… e i puntini sulle i

Ma è questo  il governo dei migliori? Questo è il titolo dell’articolo apparso su www.tuttavia.eu il 27 febbraio 2021, scritto, nella maniera lucida che gli è propria, da Giuseppe Savagnone. Lo ripropongo volentieri.

*************

Un contesto positivo e un risultato deludente

Ora che sono stati nominati anche i 39 sottosegretari e la squadra del nuovo governo è stata completata, è possibile darne una prima valutazione “a caldo”. Nella consapevolezza che saranno i fatti a dire, in ultima istanza, in che misura e in che direzione siamo in presenza di una svolta rispetto al passato; ma anche che il comportamento futuro di coloro che sono stati appena investiti del compito di governare il nostro Paese non può prescindere dalla loro identità politica, frutto della loro storia personale, e dal contesto in cui la loro scelta è stata fatta dai partiti.

Un contesto che, per quanto riguarda i ministri, era apparso decisamente positivo, specialmente a confronto con le precedenti esperienze dei governi Conte. Il capo dello Stato – favorito dal clima di “ultima spiaggia” che caratterizzava il momento – ha garantito al presidente incaricato Draghi la possibilità di scegliere i nomi dei titolari dei vari dicasteri in piena autonomia.

Forse proprio per questo, quando la lista è stata resa pubblica, non si è potuto evitare di provare quella che un equilibrato editorialista ha definito «una punta di delusione». È vero che il governo doveva essere – questa era l’unico vincolo – “politico”; è vero che la pretesa di Berlusconi che fosse quello “dei migliori” appariva in partenza uno slogan velleitario; ma forse era legittimo aspettarsi una maggiore discontinuità rispetto al personale stantìo e, in qualche caso, squalificato dei passati governi della Seconda Repubblica. È sembrato quasi che Draghi abbia preferito rinunziare a esercitare il suo potere di andare oltre le logiche strettamente partitiche – magari nominando personalità “di area”, gradite, ma non organiche ai rispettivi apparati partitici –, per rispettare alla fine le preferenze di questi apparati, limitandosi a far presidiare qualche posto chiave da alcuni tecnici di propria fiducia.

La legge della jungla non favorisce l’«alto profilo»

E così ha fatto anche per la scelta dei sottosegretari, in cui invece era esplicitamente previsto il ruolo decisivo dei partiti. Ma qui già il contesto è bruscamente cambiato, trasformandosi in quello di una rissa che ha paralizzato la vita del governo per diversi giorni. Non più tenute a freno dal presidente del Consiglio – e forse incoraggiate dalla disponibilità che questi aveva avuto nei loro confronti – le forze politiche sono uscite allo scoperto, dando vita a una lotta senza esclusioni di colpi che ha avuto come unica regola la legge della jungla. E questa volta Draghi ha dovuto far ricorso alla sua autorevolezza non per agire in autonomia, ma per imporre la fine di questi giochi di palazzo.

Il risultato finale, però, non è meno deludente di quello registrato a livello ministeriale. Anzi. Tutti i giornali hanno ironizzato sulla nuova sottosegretaria alla Cultura, la quale, quando ricopriva lo stesso incarico nel governo Conte 1, aveva ammesso di aver letto l’ultimo libro tre anni prima; o sull’altro, nominato sottosegretario all’Istruzione, che pochi giorni fa ha postato sulla sua pagina Facebook la frase «chi si ferma è perduto», attribuendola a Dante, mentre invece deriva da un albo di «Topolino».

Non si tratta di demonizzare nessuno, ma è chiaro che non sono simili figure che possono aiutarci a veder realizzato l’auspicio del presidente Mattarella che questo fosse, per usare le sue parole, «un governo di alto profilo». E purtroppo non sono questi gli unici casi in cui il criterio della scelta dei nuovi sottosegretari sembra essere stata la fedeltà ai rispettivi leader di partito, più che la loro competenza e il loro spessore culturale.

La mancanza di un progetto comune

Ma non è questo l’aspetto della formazione del nuovo governo che appare più inquietante. Purché si faccia finta di non aver mai sentito parlare di un “governo dei migliori”, il ricordo di altri governanti del passato altrettanto discutibili ci potrebbe aiutare a sorvolare. Il guaio è che, a questo limite, qui se ne aggiunge un altro, ben più gravido di conseguenze politiche, perché relativo alla esigenza da cui l’attuale esecutivo è nato, quello di esprimere «l’unità nazionale».

Già il clima che aveva accompagnato la scelta dei ministri induceva a serie perplessità. Tra le forze politiche non sembrava esserci alcun reale sforzo di dialogare tra loro per costruire un minimo progetto comune. Né sembravano in grado di farlo, date le radicali distanze tra di loro e con lo stesso indirizzo europeista del governo a cui aderivano, superate nel giro di pochi giorni con una giravolta troppo improvvisata per non essere dubbia.

Il solo polo attrattivo, per tutti, erano i 209 miliardi del Recovery Fund, su cui ognuno voleva avere le mani non per contribuire, con le proprie specifiche sensibilità e competenze, a un unico percorso, ma per trarne le risorse necessari ai propri piani, peraltro incompatibili con quelli degli altri partner di governo. L’unità della compagine governativa veniva affidata in modo esclusivo alla capacità del presidente Draghi di crearla dal nulla, con i colpo di bacchetta magica del suo personale prestigio.

Ora, con la nomina dei sottosegretari, si accentua l’impressione che questo governo, dietro l’etichetta della “unità nazionale”, si avviato ad essere quello del tiro alla fune tra posizioni antitetiche. Si va dal grillino Carlo Sibilia, che sulla sua pagina Facebook, nel febbraio 2017, aveva addirittura scritto di Mario Draghi: «Andrebbe arrestato», e che ora farà parte del suo governo come sottosegretario all’Interno, alla leghista Stefania Pucciarelli, che nel 2017 mise “mi piace” su Facebook a un utente che scriveva «la prima casa agli italiani, agli altri un forno» e l’anno dopo ha pubblicato un video contro i migranti, denunciando di essere «l’unica italiana in un vagone del treno». E non sono gli unici casi.

Qui il problema non è di competenza o meno, ma di identità e di linea politica. Tutti convertiti dalla bacchetta magica di Draghi? Oppure entrati a far parte di una compagine governativa che dichiaratamente va in direzione opposta alla loro, con la speranza di poter contribuire a modificare questa direzione?

Un passaggio di consegne simbolico

È un indebito processo alle intenzioni? C’è almeno un caso in cui le intenzioni sono state esplicitate. È quello del nuovo sottosegretario all’Interno Nicola Molteni, che ricopriva questa carica quando il ministro degli Interni era Salvini e che è considerato l’ideatore dei famosi “Decreti sicurezza”, che rendevano molto difficile non solo l’ingresso dei migranti nel nostro Paese, ma anche quella integrazione che avrebbe loro consentito di passare da “clandestini” a “regolari”. Molteni entra sostituendo il dem Matteo Mauri, che aveva molto lavorato per smontare e modificare quei Decreti. Un passaggio di consegne simbolico…

Il leader della Lega aveva preannunciato questa nomina. In una intervista di qualche giorno fa aveva espresso le sue riserve sulla conferma del ministro degli interni, Luciana Lamorgese, a suo avviso inadatta fronteggiare il problema migratorio – in realtà su posizioni molto diverse dalle sue – e aveva garantito che avrebbe provveduto a «metterle accanto qualche persona in gamba, che avrebbe fatto cambiare passo». A rendere problematica questa soluzione era il fatto che Molteni, nell’ultimo anno, aveva inondato la sua pagina facebook con attacchi durissimi alla Lamorgese. Il Pd perciò si era opposto e la stessa ministra aveva espresso la sua perplessità. Ma la nomina è stata fatta.

È abbastanza evidente il preciso progetto di Salvini di creare, all’interno del Ministero, un contraltare alla guida del ministro, per riportare le politiche del governo sulla linea che la Lega ha sempre sostenuto e, quando ha potuto, ha realizzato. A conferma di ciò, in queste ultime settimane il leader leghista ha moltiplicato le denunzie dell’aumento degli sbarchi, riprendendo temi che gli erano carissimi, ma che la sua lontananza dal potere e la pandemia avevano contribuito a relegare in secondo piano.

Gli otri vecchi

Di questo gioco di contrappesi è un altro esempio la nomina, come sottosegretario alla Giustizia, dell’ex avvocato di Berlusconi, artefice di molte delle raffinate strategie giudiziarie che hanno consentito al leader di Forza Italia di sfuggire a quasi tutte le azioni giudiziarie nei suoi confronti. Difficile non vedere anche in questo caso una mossa volta a controbilanciare la posizione del nuovo ministro, Marta Cartabia, certamente estranea a queste logiche.

Ma si potrebbero citare anche altre nomine come quella di Giuseppe Moles, vicinissimo a Berlusconi, come sottosegretario in un ministro-chiave per gli interessi del “cavaliere”, quello all’informazione e all’editoria, in collegamento con l’altro forzista, Gilberto Picchetto Frattini, sottosegretario allo Sviluppo economico, importantissimo per il problema delle frequenze TV.

L’asse Lega-Forza Italia esce dunque clamorosamente vittorioso nella lotta per formare “il governo di unità nazionale”. L’unico neo è che si tratta delle stesse forze che hanno dominato per vent’anni la Seconda Repubblica (altro che “svolta”!) e che il loro progetto non è mai stato quello che ora Draghi attribuisce a questo nuovo governo. Mentre gli altri partiti sembrano privi di anima, come il Pd, o nel caos, come i 5stelle.

Dice il Vangelo che se si mette vino nuovo (il progetto del premier) in otri vecchi (i partiti che dovrebbero realizzarlo) si rompe tutto. L’altra ipotesi, non meno preoccupante, è che gli otri finiscano per cambiare il vino. Speriamo che i fatti smentiscano questa triste previsione.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *