Ulisse novecentesco. Rivisitazioni poetiche, dintorni e sviluppi

Giorgio de Chirico, Il ritorno di Ulisse

 

Il mito di Ulisse ha incontrato fortuna presso i letterati del Novecento.
Si è fatto agevolmente metafora dell’esistenza umana, preziosa risorsa per la letteratura moderna, e vi è entrato, forte della ricchezza che gli ha dato la tradizione, particolarmente vivida a partire da Dante.
Tale fortuna consente di confrontare testi e autori anche molto diversi e di misurarne in modo alquanto netto – soprattutto studiandone il rapporto con la classicità e la rifunzionalizzazione del mito – la cifra della modernità.

Relativamente alla poesia italiana sono senz’altro significativi a riguardo il componimento introduttivo delle Laudi dannunziane, Alle Pleiadi e ai Fati, insieme alla Laus vitae di Maia (1903); il poemetto L’ultimo viaggio, dai Poemi conviviali di Pascoli (1904); la poesia Ulisse di Pavese, tratta da Lavorare stanca (1936) e quella omonima, dalle Mediterranee di Saba (1948). Su queste opere ho intenzione di soffermarmi.

A livello di osservazione immediata, la riesumazione del classicismo, e più in particolare del materiale mitico che esso offre, per i simbolisti Pascoli e d’Annunzio significa innanzitutto l’occasione per fare ricorso ad un registro estetizzante. Lo studio della peculiarità dei loro approcci approfondisce l’esame del rapporto da essi instaurato con la tradizione, nel vivo dell’esame della loro personalità poetica.

L’ultimo viaggio è il più lungo dei diciassette poemetti di argomento classico che formano i Poemi conviviali [1], la prima raccolta pascoliana di testi decisamente staccati dalle humiles myricae.
I suoi ventiquattro canti narrano di una singolare conclusione della vicenda dell’eroe omerico secondo un gusto alessandrino di rivisitazione del mito. Ne viene tralasciata la parte più conosciuta e se ne sviluppa una reinvenzione che indugia su particolari anche minuti e che si lascia ammaliare da un linguaggio prezioso, ricco di citazioni erudite (si leggano, a mo’ di esempio, questi due versi dal canto Il timone: “Si desse, giunti alla lor selva, ai remi,/barbàre in terra e verzicare abeti!”).
Pascoli racconta che dopo il ritorno a Itaca, l’eroe non si rassegna ad una vita sedentaria e decide di rimettersi in viaggio, spinto da una forza misteriosa:

Compagni, udite ciò che il cuor mi chiede
sino da quando ritornai per sempre.
Per sempre? chiese, e No, rispose il cuore.
Tornare ei volle; terminar, non vuole. [2]

La nave preferisce le tempeste del mare al finire rosicchiata dai tarli. Anche il suo capitano non “vuole […] il sibilo del fuso, / non l’odioso fuoco che sornacchia, /ma il cielo e il mare che risplende e canta.”[3]
Il desiderio di libertà e di conquista, dunque, motivano ancora Odisseo, il quale si troverà a dover rivivere le sue avventure passate, ma con altri personaggi, oppure con quelli di una volta, ma ormai cambiati. Anche il suo stesso agire sarà diverso.
Nei canti Il Ciclope e La gloria l’eroe si aspetta di avere ancora a che fare con Polifemo. Invece vede, meravigliato, un uomo normale, che è pronto ad offrirgli del cibo:

“Ospite, dimmi. Io venni di lontano,
molto lontano: eppur io già, dal canto
d’erranti aedi, conoscea quest’antro.
Io sapea d’un enorme uomo gigante
che vivea tra infinite greggie bianche,
selvaggiamente, qui sui monti, solo
come un gran picco; con un occhio tondo…”
Ed il pastore al vecchio Eroe rispose:
“Venni di dentro terra, io, da molt’anni;
e nulla seppi di uomini giganti.” [4]

Quando Odisseo incontrerà le sirene, ascolterà il loro canto senza farsi legare. Ciò che lui e i compagni vorranno sapere saranno comunissimi accadimenti della vita quotidiana:

[…] se avea fruttato la sassosa vigna,
se la vacca avea fatto, se il vicino
aveva d’orzo più raccolto o meno,
e che facea la fida moglie allora,
se andava al fonte, se filava in casa. [5]

