La linea del partito

Da sinistra: Lucio Magri, Rossana Rossanda, Eliseo Milani, Luciana Castellina

 

“Ero venuta a dirigere la sezione cultura a via Botteghe oscure con due ferme idee in testa. Mi parevano ovvie. Era fuori discussione che bisognava chiudere con quel che aveva da quindici anni sollevato la protesta e fin l’angoscia degli intellettuali migliori, e che era persistito in modo insopportabile in Emilio Sereni e in Alicata: gli interventi del partito sulla cultura, l’arte, la letteratura, la scienza eccetera. Il partito – ragionavo – era una grande quantità di uomini collegati dal rifiuto di questa società e da un progetto di cambiamento; non erano idee da poco né indiscusse né indiscutibili, si limitasse ad aggiornare e approfondire quelle, non era certo funestato da un eccesso di storia e teoria su di sé. […]. Ed erano tutti aperti e doloranti gli interrogativi del 1956. Pensavo che saremmo stati felici di sollevare molti coperchi e riprendere l’iniziativa in un mondo intellettuale che si stava o disilludendo o orientando verso diverse sirene, prima delle quali l”industria culturale’, che non chiamavamo ancora ‘il mercato’.
Non che considerassi l’arte e le scienze come pure e fuori dal mondo, ma avevano i loro tempi e modi sui quali era inutile, se non sciagurato, sconfinare. Una cosa era che Amendola trovasse insulsa la pittura moderna e Togliatti amasse più Flora Volpini che James Joyce, altra che questa fosse la ‘linea’ del partito. Intanto il partito ero anche io, e adesso con un piede sul ponte di comando. Potevo rimediare alla perdita dei molti artisti o critici delusi e infuriati per gli infausti interventi del Pci fin dal 1948-49. Lo avrei fatto.
Non mi aspettavo che filasse liscia: bisognava che la direzione e i suoi rami nell’apparato e nella stampa si togliessero dalla testa che arte e scienza si potevano utilizzare come leva di educazione proletaria, volgarizzandole a un gusto medio e rapidi risultati. Avevamo sbagliato tutti, e più quelli di noi che l’avevano ritenuto una necessità transitoria. […]. Non era vero che passando dal più appetibile realismo si sarebbe arrivati all’avanguardia, con questo sistema l’avanguardia nell’Urss era stata fatta fuori. E ci si era preclusi di capire le avventure formali del secolo, restando ingabbiati in forme che non avevano più senso, ammesso che in passato l’avessero avuto. Quando mai i rivoluzionari erano stati ‘realisti’? C’era, sì, una difficoltà – la produzione artistica aveva mutato forme e linguaggi, e questo la rendeva meno accessibile – ma chi aveva detto che capire l’arte era facile? Forse un giorno le folle si erano davvero riconosciute davanti alla dura crocifissione di Masaccio. Mah.
Quanto stupidaggini erano state dette. Il meglio era Lukács, peraltro neanche lui letto sul serio; il Pci partiva da De Sanctis per arrivare a L’Agnese va a morire di Renata Viganò. Non era un gran percorso. Lo stesso per la scienza dove si era pagato uno scotto imperdonabile a Lysenko, e per la musica. Adesso basta. […]. Già Guttuso si era distaccato da un dipingere militante – anche se non lo trovai esultante nella sua villa vicino a Varese, mentre lavorava su piccole tele sontuose molto lontano da quella tremenda battaglia sul ponte dell’Ammiragliato. Allora meglio Diego Rivera, i murales avevano un senso in quella loro situazione, un Messico fra creolo e indio. Noi non dovevamo scoprire delle forme, dovevamo capirle e senza scorciatoie. La nostra vicenda aveva radice nella crisi della coscienza europea, scusate se è poco. Del resto da Marangoni a Wölfflin che altro avevo imparato? La sciagurata stagione dell’arte proletaria andava chiusa”.

Rossana Rossanda, La ragazza del secolo scorso, Einaudi, 2005, pagg. 268-270.

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