Un incanto da nulla. Piccola antologia di poesie inedite di Valentina Tassini

Daniela Gliozzi, N. 1874

 

Esiste un amore per la poesia che deve fare a meno dell’amore per la poesia. Un amore che vuole essere poco inteso, un incanto da nulla.
Le poesie di Valentina Tassini, di cui intendo riportare alcuni esempi, tratti da due belle raccolte inedite, lasciano che la deminutio del “poetico” svolga la sua presa di posizione, a rendersi traccia di una condizione nitida: essere poeti in totale assenza di volontà di esserlo, essere poeti in quanto manca, senza ombre, la volontà di esserlo. Ne scaturiscono versi da una memoria più antica, che sorpassa letture, interessi e curiosità letterarie, per arrivare alla scrittura.
E poiché tale mancanza di volontà (la volontà di chi ama la poesia) si presenta alla scrittura ferma, sicura, ne è accesa una dinamica che qui oppone livelli in continuo movimento, il profondo deriva dal semplice, il concreto dall’astratto, il pieno dal vuoto[1], lo straordinario dal quotidiano  (o viceversa: quale elemento di ciascuna delle coppie sia infatti quello misterioso non si può dirlo) perché è l’alternanza il perno di questa poesia inquieta, un doppio fuoco che sia per forza di cose alternanza, e perché c’è sempre un qualcosa, dentro questo discendere e risalire, che rimane a fine lettura appunto misterioso, e questo misterioso è un senso di sgomento pronunciato nella più pura naturalezza.
Quella di Valentina Tassini è infatti una di quelle versificazioni che scendono giù dal loro dosso rotolando e arrivano in un attimo scompigliate e libere. Ecco che si stampa sulle loro labbra il sorriso della cosa fatta, e fatta bene, con uno sforzo, se sforzo si può chiamare, beato, come un rinvenire da uno stato di estasi o di mancanza di sensi. Il misterioso è solo il frutto di questa discesa incosciente.
Sia chiaro, Valentina è un’ottima lettrice, è colta. Ma mi sono chiesta fino a che punto ciò in lei abbia voluto influenzare l’atto creativo, non proponendomi una “questione di percentuale”, ma per capire quanto e come si possa davvero accantonare la conoscenza poetica, come si possa conservare l’incanto del poeta che è anche lettore di opere altrui, soltanto nell’intento di vederselo trasformato nell’incanto dell’essere umano, della madre, della donna, dello scrittore stesso, appunto. Perché a me pare sia stata quella l’operazione principale svolta dall’autrice. E’ per quello, per la ricerca di quella quotidianità, svolta nell’ immediatezza, che cominciano ad animarsi i piani e si impiglia da qualche parte nel non detto ciò che doveva essere chiaro e preciso, e ne vien fuori di rimando quel punto di mistero.
La condizione poetica di questo fare senza ricerca d’effetto non può che essere, credo, la brevità, la quale riassume, infatti, tutto ciò che è breve nella vita, nel significato di esposto ad un affermarsi immediato. Che si tratti di visioni o di concetti o di entrambi in un racconto, non fa differenza, l’immediato è il modo di liberarsi di Valentina Tassini, e ciò è tanto più vero in quanto non tutte le sue poesie sono davvero brevi. Ma è la stessa brevità di quelle brevi a dare carattere e identità e ritmo anche a quelle più lunghe.
Un gruppo di queste poesie nasce da un dato essenziale, l’esperienza della maternità.
La maternità è un assoluto nell’ esistenza di una singola madre, ma se viene considerata una molteplicità di eventi che, accomunati, danno luogo al concetto dell'”essere madre”, si rende testimonianza scialba agli occhi esterni, e deve pur finire per esser messa da parte, in poesia, come cosa senza molta presa, e lasciare che emergano ulteriori circostanze capaci di implicazioni più incidenti nell’umano.
Ma ci si interessa comunque ad un libro sulla maternità,  si legge un libro sulla maternità, se quel dato principale si espande, pervade. Investe, cioè, l’esperienza dell’altrui lettura staccandosi dal significato oggettivo di maternità, assumendo al contrario i molti, gli infiniti, che hanno dimora nella sensibilità di ognuno. Operazione della poesia, certo. Basta che sia poesia. Per essere poesia bisogna quindi che possieda qualcosa, e questo qualcosa è ciò che si serve del suo tocco come di un abito non svestibile, di una nudità elegante e necessaria.
Ecco che il misterioso, quanto lo è l’aspetto intimo dell’esistenza, può finalmente emergere nell’immediatezza di una sincerità messa in atto per arrivare speditamente al punto.
Comincio col trascrivere le prime poesie, tratte dalla raccolta centrata sulla maternità:

Il tempo è sospeso,
il mio tempo aspetta,
si posa sulla cose,
riposa nelle stagioni.
Io sono dove non ho mai vissuto.

