Certo, ancora don Milani

 

 

Alle mie insegnanti di materie letterarie alle medie e al ginnasio, che mi fecero amare la scuola, nonostante la odiassi.

 

Apparve dopo un paio di settimane nella classe del IV ginnasio.
La mia era un’aula molto grande in un palazzo storico del quartiere Prati a Roma. Conteneva una classe numerosa, una trentina di ragazzi, ed ero capitata lì con una gran voglia di stare a scuola per seguire le lezioni. Soprattutto lezioni di greco e latino, ovviamente.
All’inizio era arrivata una professoressa che, non scherzo, non riuscivo a sentire. Parlava a volume così basso che spesso letteralmente non capivo che cosa dicesse. A lezione si ripassava l’analisi logica. Lei poneva le domande alla classe, non a qualcuno in modo preciso; rispondeva chi voleva. Ma il tutto mi pareva senza un ordine, senza un indirizzo, una direzione. Forse c’era confusione, non ricordo. Nel frattempo mi pareva che coloro che rispondevano a quelle domande fossero piuttosto indietro rispetto a me. Immaginavo avessero frequentato scuole medie che lasciavano a desiderare mentre io ero convinta di essere brava in grammatica, di capirla bene. Mi ritenevo in qualche modo superiore a quegli sconosciuti. A causa di tutte queste impressioni si trattava insomma di un inizio un po’ deludente: ma davvero a scuola un insegnante non si preoccupa neanche di farsi fisicamenre sentire da tutti? Ma davvero si affrontano ancora, alle superiori, questioni risapute di analisi logica?
Poi arrivò lei e fu quello che doveva essere, per me.
Io ero un tipo davvero particolare di alunna. Capivo le questioni della grammatica, dicevo. Ma non aprivo libro senza che sapessi davvero spiegarne il perché. Ero svogliata. Mi rifiutavo di imparare qualsiasi nozione a memoria. Credo fossi molto infelice nella mia attitudine all’entusiasmo. Ma nonostante avessi sempre studiato pochissimo desideravo fortemente seguire delle lezioni di greco e latino e seguirle con quella che ora potrei chiamare naturalezza. Non concepivo l’andare a scuola per trovare qualcosa che ostacolasse me che semplicemente ascoltavo e avvertivo interesse per le questioni grammaticali e culturali riguardanti le lingue greca e latina. Ed ecco che ebbi la fortuna di trovarmi in classe la professoressa che era l’incarnazione stessa del greco e del latino.
Quando entravo in aula lei era già lì, come se su quella cattedra avesse passato la notte, come se non si fosse mai alzata da quella sedia. Lei non faceva parte del cosiddetto corpo docente, non conosceva i professori della scuola, e gli altri miei professori, nella mia visione di ammirazione pura. Lei non entrava in sala docenti, non parlava col preside e non era nemmeno una professoressa nuova in quell’istituto (ma invece era proprio così) nel mio sguardo completamente diretto. Per me lei era da sempre stata lì, per essere poi inevitabilmente, secondo un’anánke incorporea e benigna, la professoressa della IV D. Era come se io, a quattordici anni, avessi ritrovato una maestra. Non ricordo quante ore a settimana passasse con noi, ma di certo dovevano essere davvero tante, considerato che ci insegnava, oltre al greco e al latino (che già da soli prevedevano un numero enorme di ore), italiano, storia e geografia. La nostra era la sua unica classe. Lei ci parlava delle materie che insegnava. Io ascoltavo. Capivo senza alcuna difficoltà. Mi sentivo chiamata in causa in mezzo a una trentina di ragazzi che probabilmente avvertivano qualcosa di simile a ciò che provavo io. Ci chiamava per nome di battesimo. Era seria, nel senso che era pacata, sobria. Non la sentii urlare in quei due anni nemmeno una volta, non la sentii mai infastidita, sopra le righe, intimorita da qualcosa. Se mi capitava di ridere un po’ scioccamente con la mia compagna di banco, lei si accorgeva di noi sorridendo. Ma in classe vigeva l’ordine, la compostezza, un silenzio pieno di idee e di febbrili domande. A ricreazione lei restava in classe, non usciva per andare in bagno o a prendersi un caffè. Portava delle gonne lunghe al ginocchio, scarpe abbastanza basse. Era una donna graziosa. Io la vedevo ormai un po’ in là con l’età, e questo mi piaceva, anche se ora capisco che invece doveva essere piuttosto giovane. Una mia compagna durante la ricreazione si avvicinava alla cattedra e si scatenava in battute divertenti. La mia professoressa rideva di gusto, ma nello stesso momento lo faceva come se volesse rattenersi per una sorta di pudore. Aveva un modo delicato anche di lasciarsi andare al divertimento e al piacere informale di stare vicino ai suoi alunni. Mi dava tenerezza, questo, e amavo molto il suo essere così. A mia volta cercavo, sognavo la sua tenerezza. Sapevo che era sposata e aveva due figli, un maschio e una femmina, un po’ più piccoli di noi. Non mi figuravo lei alle prese con dei figli, mi pareva troppo colta per potersi ‘abbassare ‘ a occuparsi di bambini come ogni donna. Ma insieme la immaginavo una mamma dolce, paziente e che sa il fatto suo. Lei, ad ogni modo, non era come le altre donne. Lei conosceva perfettamente il greco ed il latino e li insegnava con precisione millimetrica.
Non perdeva mai tempo, non si dilungava a parlare di altro. Era di un rigore sbalorditivo. Cominciò da subito, quindi, con la serie interminabile di compiti a casa e di verifiche in classe. Stare al passo era impresa ardua. Prima di Natale traducevo le stesse versioni che venivano assegnate a mia sorella al quarto anno dello scientifico. Tutti noi, anche io che studiavo poco, ci trovavamo a fare notte per terminare le versioni e i compiti vari. I voti potevano essere bassissimi.  Ma lei agiva senza tentennamenti, con meticolosità chirurgica.
Ho amato senza ombre questa professoressa che ha insegnato il greco ed il latino ad una ragazzina che non voleva studiare ma che voleva una professoressa vera, una professoressa vera di greco e di latino. Credo che tutti noi, io ed i miei compagni, molti dei quali si sarebbero rivelati bravissimi e molto più bravi di me, la abbiamo amata molto, anche quelli che arrancavano così tanto da non farcela. Devo a lei l’avere iniziato a studiare davvero e devo a lei soprattutto la precisione con cui mi accosto tuttora allo studio, cioè a ciò che più mi piace. E ho amato questa professoressa che non ha avuto bisogno di un di più per farci sentire a nostra volta amati e profondamente rispettati. Chiedeva moltissimo col suo solo essere come era, e noi avevamo due strade, o studiare sodo per sperare di conseguire dei risultati che, comunque, obiettivamente restavano davvero difficili da ottenere, o continuare a studiare meno, se non poco, accettando però, senza batter ciglio, i risultati mediocri che inevitabilmente sarebbero arrivati. Risultati mediocri significavano un quattro se andava bene. Alla fine dell’anno furono bocciati otto ragazzi. Una quantità spropositata fu rimandata a settembre.
Era una scuola selettiva quel liceo classico. Questo significa la ‘scuola classista’? Allora non mi ponevo neanche il problema, invece ora, con il senno di poi, potrei obiettare che quell’approccio così rigido tagliasse le gambe ad alunni che avrebbero potuto fare meglio in un contesto più ‘inclusivo’, come si dice adesso. Ma non credo che fosse così. Molti di noi provenivano da famiglie di una borghesia benestante. Molti di noi erano ‘culturalmente’ avvantaggiati per questo. Credo anche che la mia classe (come altre classi della scuola) fosse stata falcidiata proprio per questo motivo. Se pensi di poterti permettere un percorso particolarmente difficile, visto che lo hai scelto, non c’è motivo che tu abbia degli sconti. Ma sulla scelta, importante questione, tornerò dopo. Intanto è bene precisare che alcuni miei compagni provenivano invece da famiglie piccolo borghesi o in rarissimi casi – azzardo nella mia immaginazione – proletarie (per usare le categorie che si usavano allora) e con alle spalle, probabilmente, una formazione acquisita soltanto a scuola. Molti di loro divennero decisamente bravi. La verità è che la vera selezione, l’unica selezione che esisteva in quella classe, quando c’era la mia professoressa, era quella delle stesse materie, soprattutto quella del greco e del latino. Per quello io sentivo e sento l’umanità della mia professoressa come qualcosa di assolutamente puro.
Semmai il problema per alcuni degli studenti delle scuole superiori  di allora poteva emergere prima, alle elementari e alle medie. Quando un ragazzino, cresciuto in una famiglia ‘culturalmente’ svantaggiata, prova interesse per una o più specifiche materie, la scuola elementare e la scuola media svolgono il loro dovere nel momento in cui questa potenzialità si traduce in atto senza sforzi, oggi come ai tempi della mia infanzia e adolescenza. Captare non la buona capacità di maniera ma il gusto del bambino e del preadolescente lo accompagna secondo me ad una vita coinvolgente a scuola, in grado di prescindere dal contesto culturale di provenienza, di non dipenderne in modo così limitante.
Io, alle elementari e alle medie, avevo scoperto la scrittura e, senza consciamente volerlo e mio malgrado, anche come intuire con particolare precisione i sentimenti e le emozioni degli altri. Ma ero decisamente propensa a convincermi che nessuno si potesse accorgere di queste mie qualità. Ci pensò un’altra professoressa importante a farmi ricredere. Anche questa insegnava lettere. Con quella del ginnasio avrei sperimentato la soddisfazione di sentirmi al centro di un percorso di alto livello, con l’insegnante delle medie mi affacciavo ad una dimensione nuova, ‘trasumanavo’. Questa aveva in comune con quella la sobrietà, cioè l’intenzione di tenere bene alla larga le moine, quando si parla di stima e di considerazione, anzi, proprio perché si vuole parlare di stima e di considerazione. Una sobrietà che io apprezzo oltremodo.
La professoressa delle medie mi riprendeva con molta calma ma anche con decisione, guardandomi dritta negli occhi mentre io li abbassavo, se mi vedeva nervosa, inquieta, presa da altro. Riprendeva con seria bonarietà la ragazzina pasticciona e confusa che a volte potevo essere. Eppure scelse me, si rivolse a me quando ebbe bisogno di fare sul serio, quando ebbe bisogno, in un piccolo allievo, di qualcosa che si trovasse a metà strada tra responsabilità ed umanità.
C’era da scrivere una lettera ad una paziente dell’ospedale, una lettera di speranza scritta da un ragazzino di tredici anni, e la mia professoressa delle medie lo chiese a me. Mi chiamò un giorno alla cattedra e mi spiegò il progetto. Aggiunse che si rivolgeva prorpio a me per la sensibilità che mi caratterizzava. All’epoca il termine ‘sensibilità’ non era scaduto come ora. Ora, se uno piange facilmente, non viene ritenuto ‘fragile’, ma ‘sensibile’. Quando io frequentavo la terza media essere sensibili significava capire il prossimo, entrare in sintonia con lui e con la sua sofferenza, anche se, come nel caso che ho raccontato, si tratta di un prossimo sconosciuto e riconoscibile solo per la sua stessa sofferenza. La mia professoressa delle medie aveva capito che la Daniela che ogni tanto sembrava svagata o mattacchiona entrava facilmente in sintonia con il dolore altrui. Che lo faceva seriamente. E che lo faceva perché lei stessa provava dolore.
Ringrazierò sempre questa mia professoressa per la fiducia che mi accordò, per aver visto oltre, per avermi preferito tra gli altri nella ricerca di un alunno affidabile, quando a me pareva di apparire tutto tranne che affidabile.
Ma torno a quel IV ginnasio che avanzava.
Ad un certo punto capii che la superiorità intellettiva sui miei compagni di classe, vantata all’inizio, non aveva fondamento. Nello stesso tempo realizzavo che i miei risultati scolastici non eccellenti erano innanzitutto giusti. Erano tra l’altro aderenti alla mia personalità, a tutto quel mondo interiore frantumato troppo presto. Un mondo che non avrebbe potuto in alcun modo essere ricostruito se avessi frequentato un’altra scuola più ‘facile’, un’altra professoressa, e se avessi avuto sempre otto. Perché non sono i voti che ricostruiscono i mondi. Non lo sono i voti troppo alti, dati per una sorta di pietismo, che corrisponde in realtà, io credo, a una profonda mancanza di rispetto per chi deve essere valutato; o dati per comodità, vale a dire per paura dei genitori, per paura dei colleghi e/o per paura del dirigente. E non lo sono neanche quelli troppo bassi – del tutto simili a quelli che avevano escluso a priori i ragazzi poveri al tempo di Barbiana – dati per aumentare il proprio carisma, o per vendicarsi, o per mostrarsi coraggiosi di fronte a genitori, colleghi e/o dirigente, o per mostrarsi, di fronte agli stessi, semplicemente più ‘esigenti’.
Dietro l’azione della mia professoressa del ginnasio c’era la risolutezza di chi è calmo perché conosce la direzione lineare della valutazione competente ma soprattutto libera, scevra da impedimenti nevrotici; insomma, autentica.
La verità è che lo sporco di un voto è nella sua inautenticità, in nient’altro.
La mia professoressa era onesta, quando lavorava. E poiché l’onesta è una categoria dell’intelligenza, io mi affidavo a piene mani all’intelligenza di questa donna che aveva intuito perfettamente, senza che i miei genitori fossero andati mai a mendicare alcunché, senza che diminuisse anche di un mimimo la severità con cui mi insegnava, quale fosse l’entità del mio disagio. Accadeva ancora una volta, dopo l’insegnante delle medie. Che i miei genitori, poi, potessero concepire di andare a mendicare pietismi era un dato completamente fuori questione, non solo perché il ruolo dei genitori era più misurato, al tempo, ma perché i miei, in particolare, vivevano il mio impegno con la scuola con molto, forse totale, distacco. Ma i docenti non dovrebbero aver bisogno di certe ‘confidenze’, dovrebbero poter capire da sé, intuire, immaginare. Si possono non conoscere le realtà concrete che si agitano nella vita privata di un discente, ma se ne possono osservare molto bene ogni giorno le conseguenze, se si è disposti ad osservare. E quando si osserva e si intuisce e si abbraccia metaforicamente l’alunno, si può restare rigorosi senza tradire il patto stretto con lui di garanzia di una valutazione trasparente.
Proprio in quegli anni trovai a casa Lettera ad una professoressa, lo lessi e ne rimasi folgorata. Era facile per me entrare in pieno nel discorso dei ragazzi di Barbiana, vivendone l’esperienza della diversità e della pietas, avendo percorso di quest’ultima, per una qualche necessità cui ho già accennato, tutta l’evoluzione del suo significato originario, quello che arriva infine alla comprensione e al conseguente rispetto per il dolore altrui.
Faccio fatica ad immaginare una qualsiasi contraddizione tra il lavoro svolto dalla mia professoressa al ginnasio e la rivendicazione di don Milani e dei suoi ragazzi. La mia personale sofferenza univa le due esperienze e le ha sempre unite, fino a quando io stessa non sono diventata, con decisione, insegnante.
Ora non esiste più il tipo di scuola ‘severa’ che ho vissuto da studentessa del liceo. Molti ne incolpano lo stesso don Milani, ma in realtà lui non c’entra proprio niente. Anzi. Lui e i suoi ragazzi hanno preceduto e di molto i miei anni al liceo, quindi la loro influenza aveva già fatto in tempo a calarsi in qualche modo nelle scuole italiane. Per esempio, alle scuole medie ottenevamo giudizi, mai i voti. Ma la vera suggestione offerta da quella esperienza e nella sua rivendicazione nella Lettera va ben oltre quella burocratizzazione dell’ empatia e della bontà che mi sembra ora scaturire da tante indicazioni ministeriali e norme varie.
“Così, da undici anni in qua” – scrive don Milani nella stupenda Lettera ai giudici (1) – “la più gran parte del mio ministero consiste in una scuola.
Quelli che stanno in città usano meravigliarsi del suo orario. Dodici ore al giorno, 365 giorni l’anno. Prima che arrivassi io i ragazzi facevano lo stesso orario (e in più tanta fatica) per procurare lana e cacio a quelli che stanno in città. Nessuno aveva da ridire. Ora che quell’orario glielo faccio fare a scuola dicono che li sacrifico. […]
Una scuola austera come la nostra, che non conosce ricreazione né vacanze, ha tanto tempo a disposizione per pensare e studiare.”.
Credo che l’alunno, nella sincerità del suo profondo, non faccia altro che chiederci a viva voce quell’austerità di cui si parla qui, credo che ne abbia una nostalgia struggente come di una cosa perduta prima ancora di conoscerla davvero. Quello dovremmo sapere se ci sta davvero a cuore (espressione non scelta a caso) il ragazzo che impara a diventare una persona adulta.
La verità è che io, nel contesto privilegiato di una scuola che di fatto escludeva i vari proletariati e sottoproletariati, potevo ugualmente comprendere l’ideale che aveva preso corpo nella scuola alternativa di don Milani, il suo incedere implacabile che partiva dalla centralità della timidezza del povero ed andava avanti ad interessarsi dell’ “ultimo” che diventava il “primo”. È questo il punto. Nel liceo borghese di Prati, ero una ragazza tutt’altro che povera e culturalmente indietro, ma facevo parte di certi ultimi anch’io. E quello che ho ricevuto, nel rigore estremo di cui ho parlato, non credo sia lontano dalla serietà, dalla caparbietà con cui si ‘favoriva’ l’ultimo, non il primo, a Barbiana.
Barbiana offriva la scuola a tutti perché “nessuno è negato per gli studi”. Oggi, in cui si sono di parecchio aperti i confini tra i vari indirizzi, la scuola, che dovrebbe avere raggiunto in Italia la massima apertura in tutto l’arco della propria storia, si offre davvero a tutti? Oggi la scuola offre a tutti un voto tutto sommato dato con indolenza o con paura e offre a tutti, più che mai, non un percorso che tenga conto, arrivati al passaggio alle superiori, di inclinazioni e gusti, ma misurato su categorie come ‘livello di difficoltà’ e ‘livello di prestigio’. Insomma, le difficoltà che dovrebbero comunque esistere in qualsiasi indirizzo, sono sempre meno presenti. Ormai è piuttosto comune scegliere di volta in volta prevedendo la loro nulla, blanda o accettabile presenza. Il prestigio è ancora molto legato alla vecchia mentalità: liceo in primis, poi i tecnici, poi i professionali. Dunque si ragiona su entrambe le categorie equilibrandone il peso in base ai propri scopi: a quanto prestigio mi permetto di ambire in rapporto al livello di difficoltà (sarebbe meglio dire di ‘facilità’) che il dato indirizzo garantisce? Insomma il massimo risultato col minimo sforzo è ciò che sta alla base, mi pare, di troppe logiche che riguardano l’orientamento scolastico.
La mia non – logica di intraprendere studi di per sé molto impegnativi nonostante un personalissimo malessere mi rendesse una studentessa poco efficiente, era la fattiva logica che, secondo me, ancora dovrebbe sorreggere ogni scelta di studio.
L’offerta, ora, si è adeguata ad altri tipi di richieste, oppure la domanda non trova riscontro davvero in una diversificazione, nel merito, delle proposte, una diversificazione basata su indirizzi di studio svolti comunque con rigore, con serietà. Oggi di rigoroso c’è solo una sorta di prepotenza delle norme nel loro difendersi da un’altra prepotenza, quella dei genitori: se il figlio è “negato per gli studi”, per ripetere l’espressione della Lettera, la prepotenza dei genitori scardina ogni tentativo della scuola non di offrirsi, ma di essere giusta. Essere giusti a scuola significa essere rispettosi delle sofferenze, delle difficoltà senza passare attraverso scorciatoie poco dignitose e pericolose per tutti. Se a monte esiste la reale o presunta prepotenza dei genitori (e la conseguente prepotenza della burocrazia) che mi impedisce di offrire, e non la mia incapacità a offrire, ciò probabilmente taglierà le gambe a qualsiasi forma di insegnamento giusto, quindi rispettoso, quindi efficace. Molti pensano che è proprio l’offerta ‘inclusiva’ che ha creato la prepotenza, ma io non sono d’accordo. L’inghippo è nel fatto che si è scambiata l’offerta ‘inclusiva’ col voto alto. Le due cose non c’entrano nulla.
Lettera ad una professoressa, nel suo incedere, faceva dell’ironia sulla pedagogia. Quell’ironia non era altro che l’attacco alla burocratizzazione dell’empatia e del pietismo di cui parlavo prima e dimostra che tutte quelle retoriche psicopedagogiche non hanno niente a che fare con don Milani. Dimostra, inoltre, che lo precedevano cronologicamente e che semmai da quelle teorie sarebbero poi scaturite le derive normative che hanno reso la scuola troppo spesso flaccida, demotivata, incompetente, una scuola che in concreto ha continuato ad ignorare gli alunni.
In realtà gli alunni amerebbero la scuola, viene affermato in Lettera ad una professoressa, ma la scuola stessa dà per scontato che non la amino. Spesso aleggiano tra gli addetti ai lavori una sfiducia e una derisione (che in realtà è rabbia verso la propria impotenza) nei confronti di quelli che provano ancora ad avere fiducia verso il disinteressato desiderio di cultura da parte dello studente, e quindi aleggia ostilità nei confronti di chi riconosce la diffusa burocratizzazione dei processi didattici, di chi dichiara verso di essa la propria decisa insofferenza ed esprime viceversa l’intenzione di esaltarsi nel tentativo di offrire a piene mani la propria passione. Serpeggia una sfiducia a monte e una necessità della sfiducia, per preservare se stessi dall’angoscia di ritenersi responsabili, individualmente, dell’indifferenza degli alunni. E’, questa, una rinuncia che non ha nulla a che fare con la poca voglia di lavorare, anzi, spesso i docenti lavorano letteralmente moltissimo, con un accanimento che spesso tradisce, probabilmente, proprio quell’angoscia: lavorare molto per dire a se stessi di non essere dei cialtroni, degli scansafatiche, per togliersi ogni responsabilità della deriva della scuola. Ma non avere presente il senso di tale deriva è rinunciare, ribadisco, a lottare contro di essa nell’unico modo possibile: riempire di sincerità l’insegnamento con le azioni la cui semplicità misura ormai tutto il loro coraggio.
Sulla scia anche della riflessione di Recalcati (2) mi fermo sul concetto dell’amare chi impara in quanto impara. Amarlo quindi nella sua non matura età che di conseguenza si offre naturalmente all’apprendimento: tutti hanno bisogno di imparare, ma il bambino, l’adolescente, il giovane mantengono la freschezza dell’inesperienza, e tale freschezza li riscatta, qualsiasi cosa essi siano. Loro non sono alla pari con l’adulto, con l’insegnante, perché non ne hanno la stessa responsabilità. Mettersi alla pari con un discente, anche quando è un maggiorenne, è abbandonare il proprio ruolo di esempio, è divenire inutili nella pratica quotidiana e addirittura dannosi nella gestione delle situazioni critiche. Che l’amare chi impara non sia parola vuota sta alla franchezza intellettuale e psichica del docente: cosa si prova davvero al contatto col discente? Cosa è questo discente? Si tratta, ma solo ogni tanto, di un bambino o di un ragazzo ammirevole per la sua maturità o per la sua intelligenza? Solo qualche volta, di una persona ‘carina’ perché simpatica o perché pervasa da buone maniere o perché ligia al dovere, perché non dà problemi o perché è timidissima, con difficoltà personali e/o scolastiche, ma umile e pertanto innocua, perché insomma fa tenerezza? Ma cosa davvero si prova per qualunque discente? Quale è il minimo comune denominatore? Il minimo comune denominatore è il fondo che dà importanza alle differenze (ritorna il motto di don Milani), il fondo è il bisogno. Il discente ha bisogno di imparare, il suo bisogno cattura l’attenzione del docente. L’attenzione del docente trasforma il bisogno del discente in quanto tale nel bisogno della persona in quanto persona. Quella trasformazione non può non prodursi, nel momento in cui c’è attenzione al bisogno. Ecco perché l’amare chi impara. Amare chi impara significa riconoscere il bisogno e renderlo ‘lavorabile’ nella comprensione (etimologicamente un afferrare e contenere insieme, un raccogliere e tenere ben fermo) della persona che lo possiede. Ed ecco perché le parole di Milani sono ancora vive.
All’unisono con l’amare chi impara si forgia, come ho anticipato tra le righe, la passione per il sapere. La passione è tale in quanto si sa di non sapere: chi sperimenta tale passione sa bene di cosa parlo, senza il bisogno di citazioni teoriche e ulteriori riflessioni di sorta. Chi insegna deve averlo deciso grazie ad un imprescindibile amore per lo studio, non certo per la gratificazione ricevuta dai risultati della scuola, dell’università, di corsi vari, master, scuole abilitative, concorsi, pubblicazioni, ecc. ecc., non certo per il sogno del successo che ne potrebbe derivare o del successo del ‘dopo’, quello che si ottiene dalle varie attività intraprese, per esempio dall’insegnamento stesso. Chi insegna deve averlo deciso proprio per lo studio, ripeto. Se un insegnante ‘legge solo d’estate’ perché ‘gli manca il tempo’, c’è qualcosa che non quadra. Se un insegnante non sa come finire di spendere il bonus perché compra pochi libri o non li compra affatto, c’è qualcosa che non quadra.
Insegnare deriva da uno strano limite (non l’unico, ma ora parlo di questo, che comunque è in cima): essere necessariamente affamati, indietro, ‘mancanti nell’efficienza’ e ‘non aver fatto fino in fondo il proprio dovere’, perché essere insegnanti richiede quella parte di ‘sequestro di sé’, di ‘non disponibilità ad altro’, di perdita di tempo e di energia su ‘cose inutili’, quella parte però – l’unica – vitale, in quanto piena del gusto, del piacere che è l’immergersi nella propria passione per lo studio. L’invasamento, l’entusiasmo (essere posseduti dal dio), il rapimento che porta altrove, deriso e criticato come il rapimento del fannullone, è quello stesso che consente il vero insegnamento.
C’è chi sperimenta questa grazia, ma è come se avesse paura di utilizzarla fino in fondo per il proprio lavoro di insegnante, è come se preferisse agire su due strade parallele che non riescono quasi mai ad intersecarsi. La doppia vita dell’insegnante pauroso è, secondo me, il segno più sconvolgente della sconfitta della scuola. Un uomo, una donna che sperimentano l’amore per lo studio e disperdono questa risorsa necessaria nel loro lavoro perché la scuola la rifiuta, perché la scuola impedisce l’unica condizione che la farebbe davvero essere scuola, sono dei potenziali meravigliosi insegnanti sconfitti dal loro stesso essere insegnanti. Ecco perché invoco ancora don Milani.

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In appendice, questo brano –  fondamentale – tratto dai Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci (3).

Non si impara il latino e il greco per parlare queste lingue, per fare i camerieri o gli interpreti o che so io. Si imparano per conoscere la civiltà dei due popoli, la cui vita si pone come base della cultura mondiale. La lingua latina o greca si impara secondo grammatica, un po’ meccanicamente: ma c’è molta esagerazione nell’accusa di meccanicità e aridità. Si ha che fare con dei ragazzetti, ai quali occorre far contrarre certe abitudini di diligenza, di esattezza, di compostezza fisica, di concentrazione psichica in determinati oggetti. Uno studioso di trenta-quarant’anni sarebbe capace di stare a tavolino sedici ore filate, se da bambino non avesse «coattivamente», per «coercizione meccanica» assunto le abitudini psicofisiche conformi? Se si vogliono allevare anche degli studiosi, occorre incominciare da lì e occorre premere su tutti per avere quelle migliaia, o centinaia, o anche solo dozzine di studiosi di gran nerbo, di cui ogni civiltà ha bisogno […].
Il latino e il greco si presentano alla fantasia come un mito, anche per l’insegnante. Il latino non si studia per imparare il latino, si studia per abituare i ragazzi a studiare, ad analizzare un corpo storico che si può trattare come un cadavere ma che continuamente si ricompone in vita. […]
Si paragona continuamente l’italiano e il latino: ma ogni parola è un concetto, un’immagine, che assume sfumature diverse nei tempi, nelle persone, nelle due lingue comparate. Simstudia la,storia letteraria, la storia dei libri scritti in quella lingua, la storia politica, le gesta degli uomini che oarkavano quella lingua. È questo comolesso organico che determina l’educaziine del giovinetto, il fatto che anche solo materialmente ha oercorso tutto quell’itinerario, con quelle tappe, ecc. ecc. Questo studio educava senza averne la volontà espressamente dichiarata,  anche col minimo intervento dell’insegnante. Esperienze  logiche, psicologiche, artistiche, ecc. erano fatte senza riflettervi su, ma era fatta soecialmente una grande esoerienza storica, di sviluppo storico.
Naturalmente io non credo che il latino e il greco abbiano delle qualità taumaturgiche intrinseche: dico che in un dato ambiente, in una data cultura, con una data tradizione, lo studio così graduato dava quei determinati effetti. Si può sostituire il latino e il greco e li si sostituirà utilmente, ma occorrerà sapere disporre didatticamente la nuova materia o la nuova serie di materie, in modo da ottenere risultati equivalenti di educazione generale dell’uomo, partendo dal ragazzetto fino all’età della scelta professionale. In questo periodo lo studio o la parte maggiore dello studio deve essere disinteressato, cioè non avere scopi pratici immediati o troppo immediatamente mediati: deve essere formativo, anche se «istruttivo», cioè ricco di nozioni concrete.
Nella scuola moderna mi pare stia avvenendo un processo di progressiva degenerazione: la scuola di tipo professionale, cioè preoccupata di un immediato interesse pratico, prende il sopravvento sulla scuola “formativa” immediatamente disinteressata. La cosa più paradossale è che questo tipo di scuola appare e viene predicata come “democratica”, mentre invece essa è proprio destinata a perpetuare le differenze sociali.  Come si spiega questo paradosso? Dipende, mi pare, da un errore di prospettiva storica tra quantità e qualità. La scuola tradizionale è stata “oligarchica” perché frequentata solo dai figli della classe superiore destinati a diventare dirigenti: ma non era oligarghica per il modo del suo insegnamento. Non è l’acquisto di capacità direttive, non è la tendenza a formare uomini superiori che dà carattere sociale a un tipo di scuola.  Il carattere sociale della scuola è dato dal fatto che ogni strato sociale ha un proprio tipo di scuola destinato a perpetuare in quello strato una determinata funzione tradizionale. Se si vuole spezzare questa trama, occorre dunque non moltiplicare e graduare i tipi di scuola professionale, ma creare un tipo unico di scuola preparatoria (elementare-media) che conduca il giovane fino alla soglia della scelta professionale, formandolo nel frattempo come uomo capace di pensare, di studiare, di dirigere o di controllare chi dirige. Il moltiplicarsi di tipi di scuole professionali tende dunque a eternare le differenze tradizionali, ma siccome, in esse, tende anche a creare nuove stratificazioni interne, ecco che nasce l’impressione della tendenza democratica. [… ] Ma la tendenza democratica, intrinsecamente, non può solo significare che un manovale diventi operaio qualificato, ma che ogni “cittadino” può diventare “governante” e che la società lo pone sia pure “astrattamente” nelle condizioni generali di poterlo diventare […]. La scuola va organizzandosi sempre più in modo da restringere la base della classe governativa tecnicamente preparata, cioè con una preparaziine universale storico-critica. […]
Anche lo studio è un mestiere e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio anche nervoso-muscolare, oltre che intellettuale: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo e il dolore e la noia. La partecipazione di più larghe masse alla scuola media tende a rallentare la disciplina dello studio, a domandare “facilitazioni”. Molti pensano addirittura che la difficoltà sia artificiale, perchè sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale. È una quistione complessa. Certo il ragazzo di una famiglia tradizionalmente di intellettuali supera più facilmente il processo di adattamento psicofisico: egli già entrando la prima volta in classe ha parecchi punti di vantaggio sugli altri scolari, ha un’ambientazione già acquisita per le abitudini famigliari. Così il figlio di un operaio di città soffre meno entrando in fabbrica di un ragazzo di contadini o di un contadino già sviluppato per la vita dei campi. Anche il regime dei cibi ha un’importanza, ecc. ecc.
Ecco perchè molti del “popolo” pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un “trucco” a loro danno; vedono il signore (per molti, nelle campagne specialmente, “signore” vuol dire “intellettuale”) compiere con scioltezza e con apparente facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue, e pensano ci sia un “trucco”. In una nuova situazione politica, queste quistioni diventeranno asprissime e occorrerà resistere alla tendenza di rendere facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato. Se si vorrà creare un nuovo corpo di intellettuali, fino alle più alte cime, da uno strato sociale che tradizionalmente non ha sviluppato le attitudini psico-fisiche adeguate, si dovranno superare difficoltà inaudite.

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(1) Don Milani, Lettera ai giudici, in Lettere di Don Lorenzo Milani, a cura di Michele Gesualdi, Mondadori, 1970.
(2) Massimo Recalcati, L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Einaudi, 2014.
(3) Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere , 4  (XIII), 55, Einaudi, 1975.

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