“Un fiore scamosciato urge nascere”. Da Amelia Rosselli

Il massimo tributo intellettuale io lo devo agli artisti la cui genialità esiste loro malgrado. Sono artisti che con ogni probabilità avrebbero fatto volentieri a meno del loro genio, se solo avessero potuto liberarsi di ciò che inequivocabilmente lo ha generato: quell’esistere estremo, totale, nell’assunzione di una sofferenza che non può confondersi mai col melenso, e che mai potrà essere lamentosa.

Artisti come van Gogh e Amelia Rosselli non hanno finto la loro follia, non hanno giocato ad essere folli. E questo è il più alto compiersi della giustizia su questo mondo: la loro serietà nella pazzia, avendoli elevati nel loro essere umani, lo ha fatto anche nel loro essere artisti.

Se la nostra società non lo sa, ed approcciamo viceversa queste fatali presenze in certi vissuti –  quando ne veniamo casualmente a conoscenza – come i segni caricaturali che solleticano le nostre curiosità beduine ed eccitano il ridicolo orgoglio di sentirci colti, dal momento che la nostra società non lo sa, dicevo, agisce all’opposto di quello che accadeva in ben altre epoche e in ben altri mondi. Il mondo classico ci è lontano anche nel suo considerare la mania come il segno, da venerare, del dio.

Amelia Rosselli mi strugge nella stessa misura in cui ne colgo la grandezza poetica, quella del suo verso scomposto, che aderisce in modo sorprendente alla mente scarnificata, mentre finisce col piegare l’incerto italiano di una madrelingua inglese all’ideale italiano di una poesia ineluttabile.

E quei suoi amori non vissuti, infine, non realizzati, sognati, immaginati e solo per questo resi concreti, sono nient’altro che la piega venuta a sorpresa, non del tutto stirata, non del tutto voluta, della solitudine. Rosselli si alimentava del sogno dell’amore convivendo con le voci della solitudine. Erano voci minacciose di spie e sto parlando delle spie che minacciano il peggio, sempre, ad ogni istante e senza tregua.

Alla sua incomprensibile follia io devo la comprensione non solo dei suoi (stupendi)  versi, ma anche della mia stessa solitudine, e di quella universale. Rosselli finiva per parlare, infatti, suo malgrado, dell’universale desiderio d’amore, di noi umani, folli, veri o fasulli, sani, veri o fasulli.

Quest’anno ho letto due libri che parlano di Amelia Rosselli: Miss Rosselli, di Renzo Paris e Sogni e favole di Emanuele Trevi. Li consiglio entrambi.

Quindi trascrivo una sua poesia, tratta da Serie ospedaliera. 1963-1965 (1). Buona lettura.

Tutte le porte chiuse: ma ti vedo, arraffare
una sorte per me; è il mio sognare che tu apri
le porte. Poi non ti vedo affatto: mi sveglio
tenendo la tua buona causa fra le mani, un
fiore scamosciato urge nascere. Morte e solipsismo
invece, arricchiti dal tuo ricordarmi, errano
per la pianura bionda, essendo veramente un
sogno il tuo dirmi che tu sei qua con me.

Son rinata? Pascio nell’erba? Invece tu fuori
d’ogni causa brutale non appari e le sinistre
foreste sono solo per me. Anima ricorda e s’aumenta
corpo si lamenta. Forse hai dato per la vita
mia un propulsare invano. Son ben lontana dall’averti
migliorarmi tra le mani.

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(1) Amelia Rosselli, Le poesie, Garzanti, 2004, pag. 426.

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