Minima antologia pascoliana

Daniela Gliozzi, N.533

 

L’assiuolo, Arano e Nella macchia fanno parte delle molte liriche di Pascoli che rispondono alla visione della poesia come testimonianza dell’intuizione inconscia e istintiva della realtà.
E’ innanzitutto un mondo, quello contenuto in questa minuscola antologia, che si presta ad uno sguardo in grado di restare ampio, ma che induce anche a restringere l’orizzonte. Ne risulta, poi, in una foresta di spunti più o meno nuovi, nel fascino e nella avversione che suscitano, una impossibilità di penetrazione, senza perdersi tra l’incanto ed una sorta di delusione.
L’esperienza migliore che si può vivere leggendo queste poesie è alla fine la verifica sempre più netta che in effetti l’energia rivelatrice del mezzo espressivo e la suggestione che ne emana sono l’adempimento del fondamentale compito di questi versi. Tale preminenza data al linguaggio è l’elemento rivoluzionario di liriche pascoliane come queste.
Pascoli parte dal contingente, il quale, essendo mezzo e non fine, e presupponendo altro, fa comunque in modo che il significante si stacchi e predomini sul significato. La sensibilità pascoliana esige un coinvolgimento dal quale, a momenti, sembra che essa stessa si voglia sottrarre. E’ quando nasce tale attrito che si scorge soprattutto la potenza di questa poesia.
Leggiamo i primi versi de L’assiuolo:

“Dov’era la luna? ché il cielo
notava in un’alba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il melo
parevano a meglio vederla.”

Riguardo all’attenzione alle piccole cose che si scorge già da questo esordio, sarà bene iniziare a citare il fondamentale saggio di Gianfranco Contini sul linguaggio di Pascoli[1].
Il critico ha individuato nel verso pascoliano un’ “esattezza nomenclatoria” fornita con assidua premura. Pascoli qui non vuole essere generico, non parla di ‘alberi’, ma di “mandorli” e di “meli”[2]. Ma è questa stessa precisione ad attirare a sé un mondo che è il suo perfetto contrario, cioè quello che indugia piuttosto diffusamente sulle cose impalpabili come “un’alba di perla”. E’ il conflitto di cui parlavo, quello tra voci che accompagnano il messaggio, ma che anche lo stimolano a diverse modulazioni o giungono a riproporsi come sua contraddizione. Ne vien fuori una poesia che alterna una percezione di armonia ed uno stridere di piani diversi.
Non basta a Pascoli chiamare le cose col loro nome. Il poeta non rinuncia a far uso del tecnicismo. Esemplari a riguardo i versi di Arano:

“Al campo, dove roggio nel filare
qualche pampano brilla, a dalle fratte
sembra la nebbia mattinal fumare,
arano: a lente grida, uno le lente
vacche spinge; altri semina; un ribatte
le porche con sua marra paziente; […].”

“Pampano”, “fratte”, “porche”, “marra” sono termini che, nella loro specificità tecnica e regionale, sembrerebbero del tutto inadatti al testo lirico. Ma essi sono presenti proprio in quanto mai separati da altri elementi, i quali a loro volta suggeriscono una dimensione opposta, assolutamente indefinita: l’esordio di “Al campo”, anziché ‘Nel campo’, che elimina il senso dello spazio; le pause che conferiscono un tono lento e cadenzato al fuoriuscire delle immagini che si susseguono; la languidezza di quell’esalare della nebbia; la posizione del verbo principale alla fine della proposizione estesa su quattro versi.
Nel misto di “determinato” e “indeterminato”[3] sta il senso di questa poesia. Il “determinato”, per essere compreso nel suo pieno significato, è sempre integrato nell’ “indeterminato”, non basta mai per se stesso.
Contini, nel saggio citato, ha osservato come il linguaggio speciale (o “postgrammaticale”) usato dal poeta romagnolo fosse stato impiegato in gran copia da tutto il movimento decadentista e che, d’altra parte, quello “pregrammaticale”, cioè quello che comprende le espressioni onomatopeiche e quelle fonosimboliche – anche, e ancor più, tipico di Pascoli – sarebbe stato dopo di lui largamente usato dal futurismo e dal primo surrealismo. Ma il critico aggiunge: “qualcosa è unico in Pascoli, cioè il fatto che egli esperisca contemporaneamente i due settori”. In ogni modo – sottolinea anche – per quanto riguarda quello “pregrammaticale”, Pascoli fu un vero e proprio innovatore[4].
L’onomatopea possiede una iconicità che acquista peso in concomitanza con il contenuto. La sua naturale rilevanza acustica, inoltre, si stabilisce comunque in corrispondenza col senso. Leggiamo ancora da L’assiuolo:

“Le stelle lucevano rare
tra mezzo alla nebbia di latte;
sentivo il cullare del mare,
sentivo un fru fru tra le fratte:
sentivo nel cuore un sussulto,
com’eco d’un grido che fu.
Sonava lontano il singulto:
Chiù… ”

La evidente suggestione fonica orienta il valore semantico e consolida la simbiosi con esso, un rapporto attivo che acquista vigore quando è generato l’attrito, quando cioè l’inserimento di una parola spezza il clima stabilito.
Osserviamo due terzine da Nella macchia:

“Io siedo invisibile e solo
tra monti e foreste: la sera
non freme d’un grido, d’un volo.

Io siedo invisibile e fosco;
ma un cantico di capinera
si leva dal tacito bosco.”

La prima terzina evoca un’atmosfera di silenziosa solitudine. Un’appena percepita inquietudine nell’incombenza visiva, ma estranea, di “monti” e “foreste”, di contro all’invisibilità dell’ “io”.
La seconda terzina tenta di reiterare l’incanto che viene spezzato, però, dall’ultima parola del verso, che rende ora “fosco” il senso di solitudine ribadito. E’, questo secondo tentativo, più energico: trae l’immagine che, respinta ancora nel non detto, urgeva già nella prima terzina. La novità della parola “fosco” rompe gli argini ed è in grado, così, di innescare il discorso successivo, introdotto dall’avversativa, la quale denota quel cambiamento, dato però non soltanto dal  “cantico di capinera”, ma anche da qualcosa che è racchiuso nell’ultima strofa:

“E il cantico all’ombre segrete
per dove invisibile io siedo,
con voce di flauto ripete,
io ti vedo!”

Non a caso “capinera” è una di quelle parole speciali: sullo sfondo di “indeterminato” dell’intera poesia, specie del mistero dell’ultima strofa, un lampo essenziale di “determinato”.

Questo particolare mondo poetico, per essere tale, richiede una intima e a suo modo rivoluzionaria fiducia nel legame tra la dimensione inconscia e la sua espressione poetica. Per questo Pascoli non rinuncia ad accostarsi ingenuamente alla natura e a tradurne con sicurezza il contatto conoscitivo.
In Nella macchia, ad esempio, l’ordine sintattico, riproducendo i meccanismi più semplici del pensiero, quelli sufficienti al contatto immediato con le cose, rinuncia allo sviluppo per collegamenti logici o a quello narrativo.
L’intero procedere delle tre poesie è basato sull’analogia, che permette passaggi arditi tra le immagini-lampo e tra le sensazioni di natura diversa, come nelle sinestesie di “venivano soffi di lampi” (L’assiuolo), di “ringhi/argentini” (Nella Macchia) e di “il suo sottil tintinno come d’oro” (Arano). L’impressione precede spessissimo la connessione logica del sintagma per cui, ad esempio, abbiamo il famoso “nero di nubi” de L’assiuolo al posto di ‘nubi nere’, analizzato anche da Contini[5].
Lo schermo di una immaginazione infantile, attraverso il quale è percepita tale dimensione irrazionale della realtà, è membrana che lascia filtrare un colore opaco. Esso non è poi semplicemente incorporato dal linguaggio pascoliano. Esso è il suo linguaggio.

***

            L’assiuolo

Dov’era la luna? ché il cielo
notava in un’alba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il melo
parevano a meglio vederla.
Venivano soffi di lampi
da un nero di nubi laggiù;
veniva una voce dai campi:
chiù…

Le stelle lucevano rare
tra mezzo alla nebbia di latte:
sentivo il cullare del mare,
sentivo un fru fru tra le fratte;
sentivo nel cuore un sussulto,
com’eco d’un grido che fu.
Sonava lontano il singulto:
chiù…

Su tutte le lucide vette
tremava un sospiro di vento:
squassavano le cavallette
finissimi sistri d’argento
(tintinni a invisibili porte
che forse non s’aprono più?…);
e c’era quel pianto di morte…
chiù…

                    Arano

Al campo, dove roggio nel filare
qualche pampano brilla, e dalle fratte
sembra la nebbia mattinal fumare,

arano: a lente grida, uno le lente
vacche spinge; altri semina; un ribatte
le porche con sua marra paziente;

ché il passero saputo in cor già gode,
e il tutto spia dai rami irti del moro;
e il pettirosso: nelle siepi s’ode
il suo sottil tintinno come d’oro.

     Nella macchia

Errai nell’oblio della valle
tra ciuffi di stipe fiorite,
tra quercie rigonfie di galle;
errai nella macchia più sola,
per dove tra foglie marcite
spuntava l’azzurra vïola;
errai per i botri solinghi:
la cincia vedeva dai pini:
sbuffava i suoi piccoli ringhi
argentini.
Io siedo invisibile e solo
tra monti e foreste: la sera
non freme d’un grido, d’un volo.
Io siedo invisibile e fosco;
ma un cantico di capinera
si leva dal tacito bosco.
E il cantico all’ombre segrete
per dove invisibile io siedo,
con voce di flauto ripete,
Io ti vedo!

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[1] Gianfranco Contini, Il linguaggio di Pascoli, in Varianti e altra linguistica, Einaudi, 1970.

[2] Contini riporta a riguardo il passo famoso di Pascoli sulle rose e le viole leopardiane: “No: non ci ha detto quali fiori erano quelli, perché io sospetto che quelle rose e quelle viole non siano se non un tropo, e non valgano, sebbene speciali, se non a significare una cosa generica: fiori. E io sentiva che, in poesia così nuova, il Poeta così nuovo cadeva in un errore tanto comune della poesia italiana anteriore a lui: l’errore dell’indeterminatezza […].”, in G. Contini, Il linguaggio di Pascoli, cit. pag. 239.

[3] G. Contini, cit., p. 229.

[4] G. Contini, cit., p. 224.

[5] G. Contini, cit., p. 242-243.

[Ho scritto questo breve saggio a diciannove anni.]

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