Nostalgia

Ieri è morta Rossana Rossanda. Pubblico l’articolo È morta Rossana Rossanda, fondatrice del Manifesto, giornalista e intellettuale, apparso su “la Repubblica” del 20 settembre 2020.

Di Alessandra Longo e Concetto Vecchio

È morta nella notte Rossana Rossanda, giornalista, intellettuale, comunista, scrittrice, fondatrice del manifesto. “La ragazza del secolo scorso” aveva 96 anni e si è spenta nella sua casa di Roma. La notizia è stata data dal sito del manifesto che ha annunciato un’edizione speciale del giornale per martedì per ricordarla. Storica dirigente del Pci, nel 1969 venne radiata, in quanto esponente della sinistra critica del partito. Quindi, con Lucio Magri, Luigi Pintor e Valentino Parlato aveva fondato il manifesto, prima come rivista e poi come quotidiano. Era nata a Pola, antifascista, aveva partecipato alla Resistenza. Una vita di battaglie, quasi tutte eretiche. È stata l’unica ad aver convinto il capo delle Brigate Rosse, Mario Moretti, a parlare in un’intervista del caso Moro.

Nei giorni della fermezza, lei sostenne la tesi della trattativa. Fu allieva del filosofo Antonio Banfi, “il mio maestro”, come lo definiva. Amica di Jean Paul Sartre, aveva vissuto a lungo a Parigi, da dove era tornata due anni fa, stabilendosi a Roma, in una casa nel quartiere Parioli. Una delle sue ultime uscite pubbliche fu l’anno scorso, a maggio, per sostenere alla Casa delle Donne alcune candidate della sinistra alle elezioni Europee. “Nel bilancio della sua vita prevalgono più le ragioni o i torti?”, le domandammo nell’ultima grande intervista sulla sua vita, concessa a “Repubblica”, il 31 ottobre 2018. “Ho cercato di fare prevalere le ragioni, ma ho avuto grandi torti, del resto chi può negare di sé di non averne avuti”. E qual è il torto più grande?: “Non glielo dico. Lo dico a fatica anche a me stessa”.

“Perché sei stata comunista? Perché dici di esserlo? Che intendi? Senza un partito, senza cariche, accanto ad un giornale che non è più tuo? È un’illusione cui ti aggrappi, per ostinazione, per ossificazione? Ogni tanto qualcuno mi ferma con gentilezza: ‘Lei è stata un mito!’ Ma chi vuol essere un mito? Non io. I miti sono una proiezione altrui, io non c’entro. Mi imbarazza. Non sono onorevolmente inchiodata in una lapide, fuori del mondo e del tempo. Resto alle prese con tutti e due…”. In questa lunga citazione dall’autobiografia di Rossana Rossanda “La ragazza del secolo scorso” (uscita per Einaudi, nel 2005), c’è tutta lei, una signora della politica italiana, una comunista mai pentita ma sempre critica, una “eminente marxista”, come la presentavano orgogliosamente sulle piazze di paese prima dei comizi. Lei minuta, tosta e restia al microfono, colta, appassionata di filosofia e arte (vagheggiò a lungo la carriera universitaria), lei che vedeva la madre al telaio e subito riandava con il pensiero alla merlettaia di Vermeer, lei nata nel 1924 a Pola, sul tormentato confine orientale, abituata, borghesemente, a trattenere i sentimenti (“Non sono infondati i rimproveri che mi fanno per aver dato troppo o troppo poco al partito, alla rivoluzione, alla causa delle donne, al movimento o a me stessa”.).

Una donna complessa, intelligente, anche ingombrante, che ha attraversato il secolo con straordinaria pienezza, nominata da Palmiro Togliatti responsabile della politica culturale del Pci, eletta alla Camera dei Deputati nel 1963, radiata con l’accusa di “frazionismo” dal Comitato centrale del partito nel 1969, assieme ad Aldo Natoli, Luciana Castellina, Lucio Magri, Luigi Pintor, passata per l’esperienza del Pdup, Partito di Unità Proletaria per il comunismo, ma soprattutto fondatrice con Pintor, Magri e Valentino Parlato, de il manifesto, un giornale, un collettivo, dal quale si è separata con grande amarezza nel 2012: “Prendo atto della indisponibilità al dialogo della direzione e della redazione. Smetto di collaborare”. Divergenze di linea politica e di approccio editoriale, incomprensione forse sanabile, il gap anagrafico ammesso in un’intervista a Simonetta Fiori: “Mi hanno sempre visto come una madre castratrice anche se io non mi sono mai sentita tale. Ma forse è una legge generazionale. I figli per crescere hanno bisogno di uccidere i padri e le madri. Ora è toccato a me”.

Lucida, laica, politicamente razionale. Del Pci degli Anni Cinquanta e Sessanta ricorda, nella sua autobiografia, lo straordinario contributo “al processo di democratizzazione della società italiana”. In morte di Ingrao, nel 2015, Rossanda evoca ancora con grande convinzione i pregi di “quella comunità militante, internazionalista”, che fu il partito, non una nave di matti, ma un moltiplicatore di forze con un orizzonte grande che dava senso alle storie dei singoli… L’orgoglio di essere stata dentro una storia importante, che non le impedisce tuttavia di mettere da subito a fuoco gli errori, i dubbi sempre più laceranti sull’Urss, il disagio profondo per i fatti di Ungheria del ’56 (“La vicenda ungherese mi si è rappresa dentro in una fotografia, un funzionario appeso ad un fanale davanti alla Csepel, il collo spezzato e il volto scomposto dell’impiccato, mentre sotto di lui ridono due operai della fabbrica in rivolta… I comunisti che si fanno odiare hanno sempre torto”).

Le analisi di Rossanda: senza veli, senza omissioni, senza ipocrisie. Così in quel famoso articolo sul manifesto del 1978, in pieno sequestro Moro, che cercava di capire la logica brigatista: “Chiunque sia stato comunista negli anni ’50 riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle Br. Sembra di sfogliare l’album di famiglia: ci sono tutti gli ingredienti che ci vennero propinati nei corsi Stalin e Zdanov di felice memoria”. Ne seguirono polemiche feroci, Emanuele Macaluso, dalle colonne dell’Unità, parlò di “confusione e distorsione impressionanti”. Ma Rossanda, minuta, con i suoi capelli bianchi, con l’inconfondibile neo sopra la bocca, un sorriso distaccato, non fece una piega. Ragazza solida, ragazza del secolo scorso, fisicamente fragile in vecchiaia.

Aveva scelto di vivere a Parigi, senza smettere di registrare ogni sussulto della vita politica italiana. Perché a Parigi viveva ed è morto, nel 2014, il compagno della vita, Karol Kewes, ebreo polacco, scampato al nazismo riparando in Russia dove si arruolò nell’Armata Rossa, uno dei fondatori del Nouvel Observateur, collaboratore del manifesto sin dal primo numero. Karol era cieco, Rossanda lo ha assistito con dolcezza e premura, fino alla fine. Ma questo è il suo privato, tenuto gelosamente lontano dai riflettori. Parlava poco volentieri anche del suicidio assistito di Lucio Magri, nel 2011. Lei lo accompagnò in Svizzera a morire, altri amici si erano rifiutati. Una decisione lacerante, raccontata ad Antonio Gnoli: “Lucio era spaventosamente infelice. Aveva di fronte a sé un fallimento politico e pensava di aver sbagliato tutto. Non mi pento di quel gesto. Credo che sia stata una delle scelte più difficili, ma anche profondamente umane”.

Il fallimento politico di Magri era anche quello di Rossanda, che lei avvertiva. Ma sia pur bloccata in carrozzella, dopo un ictus, sia pur delusa dalla volgarità della politica attuale, Rossanda, allieva come detto del filosofo Antonio Banfi e pure dello storico dell’arte Matteo Marangoni, ha conservato fino all’ultimo l’anticorpo più forte alla depressione: percepiva, da esteta allenata, la bellezza. “Quello che mi ha salvato è stata la grande curiosità per il mondo e per la cultura”. La bellezza, appunto. Quella bellezza che aveva conosciuto da piccola, in Istria, “passeggiando sulle isole deserte piene di conigli selvatici, tra i narcisi alti come me che profumavano forte”. Fino all’ultimo il rimpianto frenato dalla ragione, dalla consapevolezza di “un corpo che non risponde”: “Mi dispiacerebbe morire per i libri che non ho letto e i luoghi che non avrò visitato ma confesso che non ho più nessun attaccamento alla vita”.

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