L’ultimo canto, intitolato Calypso, racconta della scoperta da parte della ninfa Calypso, sulla spiaggia dell’ isola, del corpo di Odisseo, ormai senza vita.
Questo canto succede a Il vero, il quale termina con l’allusione secca alla fine del vecchio eroe : “E tra i due scogli si spezzò la nave”. Un attimo prima, nei due versi immediatamente precedenti a questo, era stata ripresa l’estrema domanda posta, qualche verso sopra, alle due sirene che il vecchio e nostalgico protagonista aveva voluto rincontrare (“Solo mi resta un attimo. Vi prego! Ditemi almeno chi sono io! chi ero!”), disperato per il fatto che la mitica vicenda rivissuta fosse deformata a tal punto che nessuno lo aveva riconosciuto. Ecco quella domanda:

“Son io! Son io, che torno per sapere!
Ché molto io vidi, come voi vedete
me. Sì; ma tutto ch’io guardai nel mondo,
mi riguardò; mi domandò: chi sono?”. [6]

Il fatto è che la conoscenza cercata da questo moderno Ulisse è estranea alla tradizione del mito. Egli pone un problema esistenziale, anzi, il problema, vale a dire la messa in dubbio della stessa esistenza della realtà.
La deformazione del mito classico consiste qui nell’esprimere la sua inconciliabilità con il moderno: è quindi messo in dubbio il mito stesso, nel momento in cui l’eroe mette in dubbio se stesso.
La riflessione sulla crisi della condizione esistenziale si realizza attraverso l’idea che il mito non solo non rappresenta più la certezza data, cioè il gesto accaduto una volta per tutte, ma non è più neanche in grado di dare nuovo valore alla realtà. Il cambiamento insomma arriva al nulla – a quel nulla significativamente invocato, per l’eroe amato, da Calypso, negli ultimi due versi del poemetto – perché esso è preferibile alla morte, cioè al non essere più.

Il motivo dell’agire nell’eroe dell’ardimento Ulisse, in Laus vitae – il poemetto che quasi per intero occupa il primo libro delle Laudi, Maia [7] – è invece da rintracciarsi banalmente nel fascino esercitato sul suo autore dal superomismo. Il culto della forza insita nell’essenza istintuale, vitale e panica dell’uomo ideale, al di là di ogni sovrastruttura di tipo morale, religioso e razionale, culto alimentato, come tutti sanno, dalla lettura di Nietzsche e dal clima wagneriano che quella lettura aveva fecondato, avvicina d’Annunzio al materiale mitologico. Esso è dunque proposto in relazione al gusto retorico che rende la tensione alla bellezza equivalente all’intenzione e allo zelo coi quali il poeta attinge ad un repertorio che è come un museo ricco di antichità preziose.
Le Laudi sono introdotte da due testi (posti, dunque, subito prima di Maia), di cui consideriamo il primo, Alle Pleiadi e ai Fati, nel quale, composto non a caso in terzine, incontriamo subito Ulisse, il cui ricordo è qui intrecciato a quello, manifestato in modo esplicito, della rielaborazione dantesca. Ma ciò che interessa al poeta è far indossare all’eroe greco, nella rievocazione stessa della situazione infernale, la veste superomistica, è esaltarlo come colui che “eccita i forti”. E’ singolare che nel fare questo d’Annunzio stabilisca un paragone con Galilei, nel momento in cui il discorso poetico si rivolge direttamente allo scienziato:

Non un iddio ma il figlio di Laerte
qual dallo scoglio il peregrin d’Inferno
con le pupille di martìri esperte

vide tristo crollarsi per l’interno
della fiamma cornuta che si feo
voce d’eroe santissima in eterno.

«Né dolcezza di figlio…» O Galileo,
men vali tu che nel dantesco fuoco
il piloto re d’Itaca Odisseo.

Troppo il tuo verbo al paragone è fioco
e debile il tuo gesto. Eccita i forti
quei che forò la gola al molle proco.

Lo fa dunque sottolineando la debolezza di quel vero, di quella ‘salvezza’ – espressi dal suo “verbo” – di fatto inutili per l’uomo (“L’ancora che s’affonda ne’ tuoi porti/non giova a noi”), perché solo il coraggio di “chi naviga alle terre sconosciute” e “mette sé nel turbo delle sorti”, solo il coraggio di un Ulisse che si cimenta oltre l’umano, dà valore all’ umano.

L’incontro di Ulisse è invece uno dei capitoli di Laus vitae, il cui tema è la scoperta, da parte dell’io poetico, del fervore superomistico, il quale induce il protagonista a partire per la Grecia insieme a compagni fidati (lo spunto autobiografico è un viaggio realmente avvenuto nel 1895) e durante il quale egli raggiunge i luoghi e i personaggi dei racconti mitici. Ebbene, il primo di tali incontri è quello con Ulisse, sulla sua “nave incavata”. La descrizione dell’eroe, già dalla prima strofa (la tipica strofa lunga di Laus vitae, composta da ventuno versi liberi) è volta a dargli un preciso carattere. Egli innanzitutto è “silenzioso” nell’atto di manovrare le vele; indossa il “pileo” dei marinai; ha il ginocchio “ferreo” e l'”occhio aguzzo”. Ma soprattutto in lui “vigile in ogni / muscolo era l’infaticata / possa del magnanimo cuore.”
Ci viene insomma presentata una figura nobile nell’aspetto e nell’animo: già se ne avverte il vigore, simboleggiato dal governo della feroce natura del mare e dei venti, il quale è ribadito all’inizio della strofa successiva, dove è detto che Ulisse non ha con sé i segni del fasto, vale a dire i “tripodi”, gli sgabelli a tre piedi che sorreggono i “lebéti”, cioè i vasi emisferici, e la veste e il manto donati da Alcinoo. Viceversa reca l’arco, lo strumento dell’ “allegra vendetta” contro i Proci.
La stessa strofa termina con un’asserzione emblematica (Ulisse, lontano dalla patria, “proseguiva / il suo necessario travaglio contro l’implacabile Mare”), perché combattere e vincere le avversità fa parte del destino dell’eroe coraggioso, il quale, quindi, misura la sua potenza solo con i “perigli” (che diventano pertanto “meravigliosi”) e col dolore.
Nelle strofe successive il poeta e i suoi compagni di viaggio si rivolgono all’eroe – “Re degli uomini” – per chiedergli di accompagnarlo nelle sue peregrinazioni, ma quello non reagisce, in atteggiamento di disdegnosa noncuranza.
Poi, è il poeta da solo, a chiedergli di continuare con lui la sua avventura, mostrando, sì, l’ammirazione che si deve all’eroe, ma anche l’ambizione orgogliosa di poter assomigliare a lui: “Tra costoro io sono il più forte”, afferma infatti, e aggiunge: “Qual tuo pari prendimi teco.”.
Ulisse va via e l’attenzione è ora rivolta alla solitudine del poeta, una solitudine vista sempre in chiave superomistica nella rivendicazione della propria superiore diversità, la quale necessariamente si concretizza nella tensione verso l’atto, il gesto eroico:

“Uomo, io non credetti ad altra
virtù se non a quella
inesorabile d’un cuore
possente. E a me solo fedele
io fui, al mio solo disegno.
O pensieri, scintille
dell’Atto,faville del ferro
percosso, beltà dell’incude!”

A ben guardare, il mito di Ulisse in questo canto è solo sfiorato. Altra cosa sono i riferimenti ad esso nell’Ultimo viaggio di Pascoli, anche se usati per stravolgere la tradizione. Qui l’aspetto più concreto della citazione si limita all’aspetto dell’eroe, alla sua descrizione fisica e al suo armamentario. La funzione retorica di questa operazione è evidente nel calco da  espressioni omeriche o comunque classiche (“volubili venti”, “capo canuto”, “arco di vaste corna”, ecc) e in locuzioni nelle quali d’Annunzio preferisce il termine astratto all’aggettivo del soggetto o dell’oggetto [8], là dove scrive: “e vigile in ogni /muscolo era l’infaticata / possa del magnanimo cuore” e “si volse egli men disdegnoso / a quel giovane orgoglio / chiarosonante.”
Il materiale della tradizione letteraria classica cui si attinge (qui preponderante, ma in realtà quella classica non è che una delle fonti utilizzate dal poeta, tra le quali Mario Praz indica, nel testo citato in nota, anche i vocabolari) è riplasmato e fatto proprio secondo una disposizione letteraria chiarificata nella seguente affermazione dello studioso appena nominato:

“La famosa questione dei plagi dannunziani […] appare un travisamento non solo dal punto di vista estetico, ma anche da quello psicologico […]. La ragione psicologica di quei cosiddetti furti non stava già nel desiderio di un appropriarsi cose altrui per fare bella figura, ma – caso ben diverso – nel sentimento che il poeta aveva di quelle cose come di cose proprie.” [9]

E’ la parola, insomma, e non la mitologia in se stessa, a sedurre il poeta, al punto da mostrare i vocaboli che sceglie come se fossero cosa nuova.

Le poesie, entrambe intitolate Ulisse, di Saba e Pavese, solcano la linea ‘antidannunziana’ del Novecento. Parto da Pavese e dalla sua particolare estraneità alla ‘linea moderna’ che attraversa il secolo.

La seconda edizione di Lavorare stanca [10] portava sulla ‘fascetta’ la frase, dettata dal suo autore: “Una delle voci più isolate della poesia contemporanea”, a confermare l’intenzione, almeno per la poesia pavesiana degli anni ’30, di distaccarsi dall’ermetismo imperante.
La distanza consiste soprattutto nell’idea di una poesia-racconto (si noti il simile intento programmatico sabiano), che rappresenti, cioè, situazioni realistiche ed oggettive e che lo faccia con l’ausilio di un pacato andamento ottenuto per mezzo delle particolari cadenze di un verso molto lungo, più lungo dell’endecasillabo [11], e assecondando così la suggestione whitmaniana, nel contestuale rifiuto dell’impressionistica ‘lirica pura’, dell’esaltazione del valore allusivo della parola.
A dire il vero, il realismo è carattere precipuo della prima edizione [12]. Nella seconda si incontra molto più spesso quella che l’autore chiamò “realtà simbolica” in una delle due prose poste in appendice all’edizione einaudiana di Lavorare stanca (l’altra è citata in nota), cioè A proposito di certe poesie non ancora scritte:

“Sarà questione di descrivere […] una realtà non naturalistica, ma simbolica. In queste poesie i fatti avverranno – se avverranno – non perché così vuole la realtà, ma perché così decide l’intelligenza. Singole poesie e canzoniere non saranno un’autobiografia, ma un giudizio.” [13]

Tale realtà è presente nella poesia Ulisse, scritta nel ’35 durante il confino di Brancaleone.
Il componimento parte dalla smitizzazione della figura dell’eroe attraverso riferimenti a situazioni quotidiane e banali:

“A nessuno
vorrà dire se a pranzo ha mangiato. Magari
avrà gli occhi pesanti e andrà a letto in silenzio:
due scarponi infangati.”

Dietro la realtà materiale si afferma il linguaggio, e dunque lo stile, che qui compie il suo passo inverso a quello dannunziano. Rendere l’operazione una cosa sola con l’urgenza comunicativa è compito della poesia, come rendere il mito prossimo alle cose concrete, ‘basse’: ‘prossimo’, però, non in quanto premessa cercata, ma al contrario in quanto conseguenza inevitabile di ciò che urge, del concreto che urge:

“In arte non si deve partire dalla complicazione. Alla complicazione bisogna arrivarci. Non partire dalla favola d’Ulisse simbolica, per stupire; ma partire dall’umile uomo comune e a poco a poco dargli un senso d’Ulisse” [14]

In Ulisse si ritrovano, come altrove e spesso in Pavese, in stretta relazione tra loro, la dicotomia ragazzo/uomo e il motivo della fuga. Ulisse è qui un ragazzo che fugge spesso da casa e lascia da solo un padre ormai vecchio e soprattutto estraneo al figlio.
In primo piano emergono il senso di questa estraneità e quello della frustrazione che ne deriva, per cui leggiamo di un vecchio deluso, solo, immobile, insonne, impotente e amaramente nostalgico e che, soprattutto, non scambia alcuna parola col ragazzo, il quale, a sua volta, prova il ‘naturale’ bisogno di fuggire verso l’ignoto, di scoprire cose nuove (il ragazzo, di contro al vecchio, “scopre ogni giorno qualcosa”).
Il vecchio è insomma proposto come simbolo di consapevolezza, di responsabilità, emblema del logos che a queste è legato, in una inevitabile ed irrimediabile perdita della originaria e quindi ‘mitica’ vitalità, qui incarnata dal giovane Ulisse e simboleggiata dalle sue fughe irresponsabili.
La disponibilità del ragazzo nei confronti della realtà sta anche nei suoi ritorni, i quali rimandano – come spesso è il ritorno in Pavese – alla stessa disponibilità verso quell’origine vitale che necessariamente si perde con la maturità.

Qualche indicazione, ora, di letture pavesiane utili ad inquadrare con maggiore precisione il tema espresso in Ulisse. Non dovrebbero mancare, credo, sul nostro tavolo di lavoro, gli scritti di riflessione sul mito e di stampo antropologico come Stato di grazia (da Feria d’agosto ) [15] e due tra i Dialoghi con Leucò, cioè L’isola (dialogo tra Odisseo e Calipso) e Le streghe (dialogo tra Circe e Leucotea) [16].

L’Ulisse di Saba uscì con Mediterranee nel 1946 [17] ed appartiene alla fase di avvicinamento, da parte del poeta triestino, a certi modi per così dire ungarettiani e montaliani i quali si discostavano, quindi, da quelli narrativi, più ‘concretamente’ autobiografici e quotidiani, a lui consoni.
La presenza di una figura mitologica come Ulisse, in Mediterranee, non è unica. Altri personaggi del mito riemergono nella raccolta, tutti utilizzati in funzione simbolica, in un intreccio con l’elemento autobiografico tipico dell’intero Saba e che anche in Ulisse non manca. Il viaggio dell’eroe è accostato all’esistenza dell’autore nella dimensione del passaggio temporale tra uno ‘ieri’ e un ‘oggi’: l’Ulisse di ieri veleggiava vicino alla costa della vita, cercando di scoprirne il significato, ma era continuamente risospinto verso il largo dai venti. Oggi (un oggi che si incontra spesso in Mediterranee, le quali rappresentano non a caso, in qualche modo, un punto di arrivo dell’uomo e del poeta Saba) il protagonista della lirica ha compreso che proprio quella “terra di nessuno”, cioè il mare, l’ignoto, è “il suo regno”, e che il suo “non domato spirito” e il “doloroso amore per la vita” lo tengono ancora distante da quel porto, sicuro lume per altri, non per lui.
Intessuto nell’endecasillabo tradizionale, il mito non subisce la deformazione prodotta, in altri casi coevi, dalla ‘cultura della crisi’. L’incontro con questa classicità resta ‘prudente’, se per ‘prudenza’ intendiamo la ferma intenzione di ridisegnare una interpretazione del mito in chiave autobiografica, all’insegna, ancora una volta, della chiarezza e della leggibilità.

Vorrei citare a questo punto esempi tra i più conosciuti – ma pescati quasi a caso dalla mia memoria – di utilizzazione del mito di Ulisse nel corso del Novecento in Italia, accanto agli indimenticabili capolavori stranieri della metafora della esistenza umana; quelli, cioè, che lo hanno riproposto in quanto paradosso (come nel brevissimo racconto de Il silenzio delle sirene di Kafka, in cui le sirene restano mute, mentre l’eroe è convinto che cantino); in quanto gioiosa affermazione del proprio spirito di avventura (come nella stupenda Itaca di Kavafis, dove il porto sicuro è tale solo se si è raggiunta la libertà dai mostri interiori); in quanto magma di desolanti situazioni quotidiane (come nell’Ulisse di Joyce); in quanto esperienza totalizzante di aspirazione alla salvezza (come nei Cantos di Pound).
Da queste ultime fondamentali premesse sono uscite realtà intrinsecamente novecentesche come è avvenuto per l’arte cinematografica, di cui 2001 Odissea nello spazio è forse l’apice, nella visione scettica della ‘scoperta’ come fallimento; ma anche, in modo più ‘esclusivo’, nella musica contemporanea: Luigi Dallapiccola si è occupato a lungo dell’eroe omerico, fino ad arrivare al riadattamento – che fu la sua ultima opera teatrale – de Il ritorno di Ulisse in patria di Monteverdi – Ulisse, appunto – nella quale l’indagine dell’esperienza umana si incentra sul desiderio del ritorno alla natura primigenia.
Vengo, ora, quindi, come dicevo, alla letteratura italiana, tornando indietro e ai dintorni del nucleo poetico trattato, a cominciare dal teatro, per poi terminare con qualche parola sulla stradordinaria rievocazione di Se questo è un uomo di Primo Levi.

