Perché ci ostiniamo, con la bellezza

                                                       Roma. Lapide a Porta S. Paolo

 

Un romanzo di Attilio Coco.

A volte è inaspettato il classicismo di certa letteratura, per cui leggi e ami passi che per anni, per decenni ancora non ti avevano svelato la loro classica verità e poi, ad un tratto, la sorpresa scaturisce dalla scoperta improvvisa ed enigmatica di ciò che puoi attribuire a quello che già conoscevi e amavi, cioè a quello che c’era già da prima e al quale un risultato venuto dopo doveva in ogni modo legare. E l’emozionante in tutto ciò è che quel risultato così ‘legato’, proprio quello che non ti aspettavi di aspettarti, ti ripiega alla constatazione ineluttabile di quanto esso sia alla portata di tutti noi altri, di noi poveri umani, ti riporta cioè alla origine di tutte le origini, a quella potentissima familiarità che c’è nella bellezza.
Mi dispiace a dismisura, viceversa, trovare una ‘sovrabbondanza’, nella poca narrativa italiana contemporanea che leggo, che si illude perciò di poter fare a meno del confronto col lavorio del passato. Non apprezzo questi autori forsennati o totalmente abbandonati al loro uso di effetti ‘pop’. Quel dimenarsi, anche di quelli cui viene facile la scrittura (soprattutto di quelli), o quel drenarsi dall’ansia, mi pare così goffo che ormai mi ritrovo ad apprezzare, in uno scrittore letterario di oggi, innanzitutto ciò che non c’è, ciò di cui non c’è proprio bisogno, per dire delle cose[1].
Non parlo certo dello scrittore che in qualche modo si castra, si risparmia, si sottrae al gioco, perché non è questo il punto, bensì lo è il cercarle, le cose, il puntare su di esse senza tante storie, anzi senza alcuna storia, se non quella di raccontarla, una storia, ma con tutto ciò che di davvero impellente ne implica [2], cioè, non un qualcosa al quale si chieda di ‘funzionare’, ma che pretenda di possedere la stessa forza dalla quale scaturiscano le idee, i ragionamenti.
E’ così difficile, oggi, non chiedersi di poter funzionare, per uno scrittore narrativo, al monte di tutto, cioè come se scrivesse metafisicamente davvero solo per se stesso, perché il grande problema del narratore di oggi è proprio quello, funzionare soprattutto davanti a se stesso. E’ come se a molti, troppi narratori italiani contemporanei che ho letto mancasse quella fermezza di chi sa. Non di chi sa quello che fa, no: proprio e soltanto di chi sa.
E’ innanzitutto una questione di stile, per ovvi motivi, visto che lo stile nasce dalle cose e quella che ho chiamato “la fermezza di chi sa” nasce appunto dalle cose. Lo stile esiste perché esiste una lingua, il mezzo con cui si racconta. Sarebbe sciocco se io leggessi la mia perplessità riguardo allo stile come una richiesta di una sorta di ‘purezza’, come un esigere la caduta del cosiddetto orpello per ottenere magicamente il risultato della bella scrittura di chi è capace di raccontare tante belle cose rimanendo fedele all’atticismo. Saremmo in molti, i bravi scrittori che non siamo e molto probabilmente non saremo mai.
Quando dico di puntare alle cose per come stanno, innesto il mio discorso a quello che riguarda la classicità, cosa è stato cioè confrontarsi coi classici, fino a quando è durata.

Chiamo qui in aiuto un brano che mi sembra davvero persuasivo riguardo al discorso che desidero costruire. E’ tratto da un saggio recente di Albero Asor Rosa, che si è proposto di rinnovare il bilancio che aveva redatto nel 1965 con Scrittori e popolo. Di lì poi passerò ad un secondo brano, che a questo rimanda.

“[…] non vi è dubbio che i cinquant’anni trascorsi abbiano cambiato radicalmente le strutture primarie del sapere, della conoscenza e della creazione artistica  e letteraria. Son venuti meno i capisaldi di quello che, in altri tempi, si sarebbe definito un sistema democratico-culturale fondato sul moderno. Alcuni esempi.
E’ venuta meno, innanzi tutto, una ‘società letteraria’ degna di questo nome. Intellettuale e scrittori navigano a vista, depositando ognuno il proprio tassello, faticosamente pensato, nell’immenso mosaico della produzione culturale, artistica e letteraria, la quale, almeno apparentemente, ‘si fa da sé’.
La fine della ‘ società letteraria’  comporta necessariamente la fine della ‘tradizione letteraria’, ossia di quello strumento della elaborazione intellettuale  che richiede, sempre e necessariamente, un rapporto con il passato. Altrove [in La letteratura della nazione] ho definito tre nostri grandi scrittori – Fortini, Pasolini, Calvino – ‘gli ultimi classici'”. Intendevo che essi, in pieno Novecento, fossero altamente rappresentativi di una tendenza letteraria addirittura plurisecolare, e cioè l’idea,  la persuasione, che in letteratura e nelle arti, come del resto in ogni altra attività mentale umana, per partire in una qualsiasi, nuova direzione, sia necessario guardare innanzitutto al passato, ripensarlo e superarlo, ma mai ignorarlo. La ‘novità’ oggi, nella grande maggioranza dei casi, consiste nel pensare il ‘nuovo’ come sciolto da qualsiasi debito con il passato, mentre il vero ‘nuovo’ […], secondo i vecchi criteri, consiste sempre nel pagare il proprio debito al passato. La cosa è sensibile, più che in campo tematico, in campo linguistico e stilistico. Non c’è lingua, non c’è stile, nella creazione letteraria e artistica, che non nasca dal ripensamento di una lingua e di uno stile di qualcuno che c’era prima.
Siccome questo insieme di rapporti con il presente e con il passato non viene più considerato essenziale all’elaborazione creativa dei letterati, viene meno conseguentemente anche la funzione della critica e della teoria letteraria […] le quali, per definizione, servivano a discriminare, valutare e orientare i prodotti  dell’invenzione letteraria e artistica. Che bisogno c’è di critica e di teoria, se i processi combinatori in base ai quali si scrive un libro piuttosto che un altro sono tutti consegnati a dinamiche completamente diverse? Si deve a questo, probabilmente, se alla superfetazione attuale della produzione letteraria […] non corrisponde un analogo fenomeno per la critica e la teoria letteraria. Il vincolo, anche in questo caso secolare, che stringeva i due ordini di fenomeni, si è rotto, suppongo per sempre, e quello dei due che fungeva, a torto o a ragione, da mentore e guida, è precipitato nel vuoto.”[3]

Poco più oltre Asor Rosa metterà sul campo (in nota) forse l’unica citazione possibile, a completare questo discorso, e non posso non farlo anch’io, considerato che, oltretutto, l’importanza di quel riferimento non fu da me riconosciuta soltanto dopo aver letto Asor Rosa, ma parecchio prima, mentre leggevo Qualcosa di scritto, da cui la citazione è tratta. Noto oggi i miei interventi a matita, con le sottolineature e altri segni inequivocabili, proprio su questo passo.

