Nel giusto contesto, il dolore è qualcosa di diverso dal dolore

Riporto volentieri la recensione di un bellissimo libro, scritta da Gianni Montieri e pubblicata lo scorso 6 ottobre su “minima&moralia” col titolo La boxe nella scrittura di Joyce Carol Oates. Il libro di cui si parla è ovviamente il celeberrimo Sulla boxe, recentemente riedito in Italia.

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“Nel giusto contesto, il dolore è qualcosa di diverso dal dolore.”

La boxe è per me qualcosa di sfumato e vago, un’idea o un’intuizione, un ricordo d’infanzia, due chiacchiere con mio padre, immagini in bianco e nero piene di fascino, tutto come in una nebbia o in una favola; tutto questo come un mistero si è sciolto quando è arrivata qualcuna a spiegarmela, qualcuna come Joyce Carol Oates. Sulla boxe è una raccolta di articoli e saggi, scritti nell’arco di molti anni, circa venti, da un’appassionata ed esperta di boxe, ma questo non basterebbe a rendere il libro meraviglioso se la Oates non fosse la splendida scrittrice che è. Sulla boxe è stato pubblicato in Italia per la prima volta nel 2015 da 66thand2nd, per la traduzione di Leonardo Marcello Pignataro e torna in una nuova bellissima edizione in questo settembre 2023 nella collana Attese. La casa editrice romana continua a essere molto attenta al mondo della boxe, che è un mondo molto spesso osservato superficialmente e ridotto a pochi aggettivi; per esempio, ha dato alle stampe da poco un altro libro molto bello, Rocky Marciano blues di Marco Pastonesi.

C’è uno dei passaggi più significativi del libro di Oates che ci mostra la qualità altissima della sua scrittura: una particolare caratteristica quella di portarti parola dopo parola, virgola dopo virgola, facendo salire la tensione e la metafora, al punto, passo per passo, ma durante quei passi non ti nasconde nulla, ti dice dove ti sta portando, lo straordinario sta nel come ci riesce. Lo fa nei romanzi, nei racconti e nei saggi, appunto. Il brano, inoltre, riassume bene cosa sia la boxe, che tra le altre cose è una metafora al contrario, ovvero un tipo diverso di metafora. Allora leggiamo Oates che sottolinea di frase in frase come la vita somigli alla boxe, non il contrario, sarebbe facile pensarlo leggendo le frasi, slegandole dal ragionamento di fondo, ma non è così: La boxe però è soltanto come la boxe.

“Allo stesso modo non mi riesce di pensare alla boxe in termini letterari come metafora di qualcos’altro. Chi come me ha cominciato ad appassionarsi di boxe da bambino – ho seguito la passione di mio padre – è improbabile che la consideri il simbolo di qualcosa che la trascende, come se la sua particolarità stesse nell’essere sintesi o immagine di altro. Posso però valutare l’idea che la vita sia una metafora della boxe – di uno di quegli incontri che si protraggono all’infinito, ripresa dopo ripresa, jab, colpi a vuoto, corpi avvinghiati, un niente di fatto, di nuovo il gong, e poi di nuovo, e tu e il tuo avversario così simili che è impossibile non accorgersi che il tuo avversario sei tu: e perché questa lotta su un palco rialzato, delimitato da corde come un recinto, sotto luci infuocate, crude, spietate, davanti a una folla scalpitante? -, il genere di metafora letteraria dell’inferno. La vita è come la boxe per molti e sconcertanti aspetti. La boxe però è soltanto come la boxe.  Perché se uno ha visto cinquecento incontri di boxe ha visto cinquecento incontri di boxe, e non è il loro comune denominatore, che di certo esiste, la cosa che gli interessa di più. «Se l’ostia è solo un simbolo,» rimarcò una volta la scrittrice cattolica Flannery O’Connor «allora che vada al diavolo!».”

Questo aspetto tornerà spesso, sottinteso, La boxe però è soltanto come la boxe. Tornerà fuori quando la Oates parlando degli altri sport popolari negli Usa, il Football, il Basket, il Baseball, specificherà che in tutti questi è sempre presente la dimensione del gioco, nella boxe no. La boxe non è un gioco ma è uno sport, e con questo risponderà anche a chi, spesso, nella storia del ring ha sostenuto il contrario. La boxe è violenta, con la boxe si può morire. La scrittrice, dati alla mano, mostra come siano altri sport ad essere più pericolosi, ma non è quello l’aspetto che le interessa di più. Alla Oates interessa raccontare le storie del ring e degli uomini che sono diventati leggenda praticando uno sport che non somiglia a niente, ed è in questo – secondo me – che diventa letteratura. La boxe però è soltanto come la boxe.

Solo nella boxe il tuo avversario sei tu, tu da così vicino, tu deformato, tu avvinghiato a te stesso, tu odiato, tu innamorato, tu sgusciante, tu danzante. Tu e i pugni che darai, e, di più, quelli che schiverai, e più ancora, quelli che incasserai, perché è il dolore, a volte, è quello che ti ricorda di essere vivo. Questi splendidi articoli e saggi, che hanno la tensione del racconto senza perdere lo sguardo del giornalista sportivo, fanno avanti e indietro nel tempo della boxe, da quando il ring non era ancora un ring a Mike Tyson. Passando da George Foreman a Jack Dempsey, da Larry Holmes a Joe Frazier, da José Torres a Marvin Hagler, da Muhammad Ali a Jack Johnson. Incontri raccontati, visti dal pubblico e visti dal pugile. Aneddoti, interviste, modi di essere, di vivere di pensare. Scopriremo che gli scacchi possono essere più pericolosi della boxe, che nessun pugile può davvero fingere sul ring, uno spettatore esperto se ne accorgerà, lo sentirà. Scopriremo che Muhammad Ali, il più forte di tutti e il più intelligente, aveva il voto più basso a scuola nei test sul quoziente intellettivo. Scopriremo personaggi simpatici e odiosi. Scopriremo degli occhi da bambino e di una strana dolcezza in Mike Tyson.

La bravura di Oates non cede mai di un millimetro che scriva meravigliose e terribili storie sui disagi della famiglia americana, saggi su Sylvia Plath, Foster o Henry James o che racconti della leggerezza di Ali.

Sulla boxe è un libro bellissimo, che lascia senza parole, mentre leggi ti senti catapultato a bordo ring, perdi colore, e seduto, in bianco e nero totale, tu solo in mezzo alla folla, aspetti le finte di Ali, il suo colpo che nessuno era in grado di veder partire, aspetti che lo sport si compia, di tre minuti in tre minuti, o per sempre.

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