“Il sussurro nacque prima delle labbra”. Da Osip Mandel’štam

 Daniela Gliozzi, N. 331

 

Proponendo questa poesia, non ricordo soltanto lo splendido poeta russo Osip Mandel’štam, ma do lo spazio che si merita anche alla traduttrice, studiosa e scrittrice (tutte e tre le attività svolte superbamente) Serena Vitale.
Ha tradotto lei questa, come tutte le poesie della raccolta da dove è tratta (Osip Mandel’štam, Quasi leggera morte. Ottave, Adelphi, 2017), e ne ha curato l’edizione, all’altezza di Adelphi.
Serena Vitale, forse la più importante esperta di letteratura russa che abbiamo, è una traduttrice straordinaria, in cui, mi pare, la definizione della parola poetica è lucida, esatta, incarnata nel suo ritmo a sua volta sicuro e necessario.
Aggiungo volentieri che il maestro di Serena Vitale fu quel genio della scrittura che è stato Angelo Maria Ripellino.
A presentazione della raccolta (cristallo vivo, vibrante, una rivelazione; almeno in ciò che posso leggere, cioè nella sua traduzione) e del suo autore Osip Mandel’štam, mi sembra centrale ciò che viene scritto in quarta di copertina:

“Chi potrà mai dirci da dove è arrivata fino a noi la divina armonia che chiamiamo ‘poesia di Mandel’štam” si chiedeva Anna Achmatova. Se lo chiederà anche il lettore di queste Ottave, un ciclo di liriche prodigiose nate in gran parte nel novembre 1933, e dunque quasi contemporaneamente al celebre epigramma contro Stalin, il ‘montanaro del Cremlino’, dove parlavano la rabbia e l’orrore del suddito. Solo così, dopo aver pagato il tributo a un presente in cui il potere non si limita ad asservire, ma pretende anche di spiare nelle menti degli schiavi, Mandel’štam è libero di inoltrarsi nel non-tempo e non-spazio della lirica pura. In un’epoca che promette e celebra il ‘radioso futuro’, le Ottave di Mandel’štam (‘poesie sulla conoscenza’ le definiva) portano il lettore indietro, sempre più indietro, in un universo incorporeo, rarefatto, dove la creazione si sta ancora compiendo – e coincide con la nascita della parola poetica.

Sulla poesia qui proposta, invece, cito dal commento che Serena Vitale ha inserito nella seconda parte del libro:

“[…] Da lui Goethe ha imparato questo [è citato dalla studiosa lo stesso Mandel’štam, che si sta riferendo a Herder]: la poesia non è mai una questione privata e personale”. La prima quartina dell’ottava venne quindi inserita nel testo della Giovinezza di Goethe, a quanto pare, come una variazione sul tema della poesia “non privata”, per la folla e della folla: il “popolo”, in cui Mandel’štam vedeva l’immensa riserva della memoria culturale. Non a caso nel versi compaiono i nomi di artisti fra i più amati, celebri, “popolari”: Mozart, Schubert, Goethe (“che cosa gli dava tanta gioia in Italia? La popolarità e il carattere contagioso dell’arte, la vicinanza dell’artista alla folla”, sempre in Giovinezza di Goethe). Rimandando immediatamente il lettore russo a Il poeta e la folla di Puškin, Mandel’štam ne capovolge il senso – quanto meno quello dell’esergo: Procul este, profani.

Il brano di Vitale mette in luce un’idea che trovo sempre piuttosto affascinante, se espressa con quella eleganza necessaria alla verità che scopriamo, ad esempio, nella seconda quartina di questa poesia. Considero anche la mia personale esperienza, cioè  quella prossimità alle cose dell’arte, della letteratura, della musica, che dovrebbe mettere al suo posto (se solo considerasse importante questa azione) tanta prosopopea accademica e non soltanto, di chi pronuncia “State lontani, profani”, dall’alto di una torre d’avorio ignorante e nevrotica.
Ecco la poesia:

E Schubert sull’acqua, e Mozart nel chiasso
degli uccelli,
e Goethe che fischiettava lungo il sentiero
serpeggiante,
e Amleto che pensava a timorosi passi – tutti
tastavano il polso della folla, in lei credendo.

Forse il sussurro nacque prima delle labbra,
e senza alberi mulinavano le foglie,
e coloro ai quali consacriamo l’esperienza
prima dell’esperienza avevano già i tratti.

(1933)

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