellezza) data dall’assoluta mancanza di retorica. L’intelligenza, anzi (e a pensarci meglio), non può che rifiutare la retorica. Di certo esiste anche la retorica della non retorica, ma lei non era così stupida da non saperlo.
Io Ginzburg la vedo come una specie di madre. ‘Madre’ non è un’apposizione riduttiva da affiancare al nome di una persona che si ammira. Potrebbe apparire tale perché l’essere madri non implica di per sé spessori cognitivi e culturali. Ma ripenso spesso ad uno dei miei versi preferiti della Commedia (forse il preferito), quello in cui Stazio, dopo aver incontrato Dante, gli parla della sua opera prediletta, dell’Eneide, senza sapere che quella persona che è lì con loro ad ascoltare è proprio il suo autore, Virgilio. Allora dice che quest’opera gli fu “mamma” e “nutrice” (“dell’Eneida dico, la qual mamma / fummi e fummi nutrice poetando”, Purgatorio, XXI, 97-98). Esiste qualcosa di più potente del generare biologicamente e dell’essere naturalmente nutriti, ed è propriamente il generare ed il nutrire un pensiero assetato di una nascita e di un nutrimento spirituali, o, per meglio dire, culturali e psichici.
Stazio continua con il dire che senza quell’opera lui non avrebbe fatto nulla (“senz’essa non fermai peso di dramma”) e subito dopo, lui, che sta per salire in paradiso, afferma qualcosa di paradossale, anche logicamente, essendo, il ragionamento sintattico, un periodo ipotetico della irrealtà con la protasi irrealizzabile, in quanto auspica qualcosa che si colloca nel passato (e che non è stato). E soprattutto il ragionamento contiene un’apodosi che esprime un desiderio irraggiungibile ma oltretutto impossibile a desiderarsi per Stazio stesso,  un qualcosa di intrinsecamente iperbolico, quindi, e che suona per questo anche vagamente blasfemo. Lui sarebbe rimasto, cioè, volentieri un anno in più in purgatorio, pur di aver vissuto sulla terra nel tempo in cui visse Virgilio (“E per esser vivuto di là quando / visse Virgilio, assentirei un sole / più che non deggio al mio uscir di bando.»). Le anime del purgatorio hanno un’impellenza irrefrenabile di volare in cielo: ciò è parte integrante della loro speranzosa pena. Ciò però sembra smentito da tale affermazione.
È vero, Eneide è un nome femminile mentre il suo autore è maschio: a chi, a che cosa si riferisce davvero Stazio? In realtà l’opera più grande di Virgilio potrebbe essere considerata anche la sua metonimia. Insomma qui è venerato, oltre che il suo capolavoro, soprattutto lo stesso Virgilio. Dopo espressioni nascoste, risatine e ammiccamenti tra Dante e Virgilio, Dante ha finalmente il permesso di parlare e dice a Stazio che quello che ha di fronte è il suo autore prediletto in persona (“Questi che guida in alto li occhi miei, / è quel Virgilio dal qual tu togliesti / forza a cantar de li uomini e d’i dèi”, vv. 124-126).
Virgilio insomma non è tanto un padre, per l’autore della Tebaide, quanto la mamma. Innanzitutto perché creare e nutrire è ben più forte del rappresentare il modello, l’autorevolezza e la norma. Ma se tu eleggi la mamma e la nutrice, se separi cioè da quegli atti, gli atti spontanei del biologico e del naturale, tu hai la tua cosa preferita, qualcosa di ancora più forte.  È una grande responsabilità.
Dante non fa in tempo a terminare la frase con la quale rivela a Stazio il nome di colui che ha davanti a sé, che quello è già ai piedi di Virgilio e fa per abbracciarli. Ma Virgilio gli dice di non farlo, ricordandogli che sono entrambi ombre. L’altro risponde che da quella dimenticanza che lo ha portato a considerare gli spiriti come cose materiali Virgilio potrà comprendere l’amore smisurato che riceve da lui stesso, che ne è scaldato (vv. 130-136):

Già s’inchinava ad abbracciar li piedi
al mio dottor, ma el li disse: «Frate,
non far, ché tu se’ ombra e ombra vedi».

