“Potevamo essere fatti di un ferro, di un muso”. Da Mario Benedetti

Daniela Gliozzi, Azzurro

 

Oggi pubblico una poesia molto bella di Mario Benedetti. La faccio precedere da uno stralcio ritagliato da uno dei saggi introduttivi all’edizione integrale delle poesie di Benedetti. Il saggio, di Stefano Dal Bianco, si intitola L’idiota che ci rappresenta e va considerato un ottimo punto di partenza per uno studio di massima di questo originale, interessante autore. L’edizione di cui parlo è quella intitolata Tutte le poesie, edita da Garzanti nel 2017. La poesia che riporto, più precisamente, è tratta da una notevole raccolta composta dal poeta friulano, Tersa morte (2013).
Ecco il brano:

“Chi parla dunque in Tersa morte? Chi è il Nessuno che al termine della sua Odissea può dire: ‘Ma io nella mia vita non ho scritto nessuna poesia, / io nella mia vita non ho letto nessuna poesia. / E questa nessuno l’ha scritta, nessuno l’ha letta’? Sebbene implichi l’assunzione di una eredità affettiva (dopo la morte del fratello nel 2010) e anche assomigli al revenant protagonista di Conglomerati di Zanzotto (2009), la figura del sosia, che si aggira tra i versi e registra con occhi quasi post-umani i fatti del passato e del presente, ci appare come l’esito quasi ovvio di una esperienza di vita e di scrittura che fin dall’inizio era potentemente abitata dalla sensazione di non esserci del tutto o di essere da un’altra parte. […].
E restano, fino alla fine, le meravigliose incongruenze della lingua di Mario, le sue metonimie spiazzanti, la temerarietà delle sue tautologie. Resta, soprattutto, il suo ‘idioletto dimesso’ (Marchiori), ancora bene attestato da certo lessico terra terra, quasi bambino (‘Il preciso mangiare non è la minestra’) e da certe forme sintattiche, che non si preoccupano di superare la soglia della sgrammaticatura, dell’anacoluto: ‘Come testimoniare i morti, / vivere come lo fossimo, / morire come lo siamo’. È l’apoteosi dell’impaccio linguistico, è un disarmo unilaterale, è un fare appello alla tenerezza di fronte alla precarietà umana. È come se l’errore testimoniasse di una più stretta aderenza a quella vulnerabilità che ci accomuna e ci fa deboli al destino.”
Ed ecco la poesia:

 

ricordo di Andrea Zanzotto

 

I fiori tutte le notti aperti, mi guardi scrutando in giro
o dalla finestra il campo come il campo di una volta.
Venuti per i prati, per non poterli dire che erbe e alberi.
Potevamo essere fatti di un ferro, di un muso.
L’orto è solo una cosa che facevamo, una domanda.

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