Pensare di essere lontano
impossibile,
accade solo nel sogno.
Ma difficile
essere dove lui è.

Notare le chiuse. Si insinua qualcosa che scompone i piani. Spesso questi finali, che esplicano, ma che possono – anche allo stesso tempo, e qui sta l’interessante – disfare, sono fulminei, decisi nella loro urgenza che non può che scansare il poetico. E’ come se dicessero: “Via le pose! Non ho tempo da perdere!”
E questa che segue è tutta una chiusa, è tutta un’urgenza: breve perché scaturisce da un tempo lungo, rimasto indietro, il tempo che una madre passa accanto al figliolo che sta dormendo:

Vorrei essere te,
avvolta in tutte le tue coperte
protetta,
in pace.

Ecco l’ultima che riporto dalla medesima raccolta:

Pioggia di primavera
 
Che piova, che piova,
acqua, acqua ad inverdire il nuovo verde,
a rinfrescare le nostre menti,
che ci scorra nei corpi secchi,
irrighi i cuori aridi.
Acqua, acqua che umidifichi la terra
che aspettava.
Voglio
sentire
lo scorrere dei ruscelli,
fossi, torrenti, fiumi,
il mare dell’acqua corrente.
E su di me la sensazione
che toglie la polvere.

Questa poesia è uno degli exempla di quella carica, dell’energia che si sprigiona dalle lunghe attese, dalle lunghe memorie, dalle cristallizzazioni, secchezze, dal sedimentarsi di ragnatele. La chiusa è sempre lì, ad aprire, oltre che a chiudere.

Scelgo ora dalla seconda raccolta, mantenendo l’ordine che ne ha dato l’autrice e partendo da questo stupendo ritratto animato:

Mi affido agli antenati
 
Si toglie le forcine dai capelli,
una ad una,
e piano piano le ciocche cadono.
E da corti, raccolti,
diventano lunghi.
Non è più la stessa donna,
adesso è nuda,
anche se ancora non si è tolta il vestito.
Poi si spoglia
per entrare dentro la vasca da bagno.
Già il profumo di borotalco
racconta l’evento settimanale.
Infine tornerà coi suoi abiti
e la sua maschera tricologica
ad esprimere un senso
di sicura nonnità.

Mi sento ripulita:
la neve mi ha tolto
qualcosa in più,
non per sempre,
per il tempo di percepirlo.
E vedo sul calendario,
appeso al muro
con un chiodo sbagliato,
il primo giorno
di un nuovo anno,
senza appuntamenti.
Come la neve,
come il calendario al primo di gennaio,
mi sento.

Notare in questa ultima la brevità che spunta negli ultimi tre versi, a “rendere breve” tutta la poesia. E notare anche questo identificarsi con l’agente atmosferico, già visto in Pioggia di primavera: la pioggia e la neve che ripuliscono[2]. Ma la pulizia, per l’atto di mistero insito nei versi, è anche sgomento dell’assenza di tempo, della solitudine.
E i frequenti tre ultimi versi che inchiodano tornano anche nella poesia che segue. Anche qui l’urgenza si fa mistero:

Davanti e retro

Davanti le case,
come le persone:
si presentano agghindate,
più o meno ospitali.
Nel retro nascondono,
arruffato,
ciò che serve
ma che non va mostrato.
La mia casa mi somiglia:
sul davanti non offre
grandi addobbi
e dietro non ripone
brutture evidenti.
Similmente,
ciò con cui mi presento
è ciò che nascondo.

Nei versi che seguono affiora la condizione per cui percepirsi qualcosa di altro dal semplice essere colui che ha assunto una cultura e che si avvale quindi del poetico, “viene da prima” ad imporre la sua priorità. Questo qualcos’altro è uno dei possibili incanti di cui parlavo: qui, l’essere donna. I versi finali ne sono l’ovvia conseguenza, con la loro semplicità che tramuta “gesti di secoli” nell’atto subitaneo e freschissimo di far volare lenzuola:

Le donne disfano i letti
e li rifanno
complici
del movimento del vento
e preoccupate per la pioggia.
L’azione si ripete
porta benessere e noia
e anche io
ricalco i gesti di secoli.

Ancora elementi della natura e descrizioni di oggetti minimi a dare identità a chi scrive o a chi si ama, nelle tre stupende poesie che seguono:

La tipula dei prati
 
E’ una grande zanzara,
muove le sue lunghe zampe sottili,
sgraziata,
ci prova a ballare.
E si impiglia
in una ragnatela dimenticata.
Nessuno vuole trattenerla,
ma lei si dibatte
senza riuscire più a staccarsi.

Bamboline russe,
un piccolo essere umano dentro un grande essere umano.
Un sottoinsieme,
un’inclusione.
Entrambi vivi,
sulla stessa lunghezza d’onda cardiaca.
Ma potrebbe scatenarsi un putiferio interno?

E’ una bacca rossa,
ormai ha il proprio colore,
ma è dura,
e non può essere succhiata.
Diventerà morbida
dentro all’involucro che la protegge.
Sarà di dicembre,
quando anche lui sarà maturo,
pronto per sentire l’aria
sulla sua pelle,
buccia delicata
che racchiude fluidi visibili e impalpabili.
Ma il tempo è quello della natura tutt’intorno,
senza differenze.

Le due poesie successive sono tra quelle che appaiono più brevi di quanto non lo siano, nella quotidianità degli affetti familiari o nel loro ingrandirsi a dismisura nell’umano (ciò che prosegue anche nella poesia successiva a queste), in quei pochi versi finali che lasciano sgomenti e che danno la misura a tutto il componimento. Anche qui partono più “da prima”, ma terminano nell’immediatezza:

Sul letto,
faccia a faccia,
è sera,
finisce la giornata
che ci ha visto contrapposti.
Ora si scoglie tutto
e rimangono i nostri visi.
Chissà cosa pensi
adesso che pensi.
E proprio in questo momento
che mi guardi
e non mi ascolti.
Chissà cosa pensi,
che ancora non sai di pensare.

Ho un bambino di tre giorni
e sette anni
tra le braccia
mentre ricordo quello che abbiamo fatto
in tutto questo tempo
e quello che abbiamo capito
confusi dal fragore del quotidiano.
Lui è cresciuto,
allungandosi in ogni direzione
afferra il mondo.
Io sono cambiata,
annaspando alla ricerca
di acciuffarne almeno un lembo.

Quell’umano ingrandito, divenuto assoluto, rilascia lo stupore a tante piccole sorgenti, come questa, che zampillano in varie direzioni:

I figli
si insinuano
e si soffermano
tra il genitore
e il suo sé più profondo.
Perciò non consentono la felicità.
Salvo schivarli,
fingere di non conoscerli,
per un po’.

Lo stupore può essere anche elaborato e trattenuto da un inizio in sordina, per poi giungere al solito finale che in un verso, due, massimo tre, racchiude l’unica frase che solleva il discorso nell’inconsueto, qui in un ritorno agli anziani, dopo Mi affido agli antenati, ancora “visivo”, dove la lentezza del movimento osservato possiede la delicatezza che solo occhi colmi di riconoscenza avvertono come sacra:

I passi
degli anziani,
nei loro panni
sarebbe tutto da raccontare.
Ma mancherebbe la forza,
non il tempo.
Mancherebbe anche una visione lucida,
forse,
offuscati da una cataratta esistenziale.
Ora
che è invece possibile
il mio sguardo si perde,
coglie e non si sofferma,
sempre di fretta,
e men che meno
ripassa con le parole.
Altrimenti dovrebbe scrivere
migliaia di poesie.
Ognuna per dire
che la bellezza che ci deve salvare
è già nel mondo,
però deve essere definita,
sagomata
e incorniciata.
Ripulita, ritoccata,
a volte ribaltata.
Donerei un pronto soccorso
per rianimare
chi non riesce
ad andare
passo dopo passo,
come quelli fatti dai vecchi
che instancabilmente camminano.

Infine, la chiusa delle chiuse, l’ultima poesia, bellissima, della raccolta, che suggella tutto il non detto possibile, incantata, ma come se nulla fosse, da tutto ciò che è stato, in cinque versi e una manciata di parole, la quale va trascritta senza ulteriori commenti.

Restituisco
con la parola
che sta negli angoli.
Faccio la cosa più riprovata,
scrivo poesie.

 

[1] Ciò che lei ha scritto diviene a riguardo, secondo me, indicativo: “Potrebbe arrivare a chi legge la percezione che continuamente oscillo tra mancanza e pienezza, il sentore di una sete non estinguibile che si placa soltanto per il tempo di scrivere.”

[2] L’autrice stessa insiste sul tema della purificazione in queste parole di presentazione al corpus: “Mi purifico formando una raccolta, mi libero di tutte queste parole per permettere a me stessa di scrivere ancora.”

 

Commenti

  1. Nadia

    Daniela i tuoi articoli si leggono tutti d’un fiato. Ci travolgi presentando tutti questi fantastici artisti.
    Complimenti anche a Valentina, mi sono piaciute tutte le sue poesie in particolar modo “Mi affido agli antenati”…BRAVE!!

    1. Autore
      del Post
      Daniela Gliozzi

      Nadia! Grazie dei tuoi complimenti che sai sono tanto più apprezzati da me in quanto provengono da una persona così sensibile e intelligente come te. Ti dirò, “Mi affido agli antenati” è anche la mia preferita. Valentina è poeta (uso il maschile apposta, perché non mi piace tanto “poetessa”) geniale e spero che le sue poesie possano riscuotere il successo che meritano.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *