Chi mi insegnerà?

Oggi sei morta, Patrizia Cavalli. Ve ne state andando tutti. Chi mi insegnerà ad essere meno mediocre? Chi mi insegnerà? Urge che mi restino i vostri scritti. E intanto capisco sempre meglio la mia ossessione dei libri. È un’ossessione di orfana.

Riporto il ricordo di Silvia Ronchey, pubblicato oggi su “la Repubblica”.

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“La morte vorrei affrontarla ad armi pari”, scriveva. Ecco i versi e la vita dell’autrice amatissima appena scomparsa a 75 anni.

La morte vorrei affrontarla ad armi pari / anche se so che infine dovrò perdere, / voglio uno scontro essendo tutta intera, / che non mi prenda di nascosto e lentamente”.
Ad armi pari Patrizia Cavalli ha affrontato la morte, in un lungo duello ingaggiato e sostenuto da quel guerriero che era sempre stata e ancora era. La deroga che duellando ha spuntato alle pigre divinità e alla pigra sorte è durata sette anni, tanti quanti Odisseo trascorse nel tempo sospeso dell’isola di Calipso prima di rifiutare definitivamente l’immortalità e partire sulla sua zattera per il lungo viaggio. Per il suo viaggio Patrizia Cavalli è partita nel mezzogiorno del solstizio d’estate.

L’onda della sua vita e della sua poesia, che si identificavano, si è alzata, è crollata, è rientrata nelle acque profonde “dove prepara attraverso i millenni / la sua prossima identica uscita / il suo prossimo identico crollo”.
Tutta la vita l’aveva passata combattendo contro una diversa, ma non del tutto, malattia, quella contro cui lotta ogni poeta: la patologia del linguaggio, la sua originaria imperfezione, il disordine che gli è connaturato e in cui solo un’enorme fatica, un corpo a corpo di mente e psiche, può depurare la piaga dell’imprecisione. Solo una lotta serrata e continua per districare dal caos la purezza di ciò che chiamiamo poesia può guarirlo. Come ha scritto di lei Alfonso Berardinelli: “Quando una cosa è precisamente detta, la mente guarisce dal malessere, dalla malattia dell’imprecisione”.

La purezza della dizione era lo scopo per cui scriveva. Perché è questo a distinguere poesia e non poesia: raccogliere il massimo del significato nel minimo del significante, usare l’estrema economia. E così “la purezza non è altro che il risultato dell’energia e vitalità linguistica e l’energia è anche la possibilità di ottenere il massimo con la minima quantità di parole”.

Nata a Todi nel 1945, approdata a Roma poco più che ventenne, nel fatale ’68, fu Elsa Morante, come lei stessa amava ricordare, “a farla poeta”: a riconoscere in lei la poesia. Da allora le sue raccolte di versi, quasi tutte pubblicate da Einaudi, hanno scandito la storia della letteratura e anche quella della cultura popolare italiana: Le mie poesie non cambieranno il mondo (1974), Il cielo (1981), L’io singolare proprio mio (1992), riunite nello stesso anno in Poesie (1974-1992). E poi Sempre aperto teatro (1999), La guardiana (2005, pubblicata da Nottetempo), Pigre divinità e pigra sorte (2006), Datura (2013), Vita meravigliosa (2020), cui si aggiungono la raccolta di prose Con passi giapponesi (2019) e le traduzioni teatrali (Anfitrione di Molière, il Sogno di una notte di mezza estate e l’Otello di Shakespeare).

Traduceva l’indicibile in lingua, traduceva dall’una all’altra lingua, ma soprattutto volgeva in musica la lingua; e anche il contrario. Da bambina suonava il pianoforte. Nella canzone incisa con Diana Tejera (Al cuore fa bene far le scale) e in quella composta con Chiara Civello (E se) come nelle versioni jazz delle poesie di Emily Dickinson che cantava incantando gli amici, era strenuo il suo rapporto con la musica. Nell’immediatezza lessicale e sintattica del linguaggio quotidiano e contemporaneo in cui scriveva, nel suo uso ibrido della dizione letteraria e del parlato, le misure metriche classiche entravano, entrano, in modo così naturale da restare nascoste, quasi clandestine; salvo l’agguato, a tratti, delle rime.

E anche per questo Patrizia Cavalli è stata, è, il massimo poeta italiano contemporaneo. Perché la sua poesia non è stata, non è, un esercizio fatto per sé, né tanto meno per essere analizzato dai critici, ma un’armoniosa medicina universale dispensata per curare tutti. A migliaia – di ogni età, sesso, mestiere, estrazione sociale, formazione culturale – hanno affollato le sue performance nei teatri e nelle sale da concerto. In migliaia conoscevano e conoscono e portano a memoria i suoi versi. Più numerosi delle foglie di qualunque corona d’alloro di poeta laureato sono i fogli fermati dagli scatti dei cellulari che cospargono la rete di sue singole poesie o singoli versi sottolineati dai lettori, postati senza commenti, come un farmaco collettivo messo silenziosamente in circolo: un segreto antidoto al dolore universale, “ai misteri di ciò che solo in apparenza è chiaro”, in cui “le ragioni e le condizioni del piacere e del dolore, i mutamenti impercettibili e decisivi che confondono o che intensificano quello che sentiamo e siamo”, per citare di nuovo il suo primo esegeta, sono sottratti all’ombra e arresi all’evidenza.

Perché il sentire e l’essere di Patrizia Cavalli si erano esercitati anzitutto in una vita pienamente e impavidamente vissuta. Giocava a poker da professionista, con grandi vincite e grandi perdite, così come in amore. Conosceva la verità sull’amore – che non esiste l’amore, esiste chi ami – ma anche il richiamo e la ragione di spogliarsi in fretta per riposare dentro l’accecante dolcezza di un corpo che ci aspetta. Scavalcava Catullo: ti odio perché non ti amo più, perché non posso perdonarti di non riuscire più ad amarti. Sapeva che sarebbe sopportabile ogni male se non ci fosse l’interpretazione: sarebbe quel che è, non quel pugnale che uccide e vuole pure aver ragione.

Cosa non doveva fare per togliersi di torno la sua nemica mente, ostilità perenne alla felice colpa di essere quel che era, al suo felice niente. Poteva rimanere a guardare come si scioglie una nuvola e come si scolora, come cammina un gatto per il tetto. Ascoltare i suoni ampi e lontani che non aprono il mattino, diversità del fuori, ma sono lo spavento del giorno e dei rumori. Annotare la sfusa felicità che assale le facce al sole, i gomiti e le giacche, le dolcezze sparse nel mercato sotto casa, la bellezza degli uomini e le donne. Andare dietro all’uno e guardare l’altra, sentire il profumo, inseguire la sua traccia, raggiungere il troppo; ma il troppo – diceva – non mi abbraccia.
Era una professionista della vita come della poesia, ed è l’indistinzione tra l’una e l’altra, alla fine, il vivere poetico. Essere testimoni di se stessi, sempre in propria compagnia, mai lasciati soli in leggerezza, doversi ascoltare sempre, in ogni avvenimento fisico, chimico, mentale, è questa la grande prova, l’espiazione, è questo il male.

Sapeva che ogni interruzione di abitudine è dolore, e che la morte lenta è un lento cambiamento di abitudine, lento dolore che si esercita all’evento. Che tutti i futuri morti sono già morti abbandonati e che noi stessi, presaghi della nostra morte, ci esercitiamo con largo anticipo all’abbandono. Ma prima di morire – si diceva – forse potrò capire la mia incerta e oscura condizione. Forse per non morire – sospettava – continuo a non capire, sicura in questa chiara confusione.

“E me ne devo andare via così?/ Non che mi aspetti il disegno compiuto / ciò che si vede alla fine del ricamo / quando si rompe con i denti il filo / dopo averlo su se stesso ricucito / perché non possa più sfilarsi se tirato. / Ma quel che ho visto si è tutto cancellato. / E quasi non avevo cominciato.”

 

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