Ed ei surgendo: «Or puoi la quantitate
comprender de l’amor ch’a te mi scalda,
quand’io dismento nostra vanitate,

trattando l’ombre come cosa salda».

Non credo ci sia niente di meglio per capire cosa sia una mamma che si è scelta e per comprendere la responsabilità di quell’amore.

Ultimamente di Ginzburg è uscito il terzo dei libri non narrativi, la raccolta Vita immaginaria, riproposta per i tipi di Einaudi (2021; prima ed.: 1974). Vi attingo perché ho consegnato a un libro come questo la mia attitudine al lavorio del pensiero. Mi affido a lei come ad altri (ora sul mio comodino, tra molti sono presenti soprattutto Garboli, con i Ricordi tristi e civili, Leogrande, con  Gli anni dello Straniero e Sciascia, con Nero su nero: uno meglio dell’altro). A lei mi rivolgo con la più particolare gioia dell’abbandono, per la sua franchezza, per l’assenza di una qualsiasi posa. Mi è madre eletta proprio per quello. Ricerco in lei per me, per la vita del mio pensiero, cioè per ciò che si prende cura del mio essere umano, la sua onestà emozionale, cognitiva, intellettuale e quindi etica.  Ritrovo con un sorriso soddisfatto la sua perenne derisione degli ‘intellettuali’ narcisi, mentre usa un linguaggio elementare ed infantile per dire cose alla cui profondità quelli non sanno arrivare. Mi rivolgo a lei come alla mia cosa preferita.

Si parla molto di libertà di questi tempi con un’ambiguità che mi umilia. Non è quindi un caso che io mi sia rivolta a lei, l’autrice meno ambigua del mondo, perché lei, l’ambiguità, soprattutto quella propria, la sa ben riconoscere. E non è neanche un caso, quindi, che io vi abbia trovato la più profonda riflessione sulla libertà, la più vera, la più intelligente, la più illuminante, per capire questi bruttissimi giorni.
I dibattiti di questi tempi sulla libertà li trovo nauseabondi, quei dibattiti tra gli unici che si potrebbero permettere una certa cultura, ma che invece non hanno colto un minimo di quella loro occasione e non hanno saputo convertire il loro orrendo privilegio in qualcosa di almeno casualmente dignitoso. Rappresentano costoro, infatti, quella che Pasolini molto giustamente definì “la borghesia più ignorante d’Europa”, cioè la borghesia italiana. Quella nausea l’ho curata questa volta appunto con questo scritto di Ginzburg sulla libertà, del marzo 1972, tratto da Vita immaginaria. Mi è giunto il rimpianto, ma chiodo scaccia chiodo.

Ecco dunque il pezzo, purtroppo un po’ tagliato da me, intitolato quindi Libertà:

“A me accade assai spesso di pensare a questa parola: ‘libertà’. […] Sempre mi ricordo di quando in Italia non ce n’era niente. […]
La parola ‘libertà’ ci appariva allora di un’estrema semplicità e di un’evidenza lampante. […] Raggiungerla sarebbe stato come vivere in paradiso, eravamo sicuri di incontrarlo a una svolta della strada. Camminavamo in quella direzione con passi lunghi, rapidi, appassionati. Eravamo rozzi, appassionati e confusi. Non avevamo idee ma desideri.  […] A tutto davamo il nome di libertà. La libertà che noi ci preparavamo a incontrare, noi l’avremmo divisa con gli altri come acqua o aria. Non ci eravamo però nemmeno chiesti chi fossero e come fossero gli altri. L’avremmo comunque divisa, con estrema naturalezza, senza nemmeno accorgerci di dividerla. […] La libertà che ci preparavamo a raggiungere era incorruttibile e cristallina, potentissima, illimitata. I suoi poteri erano unicamente benefici. Non avevano limiti, perché ai nostri occhi di allora il bene non aveva limiti, né ostacoli, né pericoli, i limiti erano una prerogativa del male.
Così oggi, quando sentiamo parlare di ‘libertà’, istintivamente noi drizziamo le orecchie come cani da caccia. Abbiamo la sensazione che venga menzionato qualcosa che ci riguarda personalmente. Eppure la parola ‘libertà’ è cambiata in noi e forse nessuna parola ha subìto una simile trasformazione. […] Noi da tempo abbiamo preso a pensare che la libertà sia forse una delle parole più oscure, difficili, complicate che esistano al mondo. […]
La delusione che abbiamo provato è vecchia e nota. Raggiunta la libertà abbiamo visto che era, per ciascuno di noi, niente altro che una piccola porzione di prato. Questa piccola porzione di prato ci sembrava vitale, e essenziale, per nulla al mondo noi l’avremmo ridata indietro, però come era esigua e miserabile! Inoltre non potevamo affatto dividerla con tutti come avevamo creduto. Eravamo là, seduti ciascuno nella propria piccola porzione di prato, con la sensazione che ci fosse stato giocato uno scherzo maligno, e guardavamo la nostra idea di libertà dissanguarsi ai nostri piedi, così delusi e così stupefatti da non riuscire nemmeno a esplorare quella poca ombra e poca erba. Intorno a noi si alzavano mura e non riuscivamo a gettare gli occhi sulle libertà degli altri. Allora ci siamo chiesti chi erano in verità gli altri. Noi non ne sapevamo assolutamente nulla. […]
Ci siamo accorti che quando avevamo immaginato di poter dividere la libertà con gli altri, avevamo immaginato una comunità umana identica o simile a noi, con identici desideri, identiche esigenze, identiche parole. Una simile comunità poteva anche spartire una identica libertà. Però ora l’idea di spartire la libertà con quelli identici a noi, ci sembrava fatua e stupida come una merenda sull’erba. Noi volevamo dividere la libertà con tutti senza nessuna limitazione. Soprattutto volevamo dividere la libertà con quelli che non ci rassomigliavano. L’idea di spartire la libertà con quelli identici a noi , ci parve a un tratto oppressiva e ripugnante, e l’esatto contrario della libertà. Pensammo che a questo preferivamo una piena e assoluta solitudine. […]
Forse in verità non abbiamo mai smesso un solo istante di chiederci, consapevolmente o inconsapevolmente, cosa sia la libertà. Essendo la libertà per un numero sterminato di persone libertà dalla servitù della miseria, avanzare altre diverse richieste di libertà sembra un arbitrio. Sembra infatti assai difficile stabilire quali delle umane richieste di libertà siano arbitrarie e quali siano sacrosante e legittime. Certo è che alcune richieste di libertà sono totalmente arbitrarie, essendo semplicemente la richiesta di conservare intatte private e personali condizioni di denaro o di fortuna a dispregio degli altri, ma esse usano nascondersi e coprirsi dietro richieste di libertà legittime e sacrosante e questo addensa sopra la parola ‘libertà’ il buio e la confusione.
Per me e per un gruppo di persone identiche a me, ‘libertà’ vuol dire scrivere tutto ciò che ci passa per la testa. […] Pensiamo che la libertà di scrivere e di pensare sia un diritto legittimo, uno dei legittimi e sacrosanti diritti umani. E’ però un diritto sostenuto da innumerevoli privilegi. Noi in qualche momento ci chiediamo se questo nostro diritto non sia un arbitrio. […] Ogni bene che possediamo, noi ci chiediamo se non si tratti di un furto. Non siamo affatto sicuri che le nostre espressioni di libertà non rubino qualcosa agli altri.
Forse sarebbe giusto e necessario che ognuno pensasse non alla sua libertà, ma a quella degli altri. Se ognuno pensasse a quella degli altri invece che alla sua propria, se fosse disposto a proteggere quella degli altri in luogo della sua, saremmo allora più vicini a una giusta divisione di beni, di privilegi e di libertà fra gli uomini.”.

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