L’impronta di Roberto Calasso

                                                             Calasso da ragazzo

 

Ieri è morto Roberto Calasso, un pilastro nella scelta dei migliori. Grande lui stesso. A volte forse legittimamente criticato per una certa aura di snobistico formalismo, ma fondamentale per capire che cosa davvero è, questa benedetta forma. Che la sua impronta resti quindi indelebile.
Per un bel ricordo, riporto l’interessante pezzo pubblicato oggi sul “Corriere della sera” a firma di Paolo Di Stefano e con il titolo Morto Roberto Calasso, scrittore e editore.

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Scomparso nella notte a Milano, aveva 80 anni. Nato a Firenze, era presidente della casa editrice Adelphi.

Se c’è un Fato dell’editoria, deve aver deciso di palesarsi il 29 luglio nel modo più beffardo, facendo coincidere la morte di Roberto Calasso (nella notte tra il 28 e il 29) con l’uscita di due suoi libri, i più autobiografici. Si tratta di Memè Scianca, che racconta i suoi primi tredici anni, vissuti a Firenze, e di Bobi, dove si rievoca, per flash successivi, la figura di Roberto Bazlen, l’intellettuale triestino che nel 1962 ideò la casa editrice Adelphi con Luciano Foà coinvolgendo subito, a Roma, il ventunenne Calasso. Figlio dello storico del diritto Francesco Calasso, antifascista accusato con Ranuccio Bianchi Bandinelli di aver ucciso Giovanni Gentile, Roberto aveva vissuto un’infanzia culturalmente precocissima, arricchita da presenze familiari come Arnaldo Momigliano e Giorgio Pasquali. Sua madre Melisenda, classicista allieva di Pasquali ed Ettore Bignone, era figlia di Ernesto Codignola, il filosofo-pedagogista che fondò a Firenze la Scuola-Città Pestalozzi e che creò la casa editrice La Nuova Italia. Alla biblioteca del nonno, il bambino Roberto attingeva per avvicinarsi alla letteratura: la prima rivelazione gli venne da un’edizione economica di Cime tempestose, grazie alla quale capì che la lettura poteva sostituirsi al gioco. Poi a soli tredici anni ebbe in regalo dal padre l’edizione Pléiade della Recherche, che lesse avidamente. Sempre a Firenze maturò la passione musicale, frequentando il Teatro Comunale.

A Roma, dal 1957, si apre per Calasso una vita nuova, grazie alla laurea in Letteratura inglese con Mario Praz e poi, dal 1962, grazie alla conoscenza di (e all’ammirazione per) l’irregolare, il misterioso, l’imprendibile Bazlen, il consulente editoriale, lettore incontentabile e universale avvicinato per merito di Élemire Zolla e Cristina Campo. Bobi, ha scritto Calasso, fu per lui l’essenziale che mancava ai tanti talenti conosciuti in quel periodo giovanile. La creatura editoriale pensata dall’amico, alimentata da Foà e finanziata da Roberto Olivetti, nacque da una scissione, che coincise con il rifiuto «politico» einaudiano di pubblicare le opere di Nietzsche a cura di Giorgio Colli. Di quella primitiva impostazione eterodossa e passionale («Faremo solo i libri che ci piacciono molto», raccomandava Bazlen), Calasso sarà l’erede e il costruttore geniale, visto che Bobi sarebbe morto prestissimo, nel 1965, dopo aver visto soltanto il primo volume: L’altra parte di Alfred Kubin, «libro a cui teneva molto non solo perché era il più bel Kafka prima di Kafka, ma perché “l’altra parte” era il luogo stesso dove Adelphi si sarebbe situata».

L’idea era quella del «libro unico»: la casa editrice è una somma di oggetti che messi insieme vanno a formare un libro unico. Calasso divenne il direttore editoriale, poi l’amministratore e il proprietario, oltre che padre-padrone, di quel libro unico, in cui trovò posto anche la sua opera, altro libro unico composto dagli undici saggi maggiori che spaziano dai Veda indiani alla mitologia greca, alla Venezia di Tiepolo, alla Parigi degli Impressionisti, alla Praga di Kafka, fino all’«innominabile attuale» con una riflessione amara sul fascino della tecnologia e sul declino dell’epoca della conoscenza (e del libro): «La digitabilità è il più grave assalto che abbia subito l’inclinazione a esporsi allo shock dell’ignoto». E per Calasso l’ignoto è l’essenza della letteratura.

