“Né si può arrestare uno prima di arrestarlo”. Un romanzo di Giovanni Carbone

M. C. Escher, Mano con sfera riflettente, 1935. Litografia

 

Oggi propongo la lettura di un romanzo di Giovanni Carbone, Le statue di sale (Effigi edizioni, 2022).

Il libro di cui parlo è un giallo, la sottigliezza è il suo pregio ed è un qualcosa che va oltre il genere poliziesco.
Questo è un genere che non coltivo e di cui so molto poco, ma posso comunque affermare che Carbone lo esalta, perché lavora di lima alla trama – peraltro non intricatissima ma viceversa piuttosto lineare -, ai suoi misteri e ai suoi significati.
Della storia in sé, però, eviterei di parlare, soprattutto perché è annebbiata nella mia poca memoria, frutto di una lettura di ormai qualche mese, ma non solo: si tratta, è vero, di una bella storia (molto siciliana, e in un certo senso politica, devo dire) ma certi polizieschi nascono e crescono per ben altro.
Se c’è quell’altro, dico per inciso, allora di solito ci sono anche io, ed ecco perché qui, su questo blog, per esempio, ho recentemente pubblicato due brani tratti da Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, romanzo poliziesco incompiuto e della cui trama ho vaghi ricordi. Il Pasticciaccio lo apri a caso e ne sei sempre contento, come deve essere di un capolavoro. Ed è su quel sentiero che io vado –  fatti ovviamente i debiti distinguo – se prendo in considerazione un libro non spinto dalla fama che lo precede, che sia la fama buona e giusta costruita nel passato o quella per lo più illegittima dei famosi di ora. Il libro di Giovanni Carbone mi ha colpito perché spunta praticamente dal nulla ed è un piccolo romanzo perfetto.
Della sottigliezza, dicevo. Si riconosce tanto nella storia – il cui afflato civile, devo dire, incorpora senza alcuna ingenuità la scrittura – quanto nella struttura linguistica, in un tutt’uno misurato, ben scritto, preciso, nel senso soprattutto di informato e di esatto. E non può non venirmi ancora in mente, come è successo durante la lettura, quel grande agli antipodi di Gadda, che è Leonardo Sciascia. Se si conosce Sciascia, si capisce molto bene cosa c’entri con Carbone, a prescindere dal fatto che Carbone stesso conosce benissimo Sciascia (lo so perché Carbone è un mio amico).
Quando affermo che si tratta di una prosa formata sul grande di Racalmuto sto constatando che l’indole di Giovanni, ben più espressiva e sintonizzata piuttosto su un Bufalino, offre le spie involontarie di chi ha introiettato, che è cosa assai rara. Quelle parti di tale coesistenza risultano quindi parecchio sofisticate ed è precisamente da qui che nasce la piacevolezza con la quale ho letto questo libro.
Il suo linguaggio si adagia morbido, rilassato, con quel tanto di quella attitudine alla coloritura di cui parlavo. In un sentore di siciliano senza essere davvero tale si scopre anche un cammino narrativo che ipotizza Verga. La consistenza pastosa – dove l’ironia è essenziale all’impasto – appare sgrassata per mano di certe essenzialità e sobrietà la cui ragione sta soprattutto nell’indirizzo sicuro delle cose da dire. Insomma il discorso non sfoggia e non è compiaciuto, proprio perché, affermerei, se lo potrebbe anche permettere.
La narrazione si pone, così, nel mezzo, proprio nel pieno di questo mondo-lingua, ed è quindi priva di páthos come l’animale dopo la lotta; è padrona della situazione.
Certo gusto del paradosso tipicamente siciliano, e dosi ben calibrate di metafore sembrano essere sostanziali al processo indagatorio, lo puntellano, quasi.
L’autore, non so come, conosce bene il mondo delle indagini (almeno mi sembra, visto che a me viceversa è totalmente sconosciuto) e i tecnicismi che vi si addensano, a maggior ragione per chi ne ha poca dimestichezza, riescono prelibati.
Carbone inserisce a protagonista di quelle un alter ego, Capuana, che risulta irresistibile dall’inizio alla fine. La personalità del commissario Capuana è elegantemente disegnata ed è definita in modo che la sua umanità possa svelarsi dai piccoli gesti, dalle cose poco eclatanti. Capuana spesso diventa, quindi, protagonista di situazioni teatrali: ne puoi seguire i minuscoli movimenti con le antenne ben dritte, ne percepisci gli spessori di quelle scene rallentate solo perché il minimo emerge in quella sferzata di felicità che dà una natura morta fatta con i crismi.
Sorvegliando una lingua straniata e obliqua come il dardo di Eros, l’autore ottiene, alla fine di tutto, un equilibrio settecentesco che ricorda, appunto, soprattutto Sciascia, in una realtà impegnata fatta lingua, per un risultato insieme amaro e leggero.

Esempi:

“Si mosse lentamente e spense il gas sotto il caffè. Se lo versò, un cucchiaino di zucchero e si fermò a pensare un attimo, osservando la tazzina con lo sguardo ancora ovattato della notte. Pensò che se avesse usato quello di canna, quello grezzo bio, sarebbe stato meglio. Gliene mise un altro mezzo e tirò un primo sorso senza nemmeno mettersi a sedere.” (1)

“’… Poi c’era anche il rischio di fuga, certo. E questa c’è stata. Ma questo, signor questore, noi lo sapevamo. Solo che non si può dire ai giornali. Né si può arrestare uno prima di arrestarlo, per non farlo scappare. Così ci si mette in moto piano, si fanno le cose con ordine, si cerca si usare l’immaginazione per ridurre il danno.’” (2)

“Il commissariato era a meno di cento metri dalla piazza e ci andò a piedi, proprio per rendersi conto alla luce del giorno di come fosse quel posto. Le case dietro la piazza, che ancora indugiava in un certo decoro, come si compete ai salotti buoni, erano, invece, deprimenti. Buona parte non avevano intonaco, le altre erano a colori sgargianti e improbabili. Sui tetti, come artigli rapaci, piloni di cemento terminavano con tondini d’acciaio piegati e corrosi dalla ruggine, pronti a ghermire e sorreggere elevazioni retrodatate, allorché il prossimo certo condono le avesse autorizzate. In basso, le zone giorno delle abitazioni si protendevano su verandine che riducevano le carreggiate a sottili budelli d’asfalto crettati. Nicchie votive contendevano rientranze a contatori e grovigli di fili elettrici. Qualche sedia, davanti alle porte, cigolava sotto anziane signore, con lo sguardo fisso nel vuoto, in attesa di incontrare gli altri sguardi, fissi anch’essi, del vicinato. Una piazzetta con le volanti parcheggiate gli si aprì davanti. Il commissariato era in uno stabile di due piani del ventennio. Il cemento delle pareti pareva si sfarinasse nelle pareti di sotto. Varcò la porta a vetri e si trovò davanti alla guardiola.
Il piantone era impegnato al telefono in una conversazione intensa: ‘Non se ne parla proprio, Giusi – urlò quasi – Ci avevo detto che le braciole me le doveva tagliare spesse. Riportacele e digli che queste se le mangia lui. Il vino lo porta mio cugino Carmelo, e Teresa fa la cassata e i ravioli’.
Capuana sollevò l’indice come per chiedere la parola.  ‘Aspetta, Giusi’. Il piantone,  coprendo col palmo della mano la cornetta, disse: ‘Signor Lei, ma lo vede che sto parlando al telefono? Si metta a sedere che la chiamo io’. Continuò nervoso ‘Giusi, ce l’ho detto che nella ricotta non ce lo deve mettere lo zucchero. Ai bambini ci facciamo i tortellini con la panna. Sì, ma ci devi dire a Pippo che arriva presto, che mi deve sistemare la pompa del giardino. Due mesi sono che mi deve fare sto lavoro. Appena lo acchiappo ce lo dico io…’.
Capuana aveva obbedito e s’era accomodato nella panchetta di fronte alla guardiola. S’era convinto, e giustamente, che la conversazione era di importanza strategica per il piantone, dunque, rischiava di continuare a lungo.” (3)

