Il vuoto della nostalgia. Una fotografia di Dammicco e una poesia di Brodskij

Fotografia di Luca Dammicco (sito: www.lucadammicco.it)

 

Ho scoperto questa foto nel sito – che vale la pena di visitare – di un giovane fotografo, Luca Dammicco. Avevo trovato le sue opere così interessanti che avrei voluto utilizzarne almeno un paio per questo articolo, ma la mia regola è solo una immagine per volta. E allora ecco questa, che voglio oggi accompagni il mio pezzo su una poesia del grande poeta russo Iosif Brodskij.

I cieli dei crepuscoli romani di Dammicco hanno il colore che io preferisco. E’ sempre un colore di confine: sono azzurri in divenire, diventano blu nel tempo, poi neri; assimilano, nel frattempo, il verde, nello spazio, grazie alla vegetazione incombente sulla città, e grazie anche all’idea, a quell’astrazione che la retina prima desidera e poi conserva.
Sono insomma dei turchesi molto plastici e complementari in modo suggestivo agli ocra-arancioni delle luci di vecchi lampioni e delle tante facciate delle case sospese nel nulla, in quell’ora, vicino al crepuscolo, che, è proprio il caso di dire, sta al posto giusto al momento giusto.
Sono luoghi fisici e del sentimento tipicamente romani.
Cogliere questa epifania di case e cielo nelle anonime e popolari periferie otto-novecentesche è cogliere, per me, ciò che conta a Roma: le foto di Dammicco mi piacciono perché credo abbiano capito questo, ed è una cosa che non era sfuggita nemmeno a Mafai (vedi l’immagine di un suo dipinto romano inserito a corredo dell’articolo di questo blog “Roma, città aperta”. Da Adam Zagajewski).
Tra le poesie di Brodskij sulla città di Roma c’è quella che riporto qui e il cui argomento io sintetizzo con l’espressione stupore per ciò che è stato. Si tratta innanzitutto di quella forma di nostalgia che penso assomigli a quella che caratterizza il mio non abitare più nella mia città natale. Il mio non essere più si è profondamente disvelato in qualcosa di appagante, e lo fa poi tipicamente, lo fa pienamente perché la nostalgia è un sentimento viscerale.  Mi induce oltretutto a chiedermi quanta parte abbia davvero questa città in esso, visto che nel mio caso la nostalgia consiste esattamente in un potenziamento di ciò che è già intenso, cioè l’oggettiva meraviglia per i contorni estetici di un luogo, e questo fatto mi confonde, è un’esperienza che ubriaca.
Dammicco fissa nei suoi scatti soprattutto quel momento che a Roma sente ormai adagiata la coltre della notte,  ma lo sospende, lo addolcisce attraverso le luci. Comprendi in queste foto che le luci della Roma notturna stanno lì come ad affermare il passato, antico e non, direi la loro stessa inevitabile presenza nel passato, in un afflato di disperazione. È difficile spiegarmi: mi sembra sempre, in certe visioni della mia nostalgia, di essere rimasta al tempo precedente la mia nascita, spesso ad un secolo fa o anche un po’ prima, agli ultimi anni dell’ ‘800, il secolo quasi prediletto dal mio immaginario, se non fosse per la musica barocca. Ecco, la nostalgia di ciò che non si ha, di ciò che non si è, di ciò che non si è visto e di ciò che non si è vissuto è un vuoto che certe forbici hanno ritagliato per me perché esso fosse anche intensamente vissuto, considerato che ciò che manca è ciò che davvero è presente. La nostalgia è infatti, come l’amore, figlia di Penía, della povertà. È il desiderio. È dunque ciò che, lacanianamente, ci fa essere vivi. Per questo non ci stupisce che Roma, la città intrisa di morte, è nello stesso tempo città sanguigna e vivida per eccellenza.
Questo spiega la scelta della poesia che ho inteso riportare.
Il vuoto è protagonista di questi versi, ed è un vuoto ritagliato dall’amore, dunque è la mancanza, quella cosa “invisibile” di cui si sa solo, in quanto tale, “che sulla terra è esistita una volta”. Il vuoto permea di sé ogni cosa, e di ogni cosa, quindi, anche la più insignificante, diviene naturale essere grati.
“Io sono stato a Roma. Inondato di luce”, finisce col dire il poeta. E l’essere stato, non l’essere ora, rimane: il ricordo di quella luce nasce dalla mancanza presente, da un vuoto che squarcia la notte.
Per questo faccio introdurre i versi di Brodskij a un passo di Eugenio Borgna tratto dal bel libro La nostalgia ferita, che chiarisce, credo, in modo netto di quale tipo di nostalgia stiamo parlando:

“I desideri, le attese, non si nutrono solo di futuro, ma anche di passato: di cose che sono state, e di cose che non sono ancora. La nostalgia riempie il tessuto liquido e fragile dei desideri che sono talora desideri di cose che abbiamo perduto e che vorremmo riavere. Non c’è nostalgia che non si nutra di passato, dell’agostiniano presente del passato, e che non di meno non si illuda di farlo rinascere; e talora questo avviene. Non so, ma mi sembra che anche il bellissimo romanzo di Rilke (I quaderni di Malte Laurids Brigge, […]), sia immerso nel fiume eracliteo di una nostalgia creatrice che fa rinascere il passato, le emozioni e gli stati d’animo che al passato si univano, e che riempie di sé la nostra vita interiore: dilatandone i confini, e nutrendola di linfe rigenerate.
Cosa ci dice questo romanzo struggente […]? Ci dice tra l’altro che in vita siamo soli, e nessuno si accorge di noi, delle nostre ansie e del nostro dolore, delle nostre divoranti nostalgie, ma anche che nessuno si accorge delle stelle che nel silenzio cadono la notte di San Lorenzo: non ricordandosi di desiderare qualcosa. Le parole febbrili e infrante di Rilke non dimentichiamole troppo presto […] perché in esse […] si rispecchia l’invisibile trama della nostalgia con le sue camaleontiche risonanze emozionali, e nelle sue aeree fragilità. Sì, la nostalgia del passato, del passato che è nell’adolescenza, riemerge straziante da queste pagine che ci dicono come la prosa possa diventare poesia, poesia scintillante di metafore, quando sia trasfigurata da un linguaggio di trasognata immediatezza, e di alta tensione lirica. Il romanzo di Rilke non è in fondo se non un metaromanzo che si snoda sulla scia di fragili parole e di immagini fosforescenti: animate da una febbrile nostalgia che è immersa nella dolcezza e nella tenerezza, nella leggerezza e nella liquidità: nella grazia.
Cosa dice Claudio Magris di questo straordinario romanzo? ‘L’esistenza di Malte, prototipo dell’individuo moderno senza casa e senza identità, è un’ estraneità, è la perdita di un’infanzia e di una individualità che egli invero non ha mai posseduta, se non nella nostalgia. Malte vive nella nostalgia della vita che è sempre altrove. Egli cerca il senso del suo esistere nei ricordi o negli oggetti che sono stati di altri, in memorie di famiglia e in tradizioni storiche; anche la sua vita è tutta e soltanto un ‘rimpianto muto e senza nome’ della vita come quello di cui dice la lirica di Hofmannsthal’; e ancora:  ‘La nostalgia di Malte va a un’esistenza che non c’è stata mai, a una pienezza che è stata soltanto attesa e che viene soltanto rimpianta. Vivere, per Malte, significa estraniarsi alla vita, prendere ininterrottamente congedo da essa. Quando è il presente? si chiede Rilke, così come Oblomov s’era chiesto: quando si vive? Per Malte l’unico presente è quello delle parole, che egli scrive ricordando o immaginando la vita, ossia è il presente dello scrivere; la vita per se stessa viene invece soltanto ricordata (cioè come passata) o immaginata (ossia come futura) e non viene mai vissuta al presente’. Sì, si può essere divorati dalla nostalgia di una vita mai vissuta.” (1)

La stupenda poesia che finalmente riporto fa parte delle Elegie romane (2) (è contrassegnata con il numero XII), dedicate a Benedetta Craveri (figlia di Elena Croce, quindi nipote di Benedetto; fu sposata con Masolino d’Amico, figlio di Fedele e di Suso Cecchi, quindi nipote di Silvio d’Amico e di Emilio Cecchi):

Chinati, Ti devo sussurrare all’orecchio qualcosa:
per tutto io sono grato, per un osso
di pollo come per lo stridìo delle forbici che già un vuoto
ritagliano per me, perché quel vuoto è Tuo.
Non importa se è nero. E non importa
se in esso non c’è mano, e non c’è viso, né il suo ovale.
La cosa quanto più è invisibile, tanto più è certo
che sulla terra è esistita una volta,
e quindi tanto più essa è dovunque.
Sei stato il primo a cui è accaduto, vero?
E può tenersi a un chiodo solamente
ciò che in due parti uguali non si può dividere.
Io sono stato a Roma. Inondato di luce. Come
può soltanto sognare un frantume! Una dracma
d’oro è rimasta sopra la mia rètina.
Basta per tutta la lunghezza della tenebra.

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(1) Eugenio Borgna, La nostalgia ferita, Einaudi, 2018, pag. 36-39.
(2) Josif Brodskij, Poesie, Adelphi, 1986, pag. 179.

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