Lowell così bravo che ce lo siamo dimenticati

Riporto un pezzo di quello stesso Brullo che in questo blog ho bacchettato non poco.
A dire il vero Brullo fa articoli ricchi da ogni punto di vista, informati, intelligenti, spesso ironici, la cui scrittura è bella proprio perché deriva da queste qualità. La sua brillantezza, quindi, si fa leggere con gusto. E questo scritto che propongo su Robert Lowell, uscito su “Pangea” il 7 novembre 2019, è senz’altro brillante. Metto dunque da parte l’antipatia che mi provoca il suo lavoro, genericamente considerato,  nel riportarne il pezzo su Lowell.

Ma vado con ordine e mi spiego, prima di dargli senz’altro il merito dovuto.

Credo che io e Brullo partiamo da un presupposto simile. Entrambi pensiamo che l’arte letteraria  sia nello scarto tra il reale e il limite intrinseco alla parola. Visto che la parola non potrà mai aderire al reale, è in quello sforzo di farvela avvicinare che si misura la qualità di un’opera.
È pur vero però che io a questo punto avverto sensibilmente il rischio che penso si generi da tale premessa. Sto parlando del compiacersi di questo sforzo. Dall’assumerlo come momento magico e del farne quindi l’obiettivo dell’atto creativo. Mentre l’obiettivo dovrebbe, secondo me, essere sempre concentrato in un risultato definito e che si deve possedere ben fermo in mente, in una conseguenza, cioè, del tutto concreta, in quella, insomma, che a monte si può chiamare senza tante storie idea.  Bisogna avere dunque presente l’opera come deve risultare,  non dimenticandosi l’assunto della maggiore prossimità possibile al proprio reale (a patto che se ne abbia uno). Molti si divertono parecchio a scrivere.  O ne “soffrono”, nel senso che amano dare un’aura di romanticismo al senso di necessità che preuppone l’atto, e vedono questa necessità come compagna inseparabile della propria – ingigantita ed osannata – sofferenza. Peccati del tutto veniali, commessi anche da me. Ma da ciò potrebbe nascere quasi ovvio il pregiudizio che se ci si diverte così tanto o si sente così tanto quell’urgenza, allora si è tanto bravi, allora si sta facendo arte degna di questo nome. Ma non è l’atto a fare l’arte, ripeto. È la bontà di quell’idea.

Dunque Brullo. C’è questo problema, che non posso non considerare. Lui mi pare veneri, purtroppo con un piglio a volte da dilettante, la parola in quanto tale. Venera, quindi, l’atto, lo stato di esaltazione del poeta veggente. Chiunque sia quel veggente, mi sembra di dover precisare. Quindi non è tanto il fatto, che pure mi irrita molto, che Brullo commenti spesso e volentieri autori di destra, perché se uno è bravo è bravo. Per esempio Cristina Campo, che ha avuto un rapporto piuttosto ambiguo con gli occupanti nazisti, è una scrittrice obiettivamente splendida ed è difficile anche trovare in Italia una scrittura più bella della sua, nel ‘900, sia tra gli uomini che tra le donne, e ha l’unica pecca di aver scritto poco (perché così è più facile eccellere). Ma è proprio il fatto che mi pare che lui si compiaccia di questo, lui e gli altri autori di “Pangea”, come se scovare e insistere (quasi ossessivamente?) su autori come Ezra Pound, sia un punto di orgoglio. Ebbene, fare della letteratura qualcosa che appositamente debba escludere l’impegno, in modo tale da dover sempre osannare, a prescindere, la letteratura che ne è priva, osannando quindi provocatoriamente tutti gli autori per esempio macchiati dai nazionalismi e che, nello stesso tempo, storicamente hanno creduto alla propria inesorabile veggenza,  ecco, questo mi è insopportabile.

Ma passo a Robert Lowell, ché sarebbe ora.

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“Chi può misurare fino in fondo l’inabissarsi dell’anima?”: su Robert Lowell (così bravo che ce lo siamo dimenticati…)

Di Davide Brullo

“Robert Lowell è il poeta americano più significativo del secondo novecento”. Comincia, senza preliminari critici Massimo Bacigalupo, introducendo una antologia di Poesie di RL edite da Guanda – per la cura di Rolando Anzilotti – pressoché irreperibile in libreria – ma se la ordinate on line qualcosa c’è ancora. Non trovate più, invece, i libri mondadoriani, Il delfino e altre poesie (edito trent’anni fa, ancora per la cura di Anzilotti) e Giorno per giorno (2001, per la cura di Francesco Rognoni), del “poeta americano più significativo del secondo novecento”. Resta reperibile, invece, l’epistolario intrattenuto con Elizabeth Bishop, Scrivere lettere è sempre pericoloso, edito da Adelphi nel 2014 (si sa, un libro Adelphi è per sempre, resta eternamente – o quasi – in catalogo). Di un grande poeta rischiamo di poter leggere soltanto le lettere: perché?

Nell’antologie delle poesie, Anzilotti ringrazia Carlo Betocchi e Mario Luzi “per l’interesse dimostrato al mio lavoro, per l’incoraggiamento e i generosi consigli”. Mi sembra un gesto di alta gratitudine. Nel 1966, dopo aver trovato Ezra Pound a Rapallo, Lowell è a Collodi proprio con Anzilotti, Betocchi e Luzi. La nota biografica rivela che i tre si ritrovano nel 1973: per Lowell quello è un anno importante. Omaggia Pound, morto da poco, a New York, divorzia con la seconda moglie, la scrittrice Elizabeth Hardwick, per unirsi alla terza, Caroline Blackwood (dalla prima, Jean Stafford, è divorziato dal 1948), ottiene il Pulitzer per la poesia. È il secondo. Il primo risale al 1947.

Robert Lowell nasce a Boston, da famiglia d’alta importanza. Fa scelte anomale – pagandole. Prima si fa cattolico, poi si dissocia dal cattolicesimo; nel 1943, dicendosi obbiettore di coscienza “a causa dei bombardamenti alleati a popolazioni civili”, viene arrestato. Pur disfatto da ripetute depressioni, Lowell resterà pacifista. Nel maggio del 1965 scrive al Presidente Lyndon B. Johnson che non parteciperà al “Festival delle Arti” indetto alla Casa Bianca a causa della guerra in Vietnam (“sono obbligato in coscienza a rifiutare il Suo cortese invito”): sarà l’unico, nel fausto consesso, a optare per la protesta. Nel 1967 partecipa alla fatidica marcia verso il Pentagono, narrata da Norman Mailer in Le armate della notte. Fu traduttore eccellente – o meglio, interprete – di Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti, Giacomo Leopardi, Rimbaud, Rilke (in Imitations, 1961). Tradusse anche Pasternak, Annenskij, Mandel’stam, ma Vladimir Nabokov in una chiosa del 1969, On Adaptation, gli disse, sostanzialmente, di lasciar perdere (“mi limiterò a discutere alcuni passaggi inequivocabilmente interpretati in modo errato, o meglio, alterati, nell’adattamento di Robert Lowell”).

Di lui così scrive Anzilotti: “Lowell è stato forse il maggiore dei poeti della generazione maturata dopo la seconda guerra mondiale… ha avuto influsso non piccolo su alcuni suoi contemporanei, come Sylvia Plath e Anne Sexton… è stato testimone e partecipe coraggioso delle contraddizioni e dei sintomi del male del suo tempo ed ha fornito nella sua opera un’immagine di sé che è anche quella della condizione umana”.

Nella crescita di Lowell, Ezra Pound ha avuto un ruolo prioritario. Così gli scrive il 2 maggio del 1936: “Gentile Mr. Pound, sono stato arso dalla voglia di scriverle per diversi mesi, finora non ho avuto il coraggio di farlo. Probabilmente, penserà che sono davvero impudente e presuntuoso, ma vorrei venire in Italia e lavorare sotto la sua ala e farmi strada nella realtà. Non ho il diritto di chiederle nulla, ma la prego di ascoltare il mio desiderio. Ho 19 anni, sono una matricola ad Harvard, ho qualche legame di parentela, di non so che grado, con Amy Lowell. Per tutta la vita sono stato eccentrico rispetto alla norma. Ho sempre avuto passioni violente, che spesso prendevano il tono del collezionismo: oggetti; nomi di uccelli; farfalle; serpenti; tartarughe… i libri su Napoleone. Niente di tutto questo mi ha portato da qualche parte, collezionavo idee senza alcuna idea di sviluppo… Intorno ai 14 anni ho letto Omero, tra le acque della traduzione del XIX secolo. Achille e Zeus sono cresciuti dentro di me come simboli universali, divenendo quasi una religione. Ho sempre sfidato ciò che mi pareva essere il Cristianesimo, l’immortalità dell’anima, l’idealistica irreale moralità, l’insipida oscurità della chiesa episcopale. Il mondo di Omero contiene un dio più alto di ciò che abbia mai conosciuto, eppure il suo mondo è cieco a questa realtà…. La primavera scorsa ho iniziato a leggere poesie in inglese, ho iniziato a scrivere. Per anni ho pensato ai poeti come alla falena più spregevole, mi sono fatto violenza… I suoi Cantos hanno ricreato in me le emozioni che ho avuto leggendo Omero. La prego di prendermi con me, non sono teatrale, vivo una vita sobria, priva di sensazionalismi”. Nello stesso tempo, Lowell conosce Robert Frost, sceglie di studiare alla Vanderbilt, con Allen Tate e John Crowe Ransom.

In una lettera del 24 marzo 1954, Lowell scrive a Flannery O’Connor riguardo alla sua situazione sentimentale, al suo romanzo, a Pound. “Cara Flannery, farei meglio a darti mie notizie. Elizabeth e io siamo separati. L’evento era inevitabile da tempo, stiamo meglio entrambi, siamo buoni amici. Non sono sicuro che tu desideri che mi dilunghi su questo argomento, in ogni caso, non tornerò nel gregge. Sono sicuro di stare meglio fuori, almeno, per me è così. Henry Adams si definiva conservatore, cattolico, anarchico; lo dico anche io, aggiungendo: agnostico. Non credo che le mie preghiere ti possano spogliare del tuo ghiaccio, quindi le ometto. Tuttavia, prendi per veri i miei auguri. Ho sentito molte cose su di te e sul tuo romanzo, La saggezza nel sangue… Flannery, ti amo moltissimo (non è una proposta: ho altre uova da friggere, come si dice), e penso che tu possa scrivere in lingua inglese, come direbbe Omar Pound. Qualche volta, lascia che ti dica del menage di Pound a Rapallo. Il suo dottore, molto bravo (quello di Ezra, non di Omar) era lo stesso di mia madre. Baci”.

La donna a cui fa riferimento Lowell nella lettera a Flannery O’Connor, è appunto Elizabeth Hardwick, moglie di Lowell dal 1949 al 1972. Morta nel 2007, fu scrittrice di qualche importanza – nel 1947 ottiene un Guggeheim Fellowship – e cofondatrice, nel 1963, della “New York Review of Books”. Lottò contro un marito, Lowell, spesso afflitto da crisi, per lo più fedifrago: il suo romanzo più noto, Sleepless Nights, fu pubblico nel 1979, è sostanzialmente autobiografico. Come The Dolphin Letters, Farrar, Straus and Giroux pubblica le lettere tra moglie e marito, ormai pressoché separati, cioè – così la dida – “la corrispondenza tra una delle coppie più celebri del XX secolo”. Il tomo gioca sugli anni esteticamente più proficui per entrambi, i Settanta. La trama è fatta: da una parte c’è una donna, pur sofisticata (“Isaiah Berlin ha fatto un salto, ieri sera, per dirmi addio… Mi resta impressa la gioia del viaggio in Italia – e te, soprattutto. La felicità e la pace che vengono da te e a te ritornano, in un tumultuoso raschiare quotidiano, un po’ bello”) che rivuole il suo uomo (19 aprile 1970: “Tesoro, spero di sentirti oggi. Davvero, mi manchi molto e vorrei che non ci fossimo imbarcati in questa lunga separazione. In ogni caso, non c’è altro da fare, ora”). Dall’altra, un uomo definito dalle sue indecisioni, dai traumi, i vagabondaggi.

Secondo Paul Mariani, biografo dei poeti – ha scritto di William Carlos Williams e di Hart Crane, di Wallace Stevens e di Gerard Manley Hopkins e, appunto, di Lowell, in Lost Puritan: A Life of Robert Lowell – “Robert Lowell è stato l’ultimo poeta con una reale influenza pubblica”. In effetti, è il ‘pubblico’ ad avere bisogno del poeta, per gratificare la propria vita. Il poeta, in effetti, è voce che contrasta quella comune, di tutti, e quella dei pochi, dei potenti: sta a lato di tutto.

Lowell era uomo audace e complicato, fiero e contraddittorio. Fu poeta. Per un tratto di vita, fu poeta in cui convergono, a convegno, come lance dai volti luminosi, i grandi del secolo. Leggiamolo.

Mr. Edwards e il ragno

Vidi i ragni camminare nell’aria,
galleggiando d’albero in albero quel giorno stantio
del tardo agosto quando il fieno
giungeva cigolando al fienile. Ma dove
il vento è dell’ovest,
dove il nocchioso novembre fa volare i ragni
nelle apparizioni del cielo,
essi cercano soltanto pace e muoiono
presto dirigendosi a levante, verso l’alba e il mare;

che cosa siamo nelle mani del grande Iddio?
Invano tu ponesti spine e rovi
in ordine di battaglia contro il fuoco
e il tradimento crepitante nel tuo sangue;
poiché le aspre spine s’ammansano
e non faranno nulla per opporsi alla fiamma;
le tue ferite narrano la partita senza scampo
che tu giochi contro una malattia che non puoi curare.
Quanto saranno forti le tue mani? Quanto resisterà il cuore?

Una cosa minuta, un vermiciattolo,
o un ragno con emblema di clessidra, si racconta,
può uccidere una tigre. Rispecchierà
il morto la natura e dichiarerà
ai quattro venti il lezzo
e il lampo della sua autorità? È giusto
se Dio che ti trattiene sul pozzo dell’inferno,
come uno tiene un ragno, distruggerà,
confonderà e dissolverà la tua anima. Da fanciullo
nella palude di Windsor, vidi il ragno morire
gettato nelle viscere del fuoco feroce:
non c’è lunga lotta, nessun desiderio
di rimettersi in piedi e fuggire –
allunga le zampe
e muore. Questo è l’ultimo rifugio del peccatore,
sì, e nessuna forza usata sulla calura
ritempra allora la volontà soppressa, quando dolorante
e pieno di fuoco esso sibilerà sul mattone.

Ma chi può misurare fino in fondo l’inabissarsi di quell’anima?
Josiah Hawley, immaginati messo
in una fornace di mattoni la cui vampa
fa carbone dei tuoi teneri organi vitali –
se misurato con la clessidra
come parrà bruciare a lungo! Lascia passare
un minuto, dieci, dieci trilioni; ma la fiamma
è infinita, eterna: questa è la morte,
morire e saperlo. Questa è la Vedova Nera, la morte.

Da Il cimitero dei quaccheri a Nantucket

V

Quando le viscere della balena si infrangono e l’onda
della sua corruzione invade questo mondo
al di là di Nantucket spoglia di alberi, e di Wood’s Hole
e di Martha’s Vineyeard, o marinaio, sibilerà la tua spada
e piomberà e affonderà nel grasso?
A Giosafat nella gran fossa di ceneri
le ossa invocano piangendo il sangue della balena bianca,
le grasse pinne s’inarcano e la percuotono intorno agli orecchi,
la lancia di morte zàngola nel santuario, strappa
il cuore brunito in brandelli che si sollevano a flagello,
e sminuzza fuori la vita attorcigliata: scava e tende
e squarcia il diaframma della balena,
pezzi di grasso volano al vento, o marinaio,
e gabbiani girano intorno alle assi sfondate
dove le stelle del mattino cantano insieme
e il tuono squassa la bianca schiuma e straccia
la rossa bandiera inchiodata alla testa dell’albero.
Nascondi il nostro acciaio, Giona Messia, nel Tuo fianco.

Roberto Lowell

*traduzione italiana di Rolando Anzilotti

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