“Quella sera, al caldo non c’era scampo e il vino aspro e forte di don Tano, che ormai sembrava aver accettato la sua condizione di abbraccio permanente con la spuntatura del fondo della botte, non aiutava. La giacca di lino gli aderiva alla pelle e decise di togliersela. Nella notte dei vicoli di Santa Veneranda, i protocolli potevano saltare, lasciandolo in maniche di camicia allo sguardo indiscreto che spia da dietro una persiana socchiusa. Per un attimo gli parve di poter respirare e prolungò il giro per i vicoli di silenzio. Ma il caldo si fece risentire e sognò quell’ipotesi di refrigerio che poteva dargli un piccolo ventilatore in dotazione alla casa. Aveva persino pensato di andarsi a buttare sulla poltrona del suo ufficio,  almeno l’aria condizionata l’avrebbe aiutato a chiudere gli occhi per un po’. Desistette, aveva già passato troppo tempo lì. Né qualche acciacco alla schiena, amplificato d’aria fredda e sintetica, a contrasto col calor bianco di quelle giornate, lo invogliarono a provarci. Si gettò sul divanetto del tinello, con una rivista che sventolava, contribuendo col ventilatore a spostare due protovortici d’aria bollente. L’unico conforto di quell’anticamera d’asfissia era che gli aveva messo a riposo i neuroni, finalmente. Non aveva pensieri, stretto nella sua canotta senza manica. Se Agata l’avesse visto sbracato e in quelle condizioni, si sarebbe lasciata andare a una di quelle filippiche sul bon ton cui non sarebbe sopravvissuto. Rammaricato spesso per non averla lì, in quel momento la sua assenza gliene venne come una leggera delizia. Rinunciò pure alla fatica del ventaglio travestito da settimanale, che anche quel movimento pareva provocargli eccessiva sudorazione, e s’acquietò per qualche minuto, il tempo di riprendere forze già a, lumicino. Decise, in definitiva, che non avrebbe opposto alcuna resistenza, e delegò a quel piccolo ventilatore di procedere lentamente, secondo i suoi tempi, a ripristinare un minimo di vitalità nei suoi organi. Nell’attesa che sene compisse la volontà, allungò un braccio dolorosamente, come per la più perigliosa delle fatiche di Ercole, sino a consentire alla mano più prossima di ritrovare, nel taschino interno d’una giacca ormai zuppa, gli occhiali per leggere. Con l’altra mano riuscì a ghermire, sul tavolino di fronte, sigarette e accendino. Ringraziò per il posacenere, assai più pesante, fosse rimasto in pericoloso equilibrio sul bracciolo del divano, non necessitando d’essere raggiunto. Poco oltre, una decina di centimetri dalle sigarette, praticamente a una distanza siderale, scorse il catalogo della mostra di Venerando. Stava lì da tempo immemore e non l’aveva che appena sfogliato. Con sforzo immane riuscì a portarselo al petto e ne aprì le pagine a caso.” (4)

“Forse il caldo non favoriva evoluzioni particolari, ma nei giorni successivi si poteva parlare di calma piatta. A Capuana veniva in mente un vecchio film, che peraltro non gli era nemmeno piaciuto, Il giorno della marmotta. Agata non c’era verso che si presentasse poiché sua madre pareva migliorare molto lentamente. Per telefono era difficile pure parlarle che aveva tensioni da traliccio dell’elettricità. Il commissario accusava una sorta di sindrome da rimbalzo, e quella dimensione statica non l’aiutava. Si sentiva come dentro una bolla di sapone e se, per qualche secondo, riusciva a distinguere i contorni del mondo d’intorno, d’un tratto le pareti della sfera, anziché dissolversi, cominciavano a ispessirsi, a divenire dure e opache come il calcestruzzo, una sorta di bara di pietra dentro cui non c’era ossigeno, soffocante e claustrofobica. Non trovava nemmeno una ragione plausibile per cui dovesse starsene lì, non c’era nessuna manifesta ragione per cui dovesse continuare a sbattersi per quella gente che aveva deciso, scientemente, per paura, costume, cultura, condivisione, complicità, o cos’altro non era dato a sapersi, di vivere dentro quei sarcofagi sferici, rinunciando al respiro. Quel tutto fermo era la macchina, dunque, la macchina delle bolle di Venerando? In realtà s’era ormai convinto che non gli importava niente nemmeno di mettere in galera don Vannino e i suoi. S’era detto che non era quello il punto. Ma il punto qual era? Cosa si attendeva, una sorta di sommossa popolare che cacciasse l’ascaro dalla terra dei giusti? O, semplicemente, sperava che ciò avvenisse, e che il suo lavoro divenisse il botto inutile, quasi un orpello estetico d’una società che produceva anticorpi spontanei, capaci di aggredire l’antigene mortale della privazione della libertà, del pensiero, della parola?  S’accorse, senza dirselo, che non gli piaceva niente del suo lavoro, niente. Nemmeno il risultato finale. Sbirro d’ufficio, con gli occhi chiusi sulle scartoffie, le realtà bidimensionali che oscurano la profondità, ma anche il tempo. Bolli e odori d’inchiostro, stampanti che si inceppano, i rumori ottusi dei telefoni e i centralini che comunicano unidirezionalmente, senza il filtro della ragione, senza la barriera inestricabile dei perché. Il caldo gli appiccicava addosso i vestiti, gli trasferiva indolenze arcaiche. La sabbia del libeccio, il sudore, gli irritavano gli occhi e inceppavano pensieri che si muovevano per linee sghembe. L’obiettivo finale, la sua natura istituzionale e repressiva,  s’era fatta altro, era uscita da sé, si muoveva sua sponte, senza chiedere il permesso.” (5)

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  1. G. Carbone, cit., pagg. 7-8.
  2. Ibid., pag. 14.
  3. Ibid., pagg. 30-31.
  4. Ibid., pagg. 98-99.
  5. Ibid., pagg. 106-107.

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