Con il catalogo Adelphi e le sue copertine color pastello, Calasso ha conquistato il mondo, invidiato, ammirato, a tratti adorato in Germania, in Francia, negli Stati Uniti, mentre in Italia la cultura di parte marxista lo osservava spesso con diffidenza per le corde irrazionalistiche, via via nichiliste, etnologico-religiose, mistico-orientali che vibravano in quel mosaico che era il «libro unico». Il fatto più inatteso fu che a un certo punto, negli Anni 80, il vento cambiò e il pubblico cominciò ad apprezzare la raffinatezza adelphiana, anche un po’ snobistica, fino a farne un brand di moda. Il trionfo di Hermann Hesse e di Joseph Roth (maledetto dalle frange eversive della sinistra) trascinò con sé nomi allora quasi sconosciuti, da Robert Walser a Karl Kraus, da Schnitzler a Lernet-Holenia, da Milan Kundera a Thomas Bernhard, fino all’ungherese Sándor Márai, i cui romanzi erano destinati a diventare longseller, benché fossero già stati proposti in Italia, senza però mai uscire dall’ombra.

È il tocco Adelphi che li trasforma, come ha trasformato in casi internazionali certe riscoperte, come Mordecai Richler, il neglettissimo Guido Morselli (che in vita raccolse un record di rifiuti editoriali), Anna Maria Ortese, sempre percepita come scrittrice per pochi e diventata in vecchiaia impensabilmente, con Il cardillo addolorato (1993), un’autrice da classifica. Persino il mondadoriano Simenon fu rilanciato da Calasso, e accanto a Simenon hanno potuto imporsi un esordiente come Aldo Busi (ma gli italiani viventi erano molto selezionati), e negli ultimi anni Carlo Rovelli, un fisico in vetta alle classifiche, evento straordinario nella storia editoriale. Tutto ciò si affiancava a Milarepa, a Il segreto del Teatro Nō e a I Ching. E al recupero di Savinio, di tutto Gadda, di Sciascia, di Landolfi, di Manganelli, di Parise, di Arbasino… Senza dimenticare il Carrère «soffiato» proprio all’Einaudi. La parola chiave della sua impresa, per Calasso, era «azzardo».

Fatto sta che si tratta di una figura incomparabile non solo dell’editoria, ma della cultura: è stato editore totale (editor e publisher), saggista e scrittore, autore di sé stesso editore, oltre che lettore onnivoro, ed è stato anche teorico dell’editoria in brevi volumetti accomunati dal colore celeste: sulle biblioteche pubbliche e private, sulle copertine, sull’arte dei risvolti, sul marketing, sull’«ecfrasi a rovescio» delle copertine, sulle riviste, sui colleghi più stimati, compresi gli avversari (Einaudi su tutti), sull’«editoria come genere letterario».

Appunto: editoria come genere letterario. In Italia sono stati numerosi i cosiddetti letterati-editori, spesso eccelsi (Pavese, Vittorini, Calvino, Sereni, Debenedetti, Bollati), nessuno però lo è stato a tutto tondo come Calasso. L’autore era in qualche modo «imprendibile» quanto il suo maestro Bobi: imprendibile per la particolare narrativa saggistica o saggistica narrativa che praticava. E poi perché, come dimostra Elena Sbrojavacca in un recente studio, la sua «letteratura assoluta», che prende avvio nel 1983 con La rovina di Kasch e si configura in undici volumi, disegna una sorta di viaggio labirintico che tocca i Veda indiani, la mitologia greca (Le nozze di Cadmo e Armonia, del 1988, vendute in mezzo milione di copie), la Venezia di Tiepolo, la Parigi degli Impressionisti, la Praga di Kafka, la modernità digitale dell’Homo saecularis che annienta la vocazione enigmatica della letteratura.

Se, come scrive Calasso, l’opera del non-scrittore Bazlen è Adelphi, l’opera di Calasso è certamente più complessa, perché comprende, in una sorta di attrazione reciproca, il catalogo editoriale (come particolare «genere letterario») e la labirintica produzione letteraria: l’uno comprende l’altra e la seconda comprende il primo. La sua presenza così ingombrante nella cultura italiana del secondo Novecento suscitò l’irritazione di tanti. Tra questi, il saggista Alfonso Berardinelli (che lo accusò di ridurre tutto a «assolutezza formale, epifania del divino e molti brividi…»). Il poeta e critico Giovanni Raboni, che ironizzò sul suo elitarismo e sull’«aura di intransigenza snobistica». Il filologo Cesare Segre, che gli rimproverò di aver pubblicato l’antisemita Léon Bloy. E il germanista Cesare Cases, che fece di Calasso l’obiettivo polemico di numerosi suoi interventi satirici di stampo politico. Erano discussioni aspre in tempi in cui il dibattito culturale non era un tabù. C’è chi ricorda che quando non gli rispondeva per iscritto, Calasso faceva pervenire al suo «nemico» Cases una scatola di cioccolatini.

 

29 luglio 2021

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