Altri mari. Prosa e poesia

Prosa e poesia. La prosa è quella di Marina Corradi nel suo articolo Una foto che parla. Quelle grida senza ascolto pensiamoli nostri figli, pubblicato oggi su Avvenire.it.
Stamani ho ascoltato questo brano alla radio, letto dal giornalista di Prima pagina (Radio 3), che in seguito ha dato lettura anche di un paio di messaggi degli ascoltatori sul tema. L’autore del primo dei messaggi si diceva indignato per il racconto della tragedia avvenuta in mare, in quanto trattavasi, a suo dire, delle ennesime parole ipocrite di gente ipocrita, che finge di commuoversi nel calduccio della propria realtà. L’ascoltatore alla fine ha annunciato che avrebbe spento la radio. Il secondo dichiarava di appoggiare la scelta del primo, considerandola però tardiva, visto il “collaborazionismo” della rete radiofonica in questione, il quale avrebbe dovuto indurre già da tempo la doverosa scelta di non ascoltarla più.
A parte il secondo grottesco messaggio, ho trovato di un cinismo raccapricciante questa indignazione per i racconti giornalistici di ciò che è avvenuto, e che guarda caso riguarda i migranti. Costui si indigna ogni volta anche di ogni notizia tragica di cui giornalmente i giornali ci informano? O è proprio di migranti che attraversano il mare – e che ci muoiono- non si dovrebbe parlare, in nome del disprezzo della retorica?
Vogliono, mi pare, in tanti, sempre più, far credere che la dichiarata partecipazione a questo tipo di eventi sia esternazione ridicola a cui contrapporre il silenzio, perché quella denoterebbe soltanto il famoso “buonismo borghese” o il “radicalismo chic” che dir si voglia. Ma io questa accusa la trovo particolarmente odiosa, per altro accompagnata dalla solita pratica di criticare non l’affermazione in sé di qualcuno, ma il qualcuno stesso, con le sue più o meno velate intenzioni, ammesso (e ovviamente non concesso) che si comprenda davvero quali esse siano.
È tanto più odiosa per me, che non ho mai dimenticato la fortuna di aver potuto godere, a suo tempo, di qualche privilegio borghese (fondamentalmente la possibilità di studiare, quindi il pagamento delle tasse universitarie e l’acquisto di alcuni, pochi, libri), ma neanche ho saputo dimenticare quella buona dose di tragedia che comunque la vita non mi ha risparmiato. E siccome è il dolore ad avvicinare al dolore, non ho bisogno della retorica per parlarne, e disprezzo a mia volta i ragionamenti che attribuiscono retorica a certe parole, soltanto evidentemente, per zittirle.
Io oggi quindi non zittisco Marina Corradi amplificandone lo scritto con il riportarlo qui.

La poesia è una di quelle composte da Erri De Luca. Ancora una volta infatti non voglio zittire neanche Erri De Luca, l’antipatico e sopravvalutato Erri De Luca, che, borghese, si è vantato dei suoi giri in camion nella ex Jugoslavia in guerra e della sua vita di operaio che si alzava alle quattro per studiare l’ebraico. Erri De Luca ha scritto un libro di poesie sui disperati, che io trovo belle, come molte cose fatte da lui, e so che la sua pietas è sincera. Tanto basti. Ci mancherebbe che io abbia remore a farlo parlare.

Ecco l’articolo:

“In una foto diffusa da Sos Mediterranée il cadavere di un uomo galleggia in mare, avvinto a un salvagente. Indossa una giacca a vento, il cappuccio nero gli nasconde il volto. Non è annegato: forse ha retto a lungo, nell’attesa di un salvataggio che non è arrivato. L’uomo è morto di ipotermia, cioè di freddo, giovedì scorso, insieme ad altri 130 migranti. In acque Sar, acque internazionali di competenza libica quanto ai soccorsi. Alarm Phone, il centralino civile che raccoglie gli Sos, aveva lanciato l’allarme mercoledì alle 14. In oltre 24 ore né Frontex né la cosiddetta Guardia costiera libica si sono mosse. Nemmeno un mezzo militare italiano. «Li hanno lasciati morire », dicono dall’Oim, l’Agenzia Onu per i migranti.

La registrazioni di Alarm Phone testimoniano che, avvertita, la Guardia libica non attiva le sue motovedette – donate dall’Italia. Il mare si sta alzando, sul gommone sono nel panico. La batteria del satellitare, gridano, sta per esaurirsi. Al tramonto però vedono sopra di loro un piccolo aereo di Frontex. Chissà che tumulto nel cuore di quegli uomini (e donne, e forse bambini): un aereo ci ha avvistati, siamo salvi. Ma, niente all’orizzonte. E quell’aereo? Frontex in un comunicato afferma di avere lanciato la segnalazione. L’ultimo contatto con il gommone è delle 20. Alle 22 la Guardia costiera libica risponde ai volontari: mare troppo agitato, non usciamo. È calata la notte. La Ocean Viking, della Sos Mediterranée, fa rotta più rapidamente che può verso le coordinate ricevute, ma il mare è pessimo, le occorreranno dieci ore. All’alba, Alarm Phone risollecita Frontex. Risposta: «Gentile Signore/a, grazie per la vostra e-mail. Si informa che Frontex ha immediatamente inoltrato il messaggio alle autorità italiane e maltesi». Poi, per ore e ore, nessuno interviene. Quando la Ocean Viking e tre mercantili civili arrivano sul posto trovano un gommone sfasciato, e dieci annegati.

Quel poveretto ferocemente attaccato, nel rigore della morte, a un salvagente, è quanto ci è dato di vedere di questa terribile notte. Guardiamolo bene, però. È giovane, come lo sono tutti quelli che riescono a superare estenuanti odissee dall’Africa subsahariana, e poi fuggono dalla Libia. Sotto alla giacca a vento chissà quante maglie aveva: fanno così, i migranti, contro il freddo, s’infilano addosso tutto il poco che hanno. Ben coperto, l’uomo confidava di farcela. Come i suoi compagni certo sapeva a memoria il cellulare della madre o del padre, per chiamare, appena toccato terra. Vent’anni aveva, forse? L’età in cui i nostri figli ci sembrano ancora ragazzini, cui perdonare ogni cosa.

Ma, lo aveva mai visto il mare? Piatto forse, in una bella giornata, non terribile come l’altra notte. E noi, riusciamo a immaginare i suoi occhi, su quel gommone sollevato come un fuscello? Uno dei miei figli è bruno e ha gli occhi neri, come molti italiani. Non succede a voi di sovrapporre per un istante la faccia di un figlio, alla faccia dello sconosciuto in mare? (Forse per questo tre mercantili hanno deviato dalle loro rotte, perché, stando in mezzo alla tempesta, qualcuno ha pensato ai suoi figli, e ha avuto pietà).

Ma ai centralini di soccorso di Tripoli e a quelli di Roma, di La Valletta e dei controllori europei dei confini l’allarme rimbalzava reciprocamente (tocca a loro, tocca ad altri – e poi, nel caso, dove li portiamo? In Libia è vietato riportare migranti. Non restava che l’Italia, o Malta. Che notte fonda, quella di questo 22 aprile, e non solo nel Mediterraneo. Mentre tutti i media italiani ed europei erano su Superlega o sul Covid, sui lockdown o i colori delle zone, sui permessi per le seconde case, quanto nera doveva essere la notte, negli occhi di quegli uomini in mare. Di quell’uomo forsennatamente attaccato a un salvagente, tanto che nessuna onda è riuscito a strapparglielo.

Che disperata voglia di vivere doveva avere, e che forza nelle braccia – la forza dei vent’anni. Guardiamo i nostri figli, questa sera. Davvero non gli somigliano per niente? E questa Europa, invece, a cosa somiglia? A un’enclave chiusa da alte mura. Dentro, stiamo morendo di paura più ancora che di Covid. E, ossessionati, non alziamo lo sguardo. A un disperato Sos non risponde nessuno. «Gentile signore/ signora, grazie della vostra email…». Come una voce registrata nell’ufficio vuoto di una città abbandonata, a Ferragosto. A questo, l’altra notte, somigliavamo.”

Ed ecco la poesia:

Siamo gli innumerevoli, raddoppio a ogni casa di scacchiera
lastrichiamo di scheletri il vostro mare per camminarci sopra.

Non potete contarci, se contati aumentiamo
figli dell’orizzonte, che ci rovescia a sacco.

Siamo venuti scalzi, invece delle suole,
senza sentire spine, pietre, code di scorpioni.

Nessuna polizia può farci prepotenza
più di quanto già siamo stati offesi.

Faremo i servi, i figli che non fate,
nostre vite saranno i vostri libri d’ avventura.

Portiamo Omero e Dante, il cieco e il pellegrino,
l’odore che perdeste, l’uguaglianza che avete sottomesso.

(Erri De Luca, Solo andata. Righe che vanno troppo spesso a capo, Feltrinelli, 2005).

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