La verità dell’oggetto comico

Daniela Gliozzi, N.465

 

Il comico è innanzitutto l’altra faccia dell’apparire. E se l’apparire è l’essere – come per molti è – il comico è anche l’altra faccia dell’essere. La faccia nascosta, naturalmente.
Dunque è ‘altro’ ed è nascosto. Il comico è nascosto da qualcosa che gli sta sopra, è nascosto da una superficie, e dunque, per dargli una terza definizione, è profondo.
Il comico è profondo, sta sotto, è basso. Ecco, quest’ultimo aggettivo è veramente il migliore per definire il comico: esso è basso. Ma ciò che è nascosto non solo si trova sotto una superficie, è anche dietro di essa, è dietro un velo opaco.
Un velo copre una nudità, per esempio, copre tutto ciò che non deve essere completamente visto.
Quarta definizione del comico: esso è il non completamente visto. E poiché non può essere visto del tutto, è misterioso, come una parvenza, un fantasma, un sogno. E’ misterioso come ciò che fa paura, ma che si vorrebbe comunque svelare, si vorrebbe scoprire.
Il comico sembra essere quindi la parte nascosta di cui ci vergogniamo. Ma perché il non-rivelato (notare l’etimo revelare [re-velum]: ‘togliere il velo’) che affiora, lo è perché fa paura? Ciò che si nasconde è forse nel nostro immaginario oggetto per eccellenza che si rifiuta e che ugualmente attrae. Essendo mancata conoscenza, momento della pre-rivelazione, oggetto ancora velato, il suo non essere previsto né prevedibile scatena il meccanismo della paura. Di rimando suscita curiosità in quanto intravisto, in quanto oggetto che si dichiara, che afferma se stesso nonostante non si mostri.
Ad essere precisi, il comico non è ancora tale in quanto protetto dietro il suo velo, ma si esprime in un’azione, cioè in quell’atto del venir fuori, nello svelamento stesso. Nel suo uscire (autonomo) proprio in quel momento in cui si svela, esso è tale.
Nel suo libro sul comico, Ferroni scrive: “Freud spiega che nel comico il riso deriva da un confronto tra due rappresentazioni [il corsivo è mio], cioè tra quella che ci si attenderebbe da una situazione normale [il nostro aspetto ‘esteriore’, nonché usuale] e quella che in realtà viene fornita dall’oggetto comico [il non rivelato].” (1)
Ma perché il riso? Cosa c’entra il riso con ciò che risale dal basso o che si svela perforando una superficie opaca, e cosa c’entra con ciò di cui si ha vergogna e paura? Il riso viene spiegato da Ferroni come il piacere che “risale a sua volta al risparmio dell’energia che avremmo dovuto impiegare per rappresentarci qualcosa di grande e di superiore (ad esempio un’autorità) e che invece diviene libera alla vista di questo ‘grande’ ridotto a piccolo, svalutato o camuffato.” (2) . Quando insomma ci liberiamo dal soffocamento della soggezione, ma anche dal soffocamento della norma, ridiamo.
Il comico, in quanto divergenza dalla normalità, è pazzia. Il rifiuto della devianza dalla norma può equivalere all’insieme di inibizioni, di impedimenti, di divieti non del tutto coscienti che Ferroni chiama “‘censure’ psichiche” (3) e che afferma essere altra cosa dal “divieto sociale perfettamente cosciente”, che il Witz, il motto di spirito, elude. Comunque, qui si tratta di stabilire che tipo di rapporto ha l’uomo, specificamente quello moderno, non tanto con le censure inconsce, ma con quella parte di sé che conosce ma che non rivela del tutto, fatta di pensieri, desideri, fantasie, sogni, che ricordiamo o quelli ad occhi aperti, che associamo simbolicamente a qualcosa che riconosciamo nello stesso tempo come ‘basso’, ‘volgare’, ‘ridicolo’ (notare l’etimo ‘ridiculum‘, derivante da ‘ridere‘ ), cioè che subiscono un giudizio negativo sia morale che estetico, nostro e/o da parte della società. E allora succede che, ad esempio, nel sogno agiamo in un modo che non avremmo mai la ‘faccia tosta’ di ripetere da svegli. Il sogno, momento in cui affiorano anche i nostri desideri più stravaganti e gli oggetti delle nostre inibizioni, mostra noi stessi in altra veste. Nei sogni siamo come matti, e la nostra ‘pazzia’ è tale in quanto collegata ad una condizione pre-psichica, non inibitoria e germinale. Il pazzo è spesso simile al fanciullo, anche se non gli vengono ‘perdonate’, non ne sono accettate, le bizzarrie che nel fanciullo sono giustificate.
La follia è interpretabile, dunque, come una dimensione dell’umano che svela una genuinità quasi del tutto preclusa alla condizione della ‘normalità’; è associabile ad uno stato ancora non rivestito della scorza che mano a mano l’uomo va costruendosi intorno, affrancandosi dall’età infantile.
La follia può simboleggiare l’uomo nudo, lo specchio di ciò che nell’uomo è verità, è essenza. E in quanto verità umana, in quanto essenza umana, e non in quanto altro, la follia spesso simboleggia, nella nostra cultura, il male. Il male è essenza dell’uomo. Ciò che è nell’uomo, nascosto in esso, rifiutato da esso, più o meno consapevolmente, e dalla comunità degli umani, è parte integrante dell’uomo, è la sua parte, tanto più profonda a giacente nell’ombra, nel buio, quanto più vera.
Nella Commedia dantesca il comico trova posto nelle Malebolge, nel covo di diavoli, pazzi nella loro farsa di buffoni. Quelli non sono esseri seri, ma esseri comici.
Una delle fonti di Dante è la demiologia dell’area celtica, irlandese. Lucifero è molto presente nella fantasia popolare, soprattutto nordica, e Dante, nelle Malebolge, si avvicina di molto all’immaginario popolare. Qui il diabolico è strettamente legato alla teatralità del Medioevo e non è un caso che la Chiesa guardasse, di rimando, al teatro con molto sospetto.
Huizinga, discutendo la terminologia riguardante il termine ‘ludus‘, coglie la stretta connessione tra il teatro e il gioco (4). I ludi scaenici erano le rappresentazioni sceniche; in inglese un unico termine indica entrambi i significati; notare, riguardo a ciò che ho detto sul velo che fa intravedere e che quindi allude, l’etimo di quest’ultima parola: ‘ad-ludere‘, ‘avvicinarsi al gioco’, ‘scherzare’.
Partendo proprio dalla connessione tra il gesto e il teatro, vorrei definire un possibile ambito di rapporti che intercorrono tra il nostro comportamento e il gesto.
Il gesto è, con la parola, mezzo di comunicazione, è, insieme ad essa, il modo per mettersi in rapporto, di porsi di fronte all’altro. Il gesto è visibilità, manifestazione. E’ gioco, quindi, nel momento in cui ci si reinventa, ‘si fa finta di essere’. Nel carnevale il buffone è il re decaduto, come il diavolo è un angelo decaduto (5). La maschera del buffone mostra il contrario di quello che si è nella vita normale. Il carnevale è la manifestazione popolare del ‘mettere in scena’ la propria condizione ludica, condizione contraria a quella ‘normale’.
Riferendosi al saggio di Bachtin su Dostoevskij, Ferroni spiega: “La festa carnevalesca si collegava per antitesi a riti e a feste serie e religiose, e si costruiva su materiali modellati su quegli stessi della cultura dominante, ma perfettamente rovesciati e scambiati di segno. Era proprio il riso a provocare ‘l’abbassamento’ e il rovesciamento a tutti i livelli: dalle parodie di riti e di formule religiose (fino al punto estremo rappresentato dalle famose feste dei folli) ai veri e propri ‘rovesciamenti di ruoli’, limitati naturalmente al tempo del carnevale, tra padroni e servi, potenti e umili, ecc., si affermava così un universo strutturato su di una logica tutta diversa da quella dell’universo ufficiale” (6) , sicché, “per i parodisti del carnevale [il riso] ‘è una verità detta sul mondo… una specie di seconda rivelazione del mondo.’ ”
‘Fare finta’ è il gioco dei bambini, è immedesimarsi in un altro essere possibile in un altro mondo, quell’altro mondo che – dice Bachtin nello straordinario libro citato da Ferroni – a carnevale, intero, si rivela una seconda volta.
Il gioco è esplicazione della dimensione infantile, originaria dell’uomo: è l’altro lato del serio in cui i rapporti sociali quotidiani, comuni, sono incanalati.
Il personaggio comico agisce dunque in un mondo diverso: infantile, ludico, non serio, primordiale, puro, essenziale, vero.

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  1. Giulio  Ferroni, Il comico nelle teorie contemporanee, Bulzoni, 1974.
  2. Giulio Ferroni, cit.
  3. Per questa e la successiva citazione, cfr Giulio Ferroni, cit.
  4. Johan Huizinga, Homo ludens, Einaudi, 2002.
  5. Riporto il riferimento bibliografico proposto dallo stesso Ferroni riguardo a questa tematica: E. Kris, Ricerche psicanalitiche sull’arte, Einaudi, 1967.
  6. Per questa e la successiva citazione, cfr Giulio Ferroni, cit. La citazione interna è tratta dal libro di Michail Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica, Einaudi, 1968.

[Ho riportato qui un brano tratto dal mio “diario”, scritto a ventuno anni.]

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