Il teatro italiano dei primi anni trenta, nel campo, si è molto concentrato sulla demitizzazione di Ulisse. Il mito, infatti, sale sul palcoscenico con insistenza, ma, si potrebbe dire, già sconfitto.
Pirandello, in U Ciclopi, rifacimento del 1919 del Ciclope di Euripide, usa il dialetto siciliano, dando alle avventure tra Ulisse e Polifemo una vena popolare del tutto demistificatoria.
La tela di Penelope (1923) di Raffaele Calzini tratta del ritorno deludente – perché nessuno mostra di averlo desiderato – di Ulisse ad Itaca. L’eroe preferisce pertanto ripartire per le Colonne d’Ercole.
Capitano Ulisse (1925) di Alberto Savinio offre vari riferimenti alla vita contemporanea borghese, per esempio nella figura di un Telemaco che suona il pianoforte. Qui Ulisse è un eroe solitario e fallito [18].

Se questo è un uomo, romanzo-documento scritto per l’unica urgenza di testimoniare, dà al capitolo “Il canto di Ulisse” la forza della singolarità di tale esperienza di lavoro di scrittura, le cui ragioni l’autore evidenzia in appendice.
Leggere “Il canto di Ulisse” è comprendere il carattere spontaneo, non meditato da esigenze cosiddette letterarie, del ricordo del mito; è comprendere il sentimento dell’autorità della tradizione (il canto dell’Inferno di cui si tenta di ricordare a memoria i versi); è comprendere il valore del recupero del significato del mito di Ulisse in quel canto; è comprendere l’esperienza culturale come esperienza umana e il suo dono come dono di sé, e quindi espressione fondamentale di solidarietà, di munificenza.
Tutto ciò rende questo incontro un unicum, e forse il momento più alto, dal punto di vista letterario, tra gli esempi riportati in questo mio scritto.

_________________________

[1] Ho tenuto presente la seguente edizione: G. Pascoli, Poemi conviviali, Bologna, Zanichelli, 1928.
[2] Dal canto Il timone.
[3] Idem.
[4] Dal canto La gloria.
[5] Dal canto Le Sirene.
[6] Dal canto Il vero.
[7] Ho tenuto presente la seguente edizione: G. d’Annunzio, Laudi, Milano, Treves, 1922.
[8] Per questa considerazione ho tenuto conto di quanto afferma Mario Praz in La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Firenze, Sansoni, 1988, p. 389.
[9] Idem, pp.404 – 405.
[10] Cesare Pavese, Lavorare stanca, Eiunadi, 1943.
[11] Cfr la prosa scritta dallo stesso autore e posta in appendice all’edizione einaudiana di Lavorare stanca, Il mestiere di poeta. Pavese prediligeva il verso di tredici sillabe.
[12] Cesare Pavese, Lavorare stanca, Solaria, 1936.
[13] Cesare Pavese, Lavorare stanca, Einaudi, 1943, pp. 137-138.
[14] Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, Einaudi, 2000, p. 353.
[15] Cesare Pavese, Feria d’agosto, Einaudi, 1982. In Stato di grazia, l’autore affronta il rapporto tra mythos e logos, vale a dire quello tra la “prima volta” al cui ritorno, per destino (e questo è termine caro a Pavese) l’uomo anela – e di cui il ricordo ne è anche tentativo – e la “seconda volta”, che solo ci è concesso di rivivere.
[16] Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, Einaudi, 1973. Entrambi i dialoghi individuano ancora nel tema del destino il nodo dell’impossibile recupero della realtà primigenia.
[17] Io consulto l’edizione de Il canzoniere, Einaudi, 2014.
[18] L’edizione del 1989 di Adelphi di Capitano Ulisse è corredata di cinque disegni del fratello Giorgio de Chirico.
Notare, a riguardo, l’immagine posta qui in esergo, che ritrae l’opera dello stesso de Chirico,
Il ritorno di Ulisse (1968): nulla di più demistificatorio di un eroe vestito con la tunica greca che rema su una barchetta e su un minuscolo mare-tappeto, dentro il salotto borghese di una casa moderna.

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