“Finché è durata, la modernità ha convinto tutti di essere eterna. Ogni generazione alzava l’asticella, come un saltatore che si mette alla prova, e trovava la maniera di scavalcarla. Poi, all’improvviso, proprio nel periodo in cui lo scartafaccio di Petrolio aspetta nell’ombra il suo momento, questa prodigiosa macchina si arresta – forse per sempre. Non che la letteratura ‘muoia’, come da più di cent’anni si sperava o si temeva […]. Rimane – ahimé – più viva e vegeta che mai: semmai restringe, una volta per tutte, le sue potenzialità e le sue prerogative […]. Fatto sta che a metà degli anni Ottanta, lo scrittore più significativo della sua epoca è sicuramente Raymond Carver. Artista tutt’altro che modesto, autore di racconti indimenticabili come Cattedrale, Carver rappresenta alla perfezione lo straordinario cambiamento che si è verificato. Nei suoi libri, noi assistiamo allo sconcertante spettacolo di una letteratura che non pensa più nulla. L’unico compito che lo scrittore si assegna è quello di essere uno storyteller. L’unico mondo di cui parla è quello che conosce empiricamente – la porzione di gabbia che gli è toccata in sorte. L’unica sua speranza, è che quelle storie piacciano a un buon numero di lettori. Non è un caso, naturalmente, il fatto che Carver, più di ogni altra influenza letteraria e umana, subì quella del suo editor, il famigerato Gordon Lish. Lish […] è il capostipite di una nuova specie di tecnocrati della scrittura sparsi nei quattro angoli del mondo, ossessionati dall’efficacia, dal funzionare come supremo dovere del prodotto letterario. […] Sarebbe superficiale sostenere che l’editor renda ‘vendibile’ il materiale su cui lavora. […] La sua vocazione segreta è incomparabilmente più metafisica, più luciferina di ogni ingenua brama commerciale. Ciò che l’editor intende fare, è trasformare tutta intera la letteratura in narrativa. […] E dunque, inizia un’epoca in cui l’eccellenza letteraria coincide sempre più con l’abilità ad intrattenere. Lo scrittore: colui che sorvegliato dal suo editor, che è la presenza umana più importante della sua vita, inventa delle trame. Ciò significa che l’emozione fondamentale che si cerca di sottolineare nel lettore è quella del riconoscimento. Come è vero, come mi assomiglia tutto questo! E’ proprio così! Ma perché questo delicato e incerto prodigio psicologico abbia realmente luogo, lo scrittore deve pagare il suo dazio. Deve, a costo del sacrificio di notevoli aspetti della sua vita e del suo carattere, assomigliare il più possibile ai suoi lettori. Essere fatto, come si suol dire, della stessa pasta. […] L’editor: colui che senza sosta lavora allo scopo di rendere omogenei lo scrittore e il suo lettore. Ed ecco esattamente definita la rivoluzione copernicana che rende praticamente illeggibile, nel 1992, quel mostro emerso dal passato che è Petrolio. Il presupposto della scrittura di Pasolini, infatti, e quasi si potrebbe dire il suo metodo fondamentale, è esattamente il fatto che lui, P.P.P., non assomiglia a nessun altro. Nemmeno la Storia, questa infallibile piallatrice, ha smussato l’anomalia in cui consiste. Far sì che un lettore riconosca nelle sue pagine qualcosa di sé e dell’esistenza che lo circonda – questo non gli passa nemmeno per la testa: equivarrebbe, per lui, a un fallimento. Già ai suoi tempi, Pasolini pensò a se stesso come a un sopravvissuto, un isolato, una forza del passato. Ma se fosse tornato in vita nel 1992 assieme al manoscritto di Petrolio, davvero sarebbe stato identico a quel resuscitato di cui parla Dante nel Convivio, che non capisce più la lingua che si parla nella sua città.”[4]

Credo che a questo punto sia chiaro il tipo di conforto che ricevo dalla lettura di qualcuno che a sua volta legge davvero, e sto parlando di Attilio Coco, la cui scrittura non ha avuto bisogno della ricerca di un modo e quindi poi di un quanto, proprio perché appartiene ad uno scrittore che sa a sua volta leggere. Lui l’ha studiato bene quel lavorio del passato, la fatica che ha creato tutta la familiare semplicità della bellezza, la sua indiscutibile evidenza.
E’ questo il motivo per cui l’ eleganza della scrittura di Attilio Coco, vorrei dire, come si diceva una volta, la sua venustà, nel romanzo L’odore della polvere da sparo[5], consiste nell’equilibrio ugualmente fresco e sontuoso della mano libera, nuda, del gesto naturale. Gli arriva la ‘frase facile’, senza dubbio: struttura, vocabolario, ritmo, tutto sottomano senza strappi strategici, tutto pronto sotto le dita. Uno che scrive così è bello immaginarselo che lo faccia a penna, per la prima stesura, oppure, ancor meglio, che usi la tastiera del PC come fosse quella di un pianoforte o di un clavicembalo, come se tutto quel venire tra le dita non fosse dissimile dall’eseguire un’impegnativa musica barocca: se acceleri ove richiesto, ne scaturisce un’ ‘esecuzione’ virtuosa, ma non si tratta di un’abilità applicata, bensì, viceversa, a portata di mano, spandendosi dal suo centro con ineludibile naturalezza. E se invece Attilio usasse la penna come primo strumento della sua scrittura, beh, allora quella penna stessa avrebbe le dita.
Insisto: si comprende molto bene che l’autore de L’odore della polvere da sparo è uno che legge davvero. L’equilibrio di una scrittura che procede senza cadute è quello innanzitutto di chi si è appunto formato sui classici, di chi ne ha una dimestichezza di lunga data. Non importa che io, volendo scrivere – dopo un anno dalla lettura del suo libro – qualcosa che nascesse in qualche modo da quella, glielo avessi appositamente chiesto (senza che lui ovviamente ne conoscesse il motivo, vale a dire parlarne qui): questa eredità è evidente.
Ma che tipo di autore è colui che si è formato con i classici, colui che – per dirla con Asor Rosa – “deve pagare il proprio debito col passato?” Non sono d’accordo con la distinzione che il critico attua tra “campo tematico” e “campo linguistico e stilistico” perché quel “ripensamento di una lingua e di uno stile” di cui parla, confrontandosi col passato, non può secondo me non derivare da un ripensamento sulle ‘cose’, come le ho chiamate io, cioè scaturisce dall’impegno che ogni scrittore vero è costretto a mettere in atto, quello di spingere la propria visione ad un espresso, tradotto in qualsiasi modo, una trama, la lingua, lo stile, le sequenze – chiamiamole per comodità così – riflessive.
Fare i conti con l’autorevolezza del passato, afferrare il testimone, richiede innanzitutto di riconoscerla, quella autorevolezza, ed essa si riconosce nel momento in cui se ne assaggia la portata nelle ‘cose’. Ci si confronta con un ‘pensiero’ (come si diceva a scuola), se si è disposti a pensare. Si pensa, ed inevitabilmente si va a cercare l’autorevolezza. Essa è insediata nel classico. Il quale a sua volta si è manifestato tramite una lingua, uno stile, che – in letteratura – non possono che strutturare il pensiero, le ‘cose’.

Ad un certo punto della storia narrata in L’odore della polvere da sparo – verso la sua fine – viene descritta una donna bella, anzi bellissima, la cui bellezza è tale che fa sentire indifesi. Ciò avviene in una trattoria romana, al quartiere Prati. Di questa bella donna sta parlando una ragazza e lo sta facendo con un uomo, mentre pranzano insieme. L’uomo è il protagonista di tutto il romanzo ed è un attore di teatro. Pochi giorni prima dell’incontro nella trattoria, l’attore ha recitato, ha interpretato il ruolo del principe Myskin, in uno spettacolo tratto da Lidiota di Dostoevskij. E’ quest’uomo, quindi, ad aver pronunciato per primo parole sulla bellezza, e non importa che l’abbia fatto dal palcoscenico nelle vesti de ‘L’idiota’, perché in realtà è stato proprio da lì, su quel palcoscenico e durante lo spettacolo, che si è stabilito il primo vero contatto tra l’attore e la spettatrice, il primo dialogo tra due sconosciuti. Lui in scena ha formulato la frase che risuona spesso nella mente di coloro che hanno letto L’idiota: “E’ difficile giudicare la bellezza; non vi sono ancora preparato: la bellezza è un enigma”.
I due, mentre continuano a mangiare nella trattoria, parlano in qualche modo ancora della bellezza, dopo la descrizione della donna. Ciò avviene soprattutto perché la ragazza pone all’uomo insistenti domande a riguardo. Lui, intanto, ripensa alla propria adolescenza, quando aveva compreso che, la bellezza, avrebbe dovuto imparare a vederla, dovunque quella potesse apparire…

L’idota è il romanzo che più ho amato. Lo lessi parecchi anni fa, dopo Delitto e castigo – il primo  dell’autore russo da me letto – e dichiarai a me stessa senza alcun indugio che non avrei mai più trovato qualcosa di più bello. Dopo L’idiota iniziai e terminai I fratelli Karamazov e, francamente, smentii immediatamente la mia previsione. Ok, mi dissi, li metto a pari merito, ma, oltre questi, no, non è possibile. Avevo diciannove anni. Alcuni anni più tardi fu Guerra e pace a farmi di nuovo vacillare. Ma, ormai adulta, non me la sentii di confrontare due romanzi letti da adolescente con questo, che arrivava dopo tante altre letture e un po’ di vita.
L’idiota, comunque, resta il primo, come fu primo lo sconvolgimento che mi procurò. Ne conservo e ne lascio qui qualche testimonianza, tratta dal mio diario di allora:

“Ma potrò mai credere che esista un principe Myskin? Non potrò certo accontentarmi di saperlo almeno essere stato concepito da spirito umano”.

“Sono molto triste. Finire il romanzo non è stata una cosa indovinata, oggi. Pensavo che mi avrebbe consolato.”

“Lo amo, ma è angoscioso voler la felicità d’una persona necessariamente infelice.”

“Non sono triste per lui se penso che ci sono degli attimi in cui lui ha vissuto il contatto con la Realtà. Ogni suo ricordo di questi momenti in cui è convinto che ogni dolore, anche il più grande, non può cancellare la dignità dell’esistere, è un ricordo gioioso e, nella pazzia e nella sofferenza suprema saprà trovare in sé la forza di un sorriso.”

Essendo ovviamente la “Realtà”, l’enigma risolto di quella bellezza, mi sconvolgeva la mia  prossimità a lui, al principe Myskin, che si traduceva in un amore tanto reale quanto assurdo, cioè nel fatto che volessi concretamente bene ad un personaggio di un romanzo, e si traduceva anche, per questo motivo – nella mia vita molto infelice, nella mia disperazione – nella ricerca della bellezza ‘dovunque quella potesse apparire’ e in quell’esserne, pertanto, ossessionata.
Voglio essere sincera, io la trovavo in me stessa, innanzitutto, quella bellezza, talmente forte e grande da sentirmene indifesa. Credo che me ne sentissi, in realtà, indegna.
Tutto ciò che percepiamo in noi come bellezza resta lì, e nello stesso tempo la nostra insicurezza, se esiste, può non venirne scalfita. Quando accade ciò, non è tanto perché temiamo che quella bellezza non sia riconosciuta dall’altro, in quanto tale sentimento è a valle del problema, ma perché sentiamo di non meritarla. Per questo trovo abbastanza sciocche quelle espressioni “non ti buttare giù!”, “perché ti butti sempre giù?”, di commento a chi sta dichiarando una propria mancanza, un errore. Riconoscere in sé mancanze, ‘difetti’, può essere viceversa un segno di grande sicurezza, di serenità e saggezza di fronte a ciò che siamo, derivate da un sentimento di piena accoglienza della nostra interezza. In realtà la grande sfida di chi prova un senso di indegnità non è accettare il ‘difetto’, ma sostenere la bellezza, quella propria.

La ragazza chiede all’uomo, tra l’altro, se lei stessa sia bella e se, in quel caso, anche la propria bellezza sia un enigma. Esprime, subito dopo, un sentimento che non ha potuto non colpirmi, considerando ciò che ho raccontato: “Mio caro Myskin, ” – dice la ragazza, rivolgendosi all’attore e chiamandolo col nome del personaggio da lui interpretato – “mio dolcissimo Myskin, io ti amo con tutto l’amore di cui sono capace”. E’ insomma la frase che io allora, da adolescente, non avrei potuto pronunciare diversamente.

Attilio Coco parla quindi della bellezza, della bellezza dostoevskijana che salva, e racconta una storia la cui spina dorsale prende avvio dai fatti del ’47 a Potenza (la carica della polizia, durante una manifestazione di contadini, che assassinò due dimostranti e ne ferì parecchi altri), per passare poi agli anni ’50, quando il protagonista si stabilirà a Roma, e poi ancora più avanti, fino alla strage di piazza Fontana, e all’oggi, si può dire.
Ma la storia raccontata in questo romanzo ama, spesso e volentieri, tornare indietro, per poi ricongiungersi con un punto in avanti, a uno dei tanti momenti della storia sociale e politica italiana e non solo, che non si susseguono qui ordinati, ma si intrecciano misteriosamente, tra di loro e anche con quegli stessi ricordi, con quelle scene del passato.
Sono fatti al cui centro penso si trovi la resa di Roma. Si trovi, cioè, quel tentativo disperato ed eroico di difendere la città dall’occupazione nazifascista, all’indomani dell’8 settembre del ’43: la battaglia combattuta fino allo stremo dai civili, dai vari gruppi dei partigiani e dai reparti militari che avevano scelto di difendere la città, e finita con la resa del 10 settembre.
L’ultimo baluardo di quella battaglia era stata Porta San Paolo. Oggi in quel luogo ne è posta la lapide commemorativa, fulcro ideale, io credo, de L’odore della polvere da sparo.
In realtà, se dovessi proprio rintracciare un nodo centrale nella moltitudine di motivi che offre questo libro, potrei affermare che si tratta di un romanzo sulla persistenza del fascismo. Sulla persistenza, quindi, delle brutture. E sulla bellezza che fuoriesce da quelle.

La risposta del personaggio principale alle insistenze della ragazza è anche la risposta dell’autore di questo romanzo, ed è quella che infonde fiducia, perché è fiduciosa, come fiduciosa è la sua scrittura. Una scrittura piena di pazienza. E’ come se essa già sapesse come si evolveranno le cose, le sue stesse cose, quelle della narrazione e quelle del mondo, quello vero, in cui noi stessi siamo incastrati nelle nostre quotidianità.
Ciò è visibile dall’inizio, chiaro, limpido. Le prime pagine, a parte il fatto che sono straordinarie, dicono già che ciò che il narratore ha da dire si evolverà a ondate, a ritorni, ma si evolverà, con quella pazienza che ha a che fare con l’ostinazione. Perché noi, in effetti, non possiamo che essere ostinati, riguardo alla bellezza, come se fosse tutta nostra. Non invenzione nostra, no, quello no… Ma senza altrettanto ritegno, ci ostiniamo, come se volessimo ad ogni costo scorgerla, riconoscerla o capirla solo noi, per un dono da fare, un dono urgente e necessario, per noi stessi e per gli altri. Come se non avessimo modo di verificare che qualcun altro potrebbe assumersi lo stesso compito.
Il dono che già è stato elargito, quello della realtà: è quella l’origine di tutti gli altri passaggi, il testimone che ci affrettiamo ad afferrare, o tentiamo di farlo, per tutta la vita, con ostinazione, per donare la cosa già a noi donata, a noi che l’abbiamo vista per prima. E’ tutta in una continua serie di passaggi e rimandi, la bellezza. La bellezza è davvero nella tradizione.

“Lui e la macchinetta lì, uno vicino all’altro. Soli.
Erano momenti di grande apprensione. Paragonabili a quelli che si trova ad affrontare il solitario ferroviere di una qualunque stazioncina, perduta in chissà quale deserta campagna, ogni volta che da quei paraggi passa un treno diretto in questa o in quella città. Bisogna uscire fuori, di giorno e di notte, con il sole e con la pioggia, col vento e con la neve, con la nebbia e con il gelo e arrivare in tempo per manovrare il maledetto cambio lungo la linea ferrata.
E se una scivolata per un malaccorto passo sul binario, un imprevisto inciampo sulla ghiaia tra le traversine, un semplice giramento di testa non gli consentono di arrivare in tempo all’appuntamento con lo scambio? Quel treno prenderebbe una direzione non prevista e allora chissà a quale avventura potrebbe andare incontro. Per il povero ferroviere della solitaria stazioncina che nelle sue ore libere dal lavoro (giorno e notte) vive in quell’incubo costante, sarebbe la fine. Rapporti disciplinari. Interrogazioni. Trasferimenti in lande ancora più desolate. Forse il licenziamento.
Macché, non c’era niente da fare. Preparare un caffè con quell’aggeggio era per Gianni una maledizione. Allora fece la cosa migliore che, secondo lui, avrebbe potuto fare. Poggiò sul marmo del tavolo il parallelepipedo di carta spessa, di un marrone chiaro chiaro, che aveva in mano e che era la confezione della Miscela Leone, il surrogato che girava in casa sua, e si sedette su una delle quattro sedie di legno che erano intorno al tavolo. Il mento appoggiato sul dorso delle mani aperte sul marmo che mandava una bella sensazione di fresco, se ne stette lì a guardare il suo lavoro lasciato a metà.”

Rientra a casa sua madre, vede il mezzo disastro sul tavolo e provvede lei a finire il lavoro.

“L’interesse che Gianni mostrava per il rituale di preparazione del caffè con la caffettiera napoletana non era poi così dirompente perché mentre la madre faceva quel che c’era da fare con gesti lenti e precisi, lui pensò che sarebbe stata una cosa giusta almeno adoperarsi a svuotare le borse della spesa. Così, tanto per rendersi utile.
Aiutò sua madre, ma si giocò la possibilità di imparare ad utilizzare il dispettoso aggeggio e, cosa davvero più importante, perse una volta per tutte l’occasione di conoscere quale fosse o quale fosse stato il livello di povertà della propria famiglia. Livello che, come in quasi ogni famiglia della città e forse dell’intera Italia, era inversamente proporzionale al numero di cucchiaini di caffè che venivano aggiunti al surrogato.”

Quella di Attilio Coco è innanzitutto un prosa delle cose. Questa volta proprio nel senso di cose tangibili (oltre alle ‘cose’ del pensiero di cui parlavo prima, e con quelle interagenti continuamente) che acquistano la materialità dalla loro esattezza, dal loro essere precisamente loro. Per questo risultano tutte cose godibili, non necessariamente in linea perfetta con la storia principale. In certi punti di particolare condensazione le parole arretrano, ma non d’importanza (le parole non possono essere meno importanti) ma nel senso che non si fanno accorgere (non sono esibite, anche nella loro densità): sono “carsici” i meandri della macchinetta del caffè.
Tutto è detto con precisione e chiarezza. Non sussiste ambiguità della forma, per cui il lettore si concentra sul significato. Ma per ottenere una tale trasparenza, una tale leggerezza di una prosa che non si fa sentire (dunque ‘arretrata’) ci vuole un senso acutissimo dell’eleganza della scrittura. E’ quella che ti fa, per esempio, appassionare anche agli orologi…

” ‘Sì, ecco. Mi ha detto degli anni Cinquanta, più o meno, vero? Ora gliene mostro qualcuno. Allora, guardi questo. E’ un Glashutter Uhrenbetrieb Spezimatic del 1955. Movimento automatico. in oro giallo. Calibro 661. 26 rubini’.
‘Bello. Mi piace. Ha indovinato il tipo di orologio che vorrei prendere. Me ne fa vedere qualcun altro  sullo stesso stile? Però, la prego, non mi dica tutte quelle cose su calibri e rubini. Tanto non ci capisco comunque nulla. Mi fido di lei’.
‘Certo, certo, non si preoccupi. Per l’anno va bene oppure spaziamo un po’ di più? Chessò, dagli anni Quaranta ai primi anni Sessanta?’.
‘Va bene. Spaziamo. Ma non tanto. Non vorrei farle perdere tempo prezioso’.
‘Non si preoccupi. E’ il mio lavoro… Guardi questo, anche questo è del ’55. Un Audemars Piguet. In oro giallo anche questo. Ma ha movimento meccanico ed è a carica manuale. Con quest’altro invece facciamo decisamente un salto indietro. E’ un IWC in oro giallo. Carica manuale. 1941. Un orologio interessante, se mi permette’.
‘Ha ragione. Davvero interessante. Guardi, mi faccia vedere solo quei due o tre che ha messo sul bancone e poi basta. Altrimenti la testa comincia a girarmi e va a finire che non riesco a decidermi’.
‘Bene, Come vuole lei. Questo che le faccio vedere adesso è davvero particolare. E’ un Omega del 1956. In oro rosso, automatico. E’ un modello speciale per i giochi Olimipici di Melbourne. Quest’altro invece è uno Junghans, un cronometro a carica manuale. In acciaio. Del 1960. Poi c’è questo Patek Philippe in oro giallo, modello Calatrava a carica manuale. Del 1953′.
‘Va bene. Basta così. Ora è davvero il momento di scegliere. Lei quale mi consiglia?’.
‘Il Patek Philippe che le ho fatto appena vedere è davvero un orologio molto bello. Una linea essenziale ed elegante. Ideale per un regalo importante. Però, se mi permette, io ho un debole per lo Junghans. C’è questa opacità che il quadrante ha acquisito nel corso degli anni e che dà davvero il senso del tempo passato lentamente. Ora dopo ora. Minuto dopo minuto. E poi, la cassa in acciaio ha per me un fascino indiscutibile. Ma non voglio condizionarla troppo. E poi, come dirle, il valore in sé di un orologio non sempre è una questione legata al suo prezzo. Col Patek Philippe andiamo certamente più su ma… Non so se mi sono spiegato’.
‘Benissimo. Lei si è spiegato benissimo. Allora facciamo così. Il Patek Phlippe me lo confeziona per il mio amico, e lo Junghans per me. Anzi, no, non me lo confezioni. Lo metto subito al polso. […]’.”

