Si fanno progetti in città

Herbarium è un opera d’arte muraria curata da Tellas. Frutto del SPACE Tor Pignattara, il progetto curato da Wunderkammern, Melting Pro ed Ecomouseo Casilino (dal sito www.ecomuseocasilino.it)

“Quando sento parlare di periferia, di rivalutare la periferia, quasi subito sento puzza di bruciato, mi fa lo stesso effetto di chi insiste senza motivo a tessere le lodi di qualcosa di cui in realtà non finisce per far altro che marcare l’inferiorità. Mi viene in mente questa considerazione banale, la stessa che con meno sciatteria fa anche Rem Koolhaas nel suo Junkspace – rivalutare la ‘periferia’ vuol dire continuare a legittimare la posizione dominante del ‘centro’ – quando chiedo ai ragazzini che incontro per strada qui, a Boccea, che cos’è il loro quartiere, qual è la loro piazza, dove è il loro luogo dove sono cresciuti. Perché, dopo averci pensato un po’, dopo essersi guardati intorno come se all’improvviso si ricordassero dov’è che sono capitati, questi spilungoni con le felpe enormi mi rispondono sempre indicandomi un punto verso il centro: là. Via di Boccea (la via con tutti i negozi). Oppure la fermata della metro. Oppure la sala giochi «che però bisogna almeno arrivare a Pineta Sacchetti». Sempre qualcosa che li faccia pensare a un altrove. Il posto dove stanno, sono vissuti, abitano, è chiaramente insufficiente.”

Così inizia un articolo, ormai vecchio ma ancora più che attuale, scritto da Christian Raimo per “la Repubblica” del 22 novembre 2007 (Boccea, pomeridiana bellezza di una casa dove tornare).
Mi piace questa impostazione. Tanto più che lui prosegue con un concetto bello, che gli fa descrivere una periferia la quale, alla fine, nel suo nulla, ha un che di “familiare”, e che gli fa pensare ad un “ritorno a casa”.
Boccea è una via lunghissima, per cui stento a capire di quale parte si tratti.  Quella che si trova parecchio al di qua del raccordo anulare, il quale è punto di riferimento ormai sicuro per dare misura alla franca espansione di questa immensa città, sta ad un tiro di schioppo dal luogo dove sono nata e cresciuta, e, devo dirlo, ormai non è più neanche davvero periferia. Ma ad ogni modo, qui, forse, nonostante quel tutto che miseramente salta agli occhi a chiunque ci passi, è vero, c’è qualcosa che assomiglia ad un ritorno a casa.
Ma cosa accade più lontano, quando davvero a far segno col mento a un punto indefinibile ‘verso il centro’, sembra che ancora in effetti si stia dicendo: “Lì, a Roma.”, come accadeva sessant’anni fa? Quando a parlar bene delle periferie ci si riferisce ai mostri della città contemporanea, quelli che fanno paura anche solo a passeggiarci virtualmente con Google Maps perché non hai il coraggio di andarci davvero, non è forse vero che si sente tra i denti un po’ il sapore della propria ineludibile ipocrisia? Quando parli bene della periferia, quella che retroattivamente ti sgomenta, sentendola ormai parte del nostro passato, e ti chiedi come la Storia abbia ancora una volta così clamorosamrnte fallito, spesso finisci per strabuzzare incoerentemente ancora di più i tuoi stessi occhi. Che significato credibile puoi dare ai casermoni che massacrano lo spazio umano? Quelli ad esempio che facevano restare Ninetto Davoli quasi afasico mentre, guardando le gigantesche entità grigie che incombevano sullo sfondo di un desolato prato, in un’immagine del documentario A proposito di Roma (Egidio Eronico, 1987), sapeva solo balbettare la stessa litania: “Ma questa che è… Roma? No, no…”…
Ho scoperto da ragazza, da sola e mio malgrado, tutto questo, e so che non mi ci abituerò mai.
Ma affiora anche un pensiero, o vorrei più che altro che affiorasse, che nasce innanzitutto  dal fatto che evidentemente Roma è Roma, come sempre con banalità si dice. Ti viene miracolosamente lo sfizio di immaginare, a proposito della ferita definitiva, che sia auspicabile non la ‘riqualificazione’ snob che conferma la superiorità del centro, ma qualcosa, una specie di carezza, che sta però molto vicino a quella stessa violenza. Che ci sia insomma un concreto rimedio morale ‘dal basso’ alla bruttezza, e non solo alla bruttezza della squallida e lontanissima periferia piena di palazzoni, ma anche a quella di tutta intera questa superficie urbana così slabbrata, perduta, di cui tutti parlano e da cui non si sottrae lo stesso centro, così turistico e fasullo e a cui solo una pandemia è riuscita a cambiare un po’ di faccia. Questa idea così dolce sembra combaciare con lo strano fermento che ha fatto dire per esempio a Claudio Morici (che peraltro non mi piace, ma tant’è), in una recente intervista su radio 3, più o meno così: “Roma è bella quando è out“.
Mi ha fatto riflettere, perché credo Morici si riferisse perfettamente a quella cosa che mi sta molto a cuore, cioè a quella strenua ed evidente lotta, da parte dei romani, per il “ritorno a casa”. Un concetto che alla fine non mi pare altra cosa da ciò che semplicemente è definibile come il ‘fare cultura’, se si parla della vita di una città. E mi stava molto a cuore da molto prima del covid, quando non si faceva altro che esaltare le ‘iniziative’ milanesi di contro allo sfacelo romano. Quell’out di Morici, insomma.
Allora leggo più volentieri, quasi scevra dal sospetto spiegato dall’incipit di Raimo, un articolo come quello di Carlo Piano, uscito su “la Repubblica” del 16 dicembre scorso, Libertà è partecipazione. La lezione delle periferie,  nel quale si afferma che il verso di Gaber ripreso nel titolo esprime al meglio il senso di solidarietà che si respira nelle periferie, soprattutto in questi tempi di pandemia. E si portano a riguardo gli esempi del Giambellino a Milano e di Corviale a Roma. “Siamo in quella zona grigia e indefinita che, troppo spesso, viene definita con aggettivi denigranti”, dice Piano. Eppure, secondo lui, il covid ha stimolato nuovi progetti in città.
Non sono in grado di condividere questa tesi nel reale senso della parola, anche perché non vivo più in città, ma ribadisco che mi sforzo di credere anche io nella rinnovata energia delle periferie, non quella esaltata dalla distanza e dall’alto del comodo, ma quella vista con ottica quasi invidiosa da chi, abitando in una periferia borghese, ne è rimasto ingessato, impossibilitato a vivere pienamente la propria città, centrale o perfierica che sia, e non si diverte, mentre da qualche parte, in città e in mezzo al cememto, crescono fiori.
Non so bene da quando, non mi sono mai documentata a riguardo, ma presumo già da qualche tempo prima del covid, Roma, almeno, la quale si dava continuamente per spacciata nel confronto poco interessante con Milano, ha davvero accresciuto, a quanto pare, insieme ai problemi, la smania di riscatto di tanti luoghi marginali della sua immensa marginalità.
Piano parla quindi del Corviale, sul quale, qualche tempo fa, ho scoperto in effetti belle iniziative per renderlo vivo, io che, solo a vederlo, non posso allontanare da me l’istintivo desiderio che venga abbattuto – come aveva suggerito Fuksas – cosciente delle problematiche che si impongono dietro a scelte del genere, ma anche dell’orrore per nulla scalfito che mi suscita la sua visione. Ecomostro? Troppo poco. È il principe di tutti gli ecomostri, edificato su una collina bellissima, nei pressi di quartieri umani, sì, direi belli, come purtroppo spesso qui accade (non so se anche in altre città). Ma tutto il paesano di Roma (anche di questo parla Ninetto nella scena del documentario citato) e poi il suo verde traumatizzato dai dodici piani in altezza e dal chilometro in lunghezza, non essendo esteticamente riscattati, essendo quindi ormai assolutamente perduti, hanno comunque permesso, pare proprio che sia così, ebbene sì, un ritorno a casa. Serpeggia una giusta e feconda rabbia in certe periferie romane.
Devo dire che soprattutto la città popolare del versante sud di Roma mi pare più arrabbiata, più vogliosa, più creativa delle altre zone periferiche rispetto al mummificato centro storico, al quale, semmai, sporadicamente, approdano progetti concepiti in periferia, a rivitalizzare almeno un piccolo squarcio della nebbia mortifera che ha confezionato, impacchettato quel passato televisivo di cui parlò Tomaso Montanari (in Istruzioni per l’uso del futuro. Il patrimonio  culturale e la democrazia che verrà, minimum fax, 2014).
Ma, a proposito dell’eredità incredibile che rende Roma città unica al mondo, perché anche di quello si dovrà pur parlare, essa conserva innanzitutto quello che per me è un passato sul serio glorioso, quello cioè in cui gli uomini hanno a loro volta tentato di comprendere il senso del loro passato, la sua naturale funzione per il nostro essere umani.
Questo si avvicina, credo, molto alla tesi di Montanari riguardo al nostro rapporto con i nostri antenati. “L’esperienza diretta di un brano qualunque del patrimonio storico e artistico” – scrive – ” non ci offre una tesi, una visione stabilita, una facile formula di intrattenimento (immancabilmente zeppa di errori grossolani), ma ci mette di fronte a un palinsesto discontinuo, pieno di vuoti e di frammenti: il patrimonio infatti è anche un luogo di assenza, e la storia dell’arte ci mette di fronte a un passato irrimediabilmente perduto, diverso, altro da noi.
Il passato ‘televisivo’, che ci viene somministrato come attraverso un imbuto, è rassicurante, divertente, finalistico. Ci sazia, e ci fa sentire l’ultimo e migliore anello di una evoluzione progressiva che tende alla felicità. Il passato che possiamo conoscere attraverso l’esperienza diretta del tessuto monumentale italiano ci induce invece a cercare ancora, a non essere soddisfatti di noi stessi, a diventare meno ignoranti. E relativizza la nostra onnnipotenza, mettendoci di fronte al fatto che non siamo eterni, e che saremo giudicati dalle generazioni future.”.
Coloro che compresero questa fondamentale lezione raggiunsero l’apice, mi sembra, ai tempi della città ideale, in un Rinascimento che, oltre a produrre i capolavori che conosciamo, ha assecondato virtuosamente la spinta originata dalla stessa temperie che ha prodotto la stupenda tavoletta di Urbino. Se le nostre città, se Roma conserva dagli antichi fino ai loro più intelligenti emuli, cioè appunto gli uomini del Rinascimento, e ancora oltre, a causa della forza di quella energia troppo viva per esaurirsi in fretta, nel ‘600 e nel ‘700 di sicuro, questo fatto può restare, immagino, in qualche modo vivo in mezzo alle brutture di oggi, sotto forma di nostalgia o di sogno o, in modo più interessante, di fervore, inquietudine, eccitazione, rabbia.
Enzo Scandurra ne “il manifesto” del 16 dicembre scorso, recensisce l’ultimo libro di Walter Tocci Roma come se. Alla ricerca del futuro per la capitale (Donzelli, 2020), nel quale l’autore “torna ai temi a lui cari con un valore aggiunto rispetto ai precedenti, ovvero la domanda su come Roma saprà, o potrà, rielaborare l’eredità storica che tanti al mondo le invidiano: «come utilizzare le formidabili opportunità che possiede considerato che di queste se ne osservano, al momento, solo gli aspetti negativi legati al collasso dell’amministrazione pubblica?». Innescando un dibattito pubblico che nella capitale manca da anni, forse dai tempi di Petroselli, anche se associazioni e gruppi (che a Roma non mancano) tentano inutilmente di aprirlo con una amministrazione cieca e sorda.”.
Continua Scandurra: “C’è una frase di Flaiano, come sempre icastica, che dice: «Eravamo così sfiduciosi nel futuro che ci siamo messi a progettare il passato». Riecheggia Benjamin, per il quale l’unico cambiamento possibile è quello del passato poiché esso (il passato) non è mai morto e manda segnali su come altri percorsi interrotti sarebbero stati possibili. Tocci parla infatti di percorsi interrotti: «Il cozzo delle idee», come sosteneva Quintino Sella, inteso come luogo internazionale del confronto dei saperi moderni e della ricerca scientifica, o la rinascita dell’Agro, nel tempo saccheggiato e sfigurato.
E da questi sentieri interrotti c’è forse la via d’uscita dalla crisi della città coloniale: un cambiamento di paradigma: «Se la capitale otto-novecentesca è stata generata dalla coppia nazione-città, la capitale del nuovo secolo troverà le sue opportunità nella coppia mondo-regione», intesa «come un insieme di relazioni orizzontali, di natura sociale e culturale, nell’economia endogena e creativa».”.
Gioisco quando mi viene confermato in qualche modo che non esistono solo le amministrazioni, che insomma c’è altro, a incidere e a contare, e che questo altro non è necessariamente il ribellismo ai poteri esecutivi, a volte solo meschino e pericoloso, e alla cui capacità/possibilità da tempo ormai non credo più, anche se da altrettanto tempo non mi faccio illusioni neanche sulla ‘bontà’ dell’uomo qualunque. Ma riguardo alle persone non voglio smettere di concedermi l’ipotesi di stupirmi. Spero nelle eccezioni che dilagano, fino a diventare fenomeno diffuso. Voglio ancora credere nelle persone, senza le spinte, che rifiuto, della retorica.
È una fortuna, ad esempio, che a Roma ci siano i romani: avrei mai formulato una frase del genere, fino a pochi, pochissimi anni fa? Forse era necessario fuggire, per poter rievocare la città quasi solo attraverso la nostalgia. Sarà quella, non so, o un attaccamento ancestrale (perché sto benissimo dove sto e non ho alcuna intenzione di tornare) che mi spinge con sempre maggiore entusiasmo ad interessarmi della mia città. Credo sia più che altro quel sentimento del passato di cui parla Montanari.
E nelle mie scorribande forsennate ad assecondare quello e simili sentimenti mi imbatto un giorno in un sito bellissimo. A dispetto della follia che ha innalzato in mezzo ai prati cosparsi delle casette rustiche e delle povere borgate (a volte anche – lo ammetto – orribili), gigantesche, altissime torri ad oscurare il cielo di grigio cemento – migliaia di finestre una uguale a l’altra a rendere brutta, soltanto brutta, la più bella periferia – e che ha ammesso nell’ordine delle cose la grottesca convivenza tra entità non in scala con l’ambiente e gli elementi che naturalmente lo popolavano, vengono, strada per strada, salvati alcuni di quei borghetti; sono abbelliti quei luoghi con le piccole cose in onore delle quali ho scritto finora tutto questo, riportando lunghe citazioni. Per arrivare, cioè, ad una cosa ancora più piccola, una margheritina alla Marcovaldo, la pagina davvero bella di quel sito che si chiama “www.ecomuseocasilino.it”. È a proposito di ciò che ho intitolato il mio post Si fanno progetti in città.
Riporto (e così finisco) la pagina, intitolata Turismo e sviluppo locale, senza altre parole se non queste: quando si fanno progetti in città, questo tipo di progetti, anche la Roma corrosa e abbandonata è una casa a cui tornare; si ritorna, insomma, spero, alla ‘mamma’ di un tempo.

TURISMO E SVILUPPO LOCALE

Valorizzare le risorse di Roma e del V Municipio in chiave turistica è il veicolo per creare una economia sobria e duratura in grado di sviluppare opportunità occupazionali e benessere per i cittadini. Per questi aspetti, tra i documenti programmatici di riferimento per l’Ecomuseo, si può senz’altro annoverare il progetto interregionale “Via Francigena – una nuova offerta turistica italiana”, già finanziato dal Ministero dello Sviluppo Economico e realizzato nel 2005 dalla Regione Lazio congiuntamente con le altre regioni attraversate dalla Via Francigena.
Tra gli obiettivi di sviluppo dell’Ecomuseo è possibile individuare:
• la valorizzazione delle risorse culturali storiche ed archeologiche per creare valore aggiunto per il territorio, la rete dei commercianti, dei servizi di accoglienza, per promuovere l’imprenditoria locale e l’occupazione, per migliorare i servizi ed il decoro urbano;
• immaginare il Comprensorio Casilino ed il settore sud-est di Roma quale punto di approdo per i turisti che intendono soggiornare a Roma, integrando in un percorso archeologico le risorse di Villa dei Gordiani e del Mausoleo di Sant’Elena e rendendo le Catacombe dei Santi Marcellino e Pietro un appuntamento imperdibile sia per il turista straniero che per quello domestico.
Il turista ecomuseale non è semplicemente un persona di passaggio, ma un residente temporaneo. Ispirandoci a quanto indica chiaramente Hugues de Varine in molti suoi scritti, l’ecomuseo non può essere turistico in senso stretto. Il turismo deve essere una vocazione prodotta dalla comunità come specifica richiesta. Ma allo stesso tempo, aggiungiamo noi, il turista non può essere semplicemente un “passeggiatore del territorio”, ma deve diventarne anche se transitoriamente parte. In tal senso oltre alle forme standard di inclusione turistica, l’ecomuseo deve farsi portavoce di una visione che incoraggi:
• la condivisione dell’esperienza del residente temporaneo nel tessuto ecomuseale stesso; il suo punto di vista può e deve diventare foriero di arricchimento ed esso stesso può diventare parte del paesaggio ecomuseale attraverso le sue percezioni, storie e narrazioni;
• la ripetizione della visita, trasformando il turista in viaggiatore che torna nei territori ecomuseali per moltiplicare l’esperienza e il contributo alla sua crescita;
• la residenza lunga, anche a scopo lavorativo, sia essa per ricerca, per piacere, per avvio di un’attività produttiva possibilmente declinata in ottica circolare e collaborativa;
• la partecipazione attiva alla vita della comunità attraverso l’inclusione in percorsi di conoscenza reciproca, gemellaggio, scambio di residenza
• modalità di visita, fruizione, viaggio, consumo sostenibile, lento, responsabile.

Servizi per il Comprensorio

I servizi che dovranno essere attivati sul territorio sono ispirati alla triangolazione sostenibilità, socializzazione, condivisione. È auspicabile la creazione di servizi (oltre quelli ricettivi) che rendano fruibili le risorse ecomuseali. L’Ecomuseo, da istituzione del/sul territorio diventa realtà che eroga servizi nel/dal territorio, creando così un sistema di fornitura in grado di generare valore aggiunto immateriale (qualità della vita e socialità) e valore aggiunto materiale (microeconomia territoriale, ristorazione, ricettività). Tra i servizi proposti per mettere in connessione i servizi ecomuseali ed il patrimonio culturale ed ambientale, si evidenziano quelli legati alla ciclabilità ed al trasporto sostenibile, i servizi sportivi e ricreativi, di ristorazione e degustazione, di informazione e guida turistica. È necessario inoltre far leva sulla creazione di un sistema di agricoltura sociale diffusa (orti urbani, sociali, fattorie didattiche) che fornisca beni e servizi, con l’obiettivo di produrre a km0 almeno la metà del fabbisogno dei servizi di ristorazione ed accoglienza ed avviare percorsi di formazione ed avvicinamento all’arte agricola.
Ai fini della condivisione dei saperi, della cittadinanza attiva, del marketing territoriale, della ricerca e didattica sul patrimonio culturale e della promozione di servizi, per l’Ecomuseo Casilino Ad Duas Lauros è in fase di attivazione un network di rete per moltiplicare la visibilità dell’Ecomuseo attraverso strumenti e piattaforme tecnologiche, tra cui la condivisione di materiali nella banca dati Europeana, la geolocalizzazione, i social network ed i blog.

Servizi Ecomuseali

• Il Museo Diffuso: nell’idea di un quartiere aperto ed orientato a ridefinire in termini di rilevanza patrimoniale attività apparentemente quotidiane e marginali rispetto alla retorica dei Beni Culturali, immaginiamo la fruizione gratuita e libera delle preesistenze del passato che giacciono visibili nel Comprensorio;
• La Rete dei casali: Casale Ambrogetti, Casale Mengoni, Casale Rocchi, Casale di Vigna Silenti, Casale Somaini, questi casali potrebbero essere le sedi di attività di formazione professionale, di laboratori e mercatini artigianali;
• Orti Sociali e fattorie didattiche: coltivati da studenti e anziani per favorire la trasmissione intergenerazionale di saperi popolari e locali, per riprendere la coltivazione di specie vegetali un tempo presenti in quei luoghi;
• Il casale delle Culture: un luogo di incontro aperto alla memoria ed alla sperimentazione espressiva. Uno spazio creativo che potrebbe accogliere una mediateca, una biblioteca, una sala di musica e registrazione ed un auditorio, una sala di incontri;
• La Casa della Memoria: uno spazio per raccontare storie di vita per tramandarne l’eredità e arricchire il luogo di racconti. Vi sarebbe un archivio a disposizione. La stretta connessione con le attività teatrali di quartiere favorirebbe un positivo interscambio.

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