C’è un film di David Linch che si intitola Una storia vera. Lo vidi in un cinema a Roma insieme ad un mio giovane amico, e mi colpì. Sarebbe potuto sembrare un film troppo ‘facile’: un anziano contadino decide di attraversare gli Stati Uniti con un piccolo trattore, per andare a trovare il fratello malato, e lungo il tragitto incontra vari personaggi. Ma dentro quella trama esile, scorrevole e trasparente (cosa che io ad ogni modo di per sé apprezzavo), tra le musiche di Angelo Badalamenti e i bei paesaggi che la storia stessa offriva, insomma tra quelle ‘assenze’ e quelle delicatezze, vedevo emergere una sorta di grumi, nei quali si rapprendeva la materia narrativa, nei quali cioè si concentrava un raccontare più denso, rallentato dalla singolarità, se non addirittura dalla stranezza delle situazioni che descriveva e in cui l’anziano signore incappava. Esse mi pareva stridessero in modo incantevole con la levità, l’inconsistenza, quasi, dello sfondo. I particolari personaggi che il contadino incontrava lungo il suo viaggio divenivano protagonisti, per un arco di tempo molto breve, della vicenda nella quale erano coinvolti. Il cambio di attenzione cercato dalla cinepresa dava assoluta autonomia di significato alla scena di turno.
Esemplare è quella del cervo investito. Il vecchio procede lungo una di quelle strade statunitensi che corrono in mezzo a pianure semidesertiche. Un’ automobile lo supera. Si sentono, dopo un istante, il suono del clacson e i rumori della frenata e dello scontro. L’uomo si ferma e scende dal suo trabiccolo. Si avvicina ad una donna che ha appena investito un cervo e le chiede se ha bisogno di aiuto. La donna è sconvolta e urla istericamente che no, non ha bisogno di aiuto, perché nessuno la può aiutare, che le ha tentate tutte, che ha guidato con le luci accese, che ha pregato San Francesco d’Assisi e San Cristoforo, che ha suonato il clacson, che ha urlato fuori del finestrino, che ha messo i Public Enemy a tutto volume, ma no, niente da fare, continua ad investire cervi. Ne ha uccisi tredici in sette settimane, sempre su quella maledetta strada. Ma lei è costretta a farla ogni giorno, quella strada, per andare al lavoro, quaranta miglia, ad andare e a tornare. Ma da dove vengono?, si chiede infine, stravolta. Poi smette di urlare, si avvicina al cervo, piange verificando che è morto, e prima di tornare in macchina e ripartire a tutta birra, disperata, grida: “E io amo i cervi!”.

Come quel film, questo romanzo ha il potere di svilupparsi in momenti sorprendenti. La sua non è una trama dai contorni netti, ma frastagliati, talvolta aguzzi; comunque passibili di espansione. E si rifiuta di essere un ‘romanzo a tesi’, proprio mentre la sua narrazione appare ‘chiusa’, cioè ferma sulla questione fondamentale e urgente, perché non può, pur mai abbandonandola, non staccarsi in continuazione da quella. La narrazione si apre dunque a dei quadri che lascia affiorare con lentezza e pazienza. Per questo, ad un certo punto, nel ritmo e nel linguaggio senza sbavature, in perfetto equilibrio tra l’eleganza delle frasi e ciò che è narrato, nel senso così sicuro della struttura, essa diventa sorprendente, di quella vera sorpresa che nessun romanzo ‘a tesi’  può raggiungere.

“Uno, due, tre colpi che gli arrivano assordanti alle orecchie. Esagerati se pensa che sono solo le manopole degli interruttori che vengono abbassate. Ma a lui sembrano ogni volta spari.
Vede il buio davanti a sé, e come ogni sera da tanti anni sente acuto e devastante il desiderio di farsi inghiottire da quel buio. Fa qualche passo in quella direzione. Solleva delicatamente, quasi come in un soffio, i piedi. Più che camminare è uno scivolare verso il centro di quel buio. Pochi secondi e i suoi occhi si abituano. Vede il segno e si ferma. Le braccia abbandonate lungo il corpo e un respiro lento, profondo, che gli rilassa e distende ogni muscolo, ogni fibra, ogni cartilagine. La testa si solleva sul movimento dei polmoni e delle spalle. La muove leggermente da un lato e dall’altro. Ora è pronto. In un attimo risente la leggerezza, la gioia e l’emozione che ben conosce.
Come sempre, ogni sera, sente le voci che si affievoliscono, diventano brusio. Qualche colpo di tosse. Poi silenzio. Quel silenzio dal quale si sente cullato e nel quale dovrà tuffarsi e percorrerlo, cercare di riempirlo con la sua voce e con il suo corpo.
Un altro respiro profondo che cerca di seguire la flebile luce che incomincia a insinuarsi piano nel buio. Lentamente. Fino a quando lui la sente su di sé. Ecco, ora tutto può avere inizio e lui è in un altro tempo, in un’altra città. Parla un’altra lingua. E’ un’altra persona.”

In questo romanzo succede non di rado che ai personaggi si attacchino altri personaggi, in un ‘albero della conoscenza’ che non smette di essere fecondo, e in ciò si può comprendere in quale senso al suo autore arrivi ‘la frase facile’, perché quel complexus che è la realtà, quelle stesse ‘cose’ che sono al centro della sua ricerca, indicano la direzione del procedere, che riesce quindi a non essere mai né troppo secco né ridondante o troppo morbido, gonfio, nella concinnitas che è semplicemente modalità di pensiero, è visione, attitudine, gusto e mentalità.
Si dipanano, così, sequenze narrative dalla sostanza spesso lieve ma che prendono corpo nel loro evolversi lungo il respiro dei periodi; si assiste allo sviluppo del fatto che rimane leggero, di poca importanza, o che non si rivela affatto, perché ha voluto superare la levità del significato, ancora da divenire oppure soltanto accennato, nell’assumere quella del linguaggio.

La “donna bellissima” descritta in precedenza diviene ad un certo punto protagonista in prima persona di un episodio straziante.
La ragazza sta parlando con la stessa donna e non riesce a distogliere lo sguardo dalle sue mani. “Quelle dita erano rami di nocciolo, radici di platano, artigli d’arpia.”
Sopraggiunge la lentezza e con essa la densità.

“Sì”, dice la donna, “sento ancora dolore. E quando ci sono giornate fredde come questa mi diventano ancora rosse. Allora al dolore si aggiunge un insopportabile formicolio. Ogni volta è come impazzire. Sono i momenti peggiori. La tentazione di tagliarmele e di buttarle nel fuoco è grande. Lo penso, lo penso, ma non lo faccio mai.”

L’episodio si allunga creando l’attesa. La donna si assenta pochi attimi (si trovano nel suo bar, a Roma) e riappare con una vecchissima borsa piena di vinili. Ne estrae un disco in cui è registrata un’opera di Haydn, un concerto per pianoforte e orchestra. Il pianoforte di quella registrazione era stato, molti anni prima, suonato da lei stessa. Quella donna era stata infatti una pianista. Poi una “malattia”, “un cancro che colpisce la mente e l’intelligenza delle persone” (ecco che ritorna l’onda del tema ‘centrale’) si era abbattuta su quelle mani.
“Ci sono popoli che la coltivano come un desiderio”, quella malattia, e “la sua vera forza” è “l’ignoranza che le fa da baluardo”.
Negli anni Trenta “in Italia la malattia era già al suo culmine”, mentre a Parigi viveva Cesare, un ragazzo anarchico o, per meglio dire, “di fede libertaria.”. La giovane pianista l’aveva conosciuto in quella città, “in una bella giornata di inizio estate del 1935”: da allora era sbocciato l’amore tra i due, che li condusse ad un comune impegno.
Insieme raggiungono la Spagna, e combattono per l’idea libertaria. Ma Cesare muore. La sua ragazza non lascia la Spagna. Un paio di anni dopo è ancora lì. E lì, un giorno, le fanno visita in casa alcuni fascisti, italiani e spagnoli. Hanno con sé un’enorme palla nera, che pare d’acciaio. La scaraventano sul tavolo, producendo una specie di boato. Intanto i fascisti cominciano a riempire la giovane di domande, alle quali lei non risponde.

“‘E poi?’.
‘E poi quella palla d’acciaio è fredda sotto i palmi delle mie mani. Una sensazione piacevole. Strano perché fuori doveva essere gennaio e semmai avrei gradito qualcosa di caldo. Non più domande. Anche questo è piacevole. Deciditi, deciditi. Deciditi a parlare. Parlare? Ma io non ho voglia di parlare, dico. Mi piace il silenzio, dico. E mi piace questo freddo sotto le mani’.
‘E poi?’
‘E poi, e poi. Già. E poi. E poi il lampadario che è sulla mia testa ondeggia, e una mazza cala sulla palla d’acciaio. Una prima volta. Poi una seconda’.
‘E poi?’
‘E poi non sono per niente stanchi e ricominciano a farmi domande. Chi è questo, chi è quello. Dov’è questo e dov’è quell’altro. Ma forse io rido, e vedo di nuovo la mazza che batte sulla palla d’acciaio. Una volta, due volte. Ma che fanno, penso. L’unica cosa a cui non penso è un dettaglio di poco conto. Quasi un nulla, credimi. Niente che valga la pena di essere raccontato. Tra la palla d’acciaio e la mazza che ogni tanto due braccia dentro una camicia nera fanno calare, con scrupolo professionale da fabbro esperto, ci sono le mie mani’.”

L’odore della polvere da sparo racconta spesso fatti così tragici mantenendo una semplicità che sgomenta, nella sua scrittura calibrata senza essere vigilata. Lo stesso avviene per tutte le situazioni complesse che vengono commentate, di cui si parla, senza lasciare che materialmente accadano.
Ma questo romanzo, anche, non manca mai di mantenere quel gusto per gli aspetti concreti, di cui parlavo, per quelle ‘cose’ a cui sono ancorati fatti minori, e lo fa conservando sempre la propria consistenza. Dall’ossimoro di un’urgenza calma, di un impeto della ragione, pacato nella propria coscienza del tragico cui assiste, e anche attraverso circostanze di poco peso, esso presenta la gravità della situazione sociale e non rinuncia all’affacciarsi di nugae, quasi frivolezze – quei momenti particolari, raffinatissimi – che generano la stranezza che vedevo anche nel film di Linch – sull’orlo di un pessimismo che l’argomento storico, quello del fascismo ancora vivo, porta con sé e pretende. Insomma, è la calma che si vorrebbe in un mondo estremo: ieri, oggi, tra le due guerre. Sempre la stessa storia.

Immaginate l’esordio di una musica calma. Per pianoforte, tanto per cambiare. In verità, ora, ne vedo compenetrarsi due, la cui sonorità assomiglia al ritmo della scrittura del romanzo di Attilio. Li voglio citare. Si tratta innanzitutto di quello dell’Andante dalla Sonata n. 25 in sol maggiore op. 79 (detta Cuckoo) di Beethoven, magari suonata da Backhaus, che è la interpretazione che ascolto sempre. Tutto l’Andante dura due minuti e cinquantatré secondi, e nel brevissimo lasso di tempo delle sue prime battute la melodia malinconica è resa dalla mano destra in scarti di suoni alti negli accordi (mentre la sinistra accompagna al basso di sottofondo), un vibrare all’unisono di note che trovo sconvolgente. Poi, un veloce susseguirsi di alcuni arpeggi, per tornare infine al motivo iniziale, alla sua tristezza. Il secondo brano è l’incredibile esordio, i primi apici del Clair de lune dalla Suite bergamasque di Debussy (l’interpretazione che possiedo è di Gieseking): quel trillo appena iniziato, quel brevissimo attrito tra due diverse superfici che daranno adito di lì a poco ad un motivo discendente; quell’attrito tra due superfici – dicevo – e una delle due, almeno, ruvida. Questo assomiglia agli scarti dell’Andante di Beethoven. E’ una cosa che lascia senza fiato.
Ne parlo qui anche perché quando leggevo questo libro, mi capitò di ascoltare questi due attacchi e ne vedevo una somiglianza con la scrittura che mi trovavo davanti, una somiglianza che mi appuntai, perché reputavo significativa. La bellezza delle due melodie si intrecciava in qualche modo con quella, anche assolutamente malinconica, di questa scrittura, che parlava, quasi senza scampo… di bellezza.

Ma cosa è, infine, questa cosa che senza ombra di dubbio salverà il mondo, avendo almeno salvato me, questa kalokagathía, questo bene che si vede attraverso il bello, questo bene che è il bene, ma che continuiamo a chiamare proprio ‘bellezza’, questo bello che si fa strada, che emerge, che spunta, che fa la gemma sporcando (non tanto spaccando, che non sarebbe comunque più violento) la scorza dura del brutto, cioè del male? E’ un’emozione a suo modo inspiegabile che puoi ridurti solo a (approssimativamente) descrivere?
Io alla bellezza associo di solito qualcosa di estremamente preciso. Ecco perché amo gli esordi. Ma non penso soltanto alla musica ‘classica’, non solo ai due esempi appena fatti, o a tutto il tesoro musicale che ogni giorno esploro con metodico entusiasmo, e non solo ai poeti, agli scrittori, quelli che mi cito prima in testa se un alunno mi chiede qual è la mia poesia preferita; non penso soltanto alla disperazione leopardiana né a quella pasoliniana, quel disperato amore per la vita che li posa tra le braccia della morte, nel quale io, così immensamente diversa da loro, mi sono riconosciuta.
Eppure proprio ora, mettendo da parte ciò che istintivamente associo prima di tutto a quella, ho già citato colui a cui devo il mio precisissimo riferimento, colui che ha causato la associazione tra tutte le associazioni, esatta, senza fronzoli, a proposito della bellezza.
E’ Pasolini, l’autore, che, almeno in questo, è venuto a salvarmi, ed è il suo esordio (un altro esordio…): “Alle volte è dentro di noi qualcosa”, de La Guinea.
Sì, quel preciso esordio tra i tanti suoi bellissimi incipit di terzine discorsive, tra i suoi tanti versi che mi risuonano in testa da sempre.

“Alle volte è dentro di noi qualcosa”

– dice, dunque –

“(che tu sai bene, perché è la poesia)
qualcosa di buio in cui si fa luminosa

la vita […]”.

E mi ritrovo quella stessa semplicità di cui finora ho già abbondantemente parlato, la semplicità di una fiducia in ciò che deve pur accadere (“Sì” – risponde l’attore alla ragazza – “esiste la bellezza.”), perché quella sgorga così forte da ciò che deve pur essere detto e da ciò che deve pur essere fatto, e sfocia così forte in quel qualcosa che quel “tu” sa bene, quel buio in cui la vita entra e, quando vi è entrata, si fa luminosa, splende.
Diceva, quindi, Pasolini:

“qualcosa di buio in cui si fa luminosa

la vita: un pianto interno, una nostalgia
gonfia di asciutte, pure lacrime.
Camminando per questa poverissima via

di Casarola, destinata al buio, agli acri
crepuscoli dei cristiani inverni,
ecco farsi, in quel pianto, sacri

i più comuni, i più inutili, i più inermi
aspetti della vita: quattro case
di pietra di montagna, con gli interni

neri di sterile miseria – una frase
sola sospesa nella triste aria,
secco odore di stalla, sulla base

del gelo mai estinto – e, onoraria,
timida, l’estate: l’estate, con i corpi
sublimi dei castagni, qui fitti, là rari,

disposti sulle chine – come storpi
o giganti – dalla sola Bellezza.
[…]”

Posso io meravigliarmi della semplicità? Non può non esserci, la semplicità, nell’eleganza ottenuta naturalmente, classicamente, cioè nella grazia, qui, di una disperata gentilezza. Penso infatti che nel pianto si faccia luminosa la vita. Lo penso insieme al poeta che lo dice in questi versi, e non potrebbe essere davvero altrimenti per me. Penso che la vita si faccia luminosa in una poverissima via di Casarola, cioè in un minuscolo paese, conosciuto e visitato soltanto perché fu il rifugio di Attilio Bertolucci, un misero grappolo di case, la triste aria, gli inermi aspetti della vita, quelli inutili, l’umiltà.
Quando arriva l’estate – timida come tutto il resto – si vedono degli storpi, che paiono anche giganti, e quelli li ha messi lì la Bellezza. I suoi storpi, il poeta, li accarezza con gli occhi asciutti, li fa scivolare lungo il crinale della sua fiducia spezzata, della sua cristallina volontà. E’ la Bellezza che gli fa abbassare lo sguardo, lo rende poeta, nel mentre ritorna alla sua umanità. Penso che sia impossibile separare la bellezza dalla Storia.

Roma, lo sanno tutti, è una città molto sporca. Roma è anche la mia città. Vanto le diverse origini di mio padre e mia madre e in parte anche dei miei nonni. Ma vanto soprattutto l’origine della mia nonna paterna, di cui so così poco, e che era romana, e di suo padre, di cui so solo questo, che era romano da più generazioni. Vanto la data della mia nascita, il cui giorno e mese coincidono con quelli della liberazione della mia città, avvenuta pochissimo meno di nove mesi dopo quel 10 settembre di cui parlavo. Come nacqui io un 4 giugno, nacque la libertà, a Roma, dopo una gestazione, nel suo caso tremenda, nel mio spero di no. Ad ogni modo, per me – la partorita – molto felice.
Amo questa città di un amore struggente fin da bambina, perché la vedevo – con la nettezza che solo un bambino può utilizzare – ‘bella’. Che fosse in quegli anni in cui ero piccola una città meno brutta di ora, si direbbe che è così, ma in realtà non oso dire che lo so. Penso piuttosto che i miei occhi non riuscissero a vedere la bruttezza, come se non potessi averne paura. Infatti, io, ora, so che il brutto, per me, è ciò che mi fa paura. Viceversa, ero piena di stupore quando mi si accompagnava nelle zone centrali o quando dalle finestre di casa guardavo al di là di quelle vicine boscaglie che solo Roma può contenere come fosse cosa normale (Roma è una città piena di verde: in pochi lo dicono o lo sanno, credo, ma ciò, viceversa, decisamente salta agli occhi, è davvero un’ovvietà) e potevo ammirare le bellezze famose nel mondo, o comprese solo da me. Era proprio uno stupore: qualcosa, anche questo, che puoi provare solo da bambino, quando la maggior parte delle cose o le hai viste poche volte o non le hai viste mai.
Crescendo, invece, mi accorsi della sporcizia di questa città, della sua sporcizia metaforica e non, che non invadeva solo le strade e i luoghi aperti più o meno distanti dalle bellezze presenti, ma si impantanava inesorabilmente in tutto quel non essere città, quel subdolo terribile impedimento ad essere il posto dei suoi abitanti, quella tomba sociale.
Mi innervosiva, quando ero ragazza, aspettare alla fermata, quando l’autobus non passava e dovevo andare a scuola e, qualche anno dopo, all’università. Allora ero convinta che non avrei mai potuto guidare qualunque aggeggio dotato di motore e mi rassegnavo ai mezzi pubblici. Che mi innervosisse attendere è dire davvero poco. Iniziavo con frasi spezzate, metà emesse a mezza bocca, metà fermate a strozzarmi la gola. Erano improperi che diventavano nel giro di pochi minuti (che a me parevano eternità) sempre più feroci. Poi passavo ai gesti, la borsa dei libri scaraventata a terra, i calci, gli inesorabili calci al palo della fermata, a tutto ciò che vedevo di calciabile, alla stessa borsa inerme a terra. Ormai uscivano dalla mia bocca una quantità di ingiurie urlate senza ritegno. La gente si girava, mentre io, che ne ero del tutto cosciente, non riuscivo in nessun modo a preoccuparmene. Ero una ragazza davvero arrabbiata. Le persone esterrefatte che mi osservavano immagino notassero quello strano gap tra il mio aspetto e la mia furia. Se avessero conosciuto anche la mia proverbiale timidezza, oltre che il solo aspetto esteriore, la sorpresa in loro si sarebbe raddoppiata. Io stessa attraversavo tutto ciò, ogni volta, in un parossismo di sconcerto direttamente proporzionale alla mia rabbia.
Di certo Roma non era una città fatta per me, e ora che vivo nel paradiso terrestre e vedo tante cose con maggiore distacco, posso ben affermare che quando si sta male in un luogo, al punto che sei tu a spaventarlo più di quanto esso spaventi te,  quel male lo hai quasi tutto, soltanto, dentro.
Ma non ho mai smesso di ammirare le bellezze della mia città, come è normale che sia, visto che, in questo caso, ciò che si impose agli occhi fin da piccola aveva nello stesso tempo contornato la mia storia. E la Storia, quella di tutti.
Quando ritorno a Roma, ritrovo, immancabile, la sporcizia, tutta l’enorme massa di detriti lasciata dall’incuria, dall’abbandono: sedimenti che crescono, si moltiplicano e che potrebbero in qualunque momento arrivare a sporcare, ad incrostare qualunque cosa, ovunque.
E chiunque, venendo da fuori e osservando con superficialità le brutture che si incontrano a Roma, giurerebbe sulla trascuratezza dei romani (sia chiaro, io per ‘romani’ intendo tutti coloro che ci stanno, in questa città, ci abitano da sempre o da ieri, che hanno la certezza di restarci per sempre o che sperano di andarsene domani o non hanno alcuna idea per quanto tempo vivranno ancora lì), chiunque giurerebbe su quella loro indolente indifferenza ai loro stessi problemi, che pensano, a quanto pare, però, di poter risolvere solo con l’isteria, sì, insomma, più o meno come facevo io da ragazza, alla fermata dell’autobus.
Eppure, al contrario, ti capita in continuazione, se passi qualche giorno a Roma, di vedere cose, che poi sono le ‘cose’ di cui ho parlato per tutto questo scritto, quelle per cui vale la pena mettersi a raccontare, perché sono le cose che fanno una storia, oltre a fare, proprio per questo, anche la Storia, quella di tutti.
Ho visto circa un anno fa al Parco del Pineto, a Roma, in una delle sue appendici trascurate, sporche (ma il Parco del Pineto è, sarebbe, bellissimo, un gigantesco parco naturale, una macchia mediterranea conservata nel bel mezzo di quartieri abitati), sulla rete metallica a circondare il vecchio rudere di una casa colonica abbandonata e senza speranza, tra cespugli incerti di quelle che a stento potremmo chiamare piante ed altri di immancabile cartaccia, gettata quasi quotidianamente e mai raccolta, da una decina di mesi or sono; su quel reticolato, dunque, sgangherato ci sono, appese, decine di fogli, piccoli quadri, cartoncini, superfici di carta o di legno, ogni tipo di supporto anche approssimativamente adatto alla scrittura, al disegno e all’ornamento. Tante persone geniali, tanti romani ostinati, che si ostinano con la bellezza, hanno appeso poesie. Poesie di ogni tipo: Petrarca, Dante, i moderni, gli stranieri, poesie di gente comune, poesie di bambini, di intere classi scolastiche. Poesie, a formare una nascosta, quasi invisibile, lungo il sentiero delimitato dalla grata, ‘via dei poeti’, poesie mischiate lì, sulla rete di metallo vecchia di chissà quanto, a delimitare una zona pericolante e dimenticata da tutti, intricata da chiazze trionfanti di vegetazione incolta.
Non lontano da questo luogo, sotto le pendici di Monte Mario, fiancheggia la ferrovia del trenino urbano, che qui penetra la zona del Parco, una strada che è stata resa pedonabile e ciclabile, sinceramente non so quando, perché l’ho scoperta da molto poco, pur percorrendo spesso i luoghi che vedo e frequento da quando sono nata. Anche questa via, come ‘il sentiero dei poeti’, è nascosta, quasi invisibile. Ma un giorno, qualche mese fa, ho deciso di prenderla, un po’ timorosa perché non capivo bene innanzitutto dove precisamente si addentrasse, sia uscendo dalla città, sia in direzione opposta, e se fosse inoltre sufficientemente frequentata da rivelarsi sicura, specie per una donna che cammina da sola. Si dipana tra case di ogni sorta, più piccole e modeste nella sua parte più periferica, ma sempre graziose, devo dire, decorose, semplici, ‘familiari’, più in intimità con ciò che le lambisce, come quella stessa strana via, mai stata una strada per mezzi di locomozione motorizzati e senza alcuna possibilità di esserlo in futuro, residuo di gallerie per la ferrovia ed elevata a tratti sul bosco; e case, dicevo, più alte, veri e propri palazzi verso il centro, ma anch’essi di altezza e forma ‘umane’, senza pretese, ma vissuti, abitati, abbelliti dalla gaia dignità della gente comune, tipici di una certa Roma graziata, che è riuscita cioè a sfuggire quasi indenne alla brutalità dello scempio edilizio.
Era la fine della primavera e faceva buio intorno alle nove. Scesi dal livello della strada principale in pieno giorno, e la via, nonostante il caldo, era già piena di gente. Non un rumore di automobile o di traffico per un tratto così lungo che a farlo tutto ti ritrovi in tutt’altra parte della città, e gente di ogni tipo che camminava/correva/andava in bici/andava sui pattini, persone sole, in coppia o in gruppo, in normali indumenti o in quelli da sport, maschi, femmine, persone anziane, adulti, adolescenti, famiglie con bambini, tante persone di origine straniera e tante persone di origine italiana. Un mescolarsi di tipi e un moltiplicarsi a riempire uno spazio di tutti.
Si avvicinava il tramonto e poi il crepuscolo e la gente non diradava. Risalii in superficie solo col buio della sera e ci tornai, ostinata, anche i giorni successivi: stessa grande quantità e vivacità di gente.
Ho trovato tutto questo molto bello. A Roma, la città molto sporca, metaforicamente e non.
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[1] Mi riprometto il prima possibile di prendere dei romanzi a caso di autori italiani contemporanei (ma potrei farlo, per alcuni aspetti, anche con gli stranieri) e riportare esempi di ciò che voglio davvero dire.
Sia chiaro che comunque non c’entra affatto la lingua per così dire espressiva. Anzi, una ricerca linguistica in tal senso, ma adulta e davvero intelligente, è qualcosa che riesce ancora a sbalordirmi. In tal senso prediligo oggi un’autrice di cui finora, a dire il vero, ho letto solo un romanzo, ma che mi è parsa straordinaria, e cioè Rosa Matteucci.

[2] Per cui, uno dei libri che sto leggendo ora o il libro che più avanti citerò, cioè, rispettivamente, La scuola cattolica di Edoardo Albinati e Qualcosa di scritto di Emanuele Trevi , pur definendosi romanzi, e pur essendo infatti tali nel loro dispiegare una storia, fanno del pensiero la spinta propulsiva di quella e si abbandonano (o meglio si impegnano) a quella riflessione senza alcuna reticenza, senza alcun bisogno di stare su un binario prestabilito, la quale fa di un testo letterario qualcosa di molto più ricco della semplice trama di una storia. Ma dopo tornerò sul discorso, citando, appunto, Emanuele Trevi.
Vorrei menzionare, a riguardo, altri due ‘romanzi-non romanzi’, che hanno in comune con i due appena citati, non a caso, la narrazione di storie e di personaggi reali, e che io ho trovato bellissimi, cioè Un eroe borghese di Corrado Stajano e L’ultima lezione di Ermanno Rea.

[3] Alberto Asor Rosa, Scrittori e popolo 1965. Scrittori e massa  2015, Einaudi, 2015, pag. 370-371.

[4] Emanuele Trevi, Qualcosa di scritto, Ponte alle Grazie, 2012, pag. 19-21.

[5] Attilio Coco, L’odore della polvere da sparo, Edizioni Spartaco, 2